P R O S S I M A M E N T E

Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore

sabato 30 luglio 2011

Debito: pantomima americana, psicodramma europeo

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano del 30/07/2011

Debito: pantomima Usa, psicodramma europeo
Quella sull’innalzamento del tetto per legge del debito americano è una pantomima politica, ben più che una tragedia finanziaria. Prima della mezzanotte del 2 agosto, termine ultimo, l’accordo si farà; e Obama il mite e Boehner il cattivo celebreranno insieme l’intesa e l’orgoglio bipartisan a stelle e strisce. Salvo, poi, trovare presto modo di litigare di nuovo: di qui alle presidenziali 2012, il copione è già scritto. E se mi sbaglio? Se non ci azzecco proprio? Lo sapremo fra 72 ore: verrò alla canossa del commentatore smentito.

Invece, la crisi dell’euro e le ansie da default vero della Grecia e di altri anelli deboli della moneta dell’unione è uno psicodramma europeo, la cui lieta fine non è affatto sicura. Personalmente, stavo tranquillo: “Fuochi di paglia“, mi dicevo. “L’euro non brucia, male che vada la Germania e la Francia lo salveranno“.

Poi, due persone che ne capiscono più di me m’hanno messo il tarlo del dubbio. Una è Romano Prodi, che qui vale come ex presidente della Commissione europea. L’altra è Antonio Foresi, per molti anni volto e voce della Rai da Bruxelles e tutt’ora fine analista europeo.

In una chiacchierata pubblica, a Bologna, Prodi si dice “sconvolto” dalla mossa della Deutsche Bank di ‘scaricare’ 7 miliardi di euro di titoli italiani: “E’ la fine -constata- di ogni legame di solidarietà“.

E Foresi mi fa notare che il ministro dell’economia tedesco Schauble, uno che Kohl teneva a freno, mentre Merkel lo lascia fare nella speranza, puntualmente delusa, di salvare un po’ di seggi in qualche Land, pare sabotare i piani ‘salva Paesi‘ e ‘salva euro‘: dopo avere detto che era impossibile tirare fuori dai pasticci la Grecia e, poi, che il default tecnico era inevitabile, se n’è uscito sostenendo che il piano approvato con tanti patemi da un Vertice dell’eurozona non è affatto automatico. E l’euro e i mercati sono andati giù.

Insipienza? Difficile. Calcolo? Forse. Ma, senza solidarietà e senza bussola politica europea, pure senza leader carismatici convinti e riconosciuti, l’euro può davvero rischiare. Una volta, ci avrebbero pensato Mitterrand e Kohl. Oggi, Prodi riduce a una gag il direttorio franco-tedesco: “Lei, la Merkel, detta il cammino e lui, Sarkozy, fa la conferenza stampa“.

L’Italia? Non c’e'; e, comunque, non l’ascolta nessuno (e talora è meglio così). Però, un italiano dovrebbe presto ergersi a difensore dell’euro: Mario Draghi, prossimo presidente della Banca Centrale. Se novembre non sarà troppo tardi.

venerdì 29 luglio 2011

SPIGOLI: Serbia s'avvicina a Ue, Kosovo fa ripicche

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/07/2011

La Serbia si avvicina all’Ue, con la cattura e la consegna dei criminali di guerra Ratko Mladic e Goran Hadzic. E il Kosovo, quasi per ripicca, accende le tensioni alla frontiera settentrionale e innesca la reazione violenta dei giovani serbi. La forza internazionale, la Kfor, inizialmente sorpresa e sopraffatta, riprende il controllo della situazione e occupa i posti di frontiera contesi, Jarinje, quello incendiato dai serbi, e Brnjak. L’Ue parla con la flebile voce di lady Ashton, che chiama Belgrado e Pristina. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunisce a porte chiuse, su richiesta serba. Kosovari e albanesi di Tirana denunciano il ‘pan-serbismo’, ma, ad accendere la miccia, sono state le autorità kosovare, spedendo, lunedì, unità speciali della loro polizia nei due posti di frontiera, per fare applicare un embargo commerciale sull’import di prodotti serbi (la Serbia ha un embargo analogo sui prodotti kosovari). E’ la prima volta dalla dichiarazione d’indipendenza del 2008 che Pristina pretende di controllare il Nord del Paese, abitato quasi esclusivamente da serbi che vogliono dipendere da Belgrado. Prevedibile, come risposta, la collera serba, in una regione tradizionalmente teatro di tensioni inter-etniche. L’intervento della Kfor ristabilisce una calma tesa. Belgrado vuole salvare il dialogo con Pristina, avviato sotto l’egida dell’Ue: dall’Onu, s’aspetta una conferma che “il dialogo è la sola risposta ai problemi del Kosovo” e una messa in guardia ai kosovari contro “iniziative unilaterali”. Meno conciliante il premier kosovaro Hashim Thaci, che, sostenuto dal presidente albanese Sali Berisha, avverte: “Non ci ritireremo dal Nord, ma vi stabiliremo l’ordine e la legge”, senza “fare compromessi con nessuno”.

Usa/Ue: pantomima su debito inguaia (di più) l'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/07/2011

E’ la solita solfa: “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Perché, in questo lungo eterno momento di fibrillazioni finanziarie, di attacchi ai Paesi dell’euro più deboli, Grecia, Irlanda, Portogallo, ma anche Italia e Spagna, l’Unione europea, i cui leader provano di Vertice in Vertice un’incapacità a decidere disperante, avrebbe bisogno di un clima finanziario internazionale sereno.

Invece, il protrarsi del duello sullo sforamento del tetto del debito Usa tra il presidente Obama e l’opposizione repubblicana, che è in maggioranza alla Camera, accresce l’irrequietezza dei mercati e contribuisce all’attivismo frenetico delle agenzie di rating, che paiono quasi pagate a cottimo, un tanto a ‘downgrading’ di uno Stato o di un’azienda.

E, a soffrire, è il mercato del debito europeo: aumentano gli ‘spread’ dei titoli nazionali meno forti, fra cui quelli italiani, e l’euro perde terreno sul dollaro, anche se ne resta nettamente più forte. Eppure, lo sanno tutti, ma proprio tutti, persino i finanzieri alla Michael Douglas del film ‘Wall Street’ e gli analisti di Fitch and Company che quello americano è solo “uno spettacolo politico”: lo dice il vice-ministro delle finanze russo Serghiei Storciak, lo pensano senza dirlo perché sono più riservati i dirigenti cinesi.

Di fatto, cambia poco, perché l’importanza dei titoli del tesoro Usa sul mercato mondiale non dovrebbe variare, se non altro perché non c’è nulla che possa, al momento, “soppiantarli sulla scala esistente”. Sarebbe diverso ci fossero gli ‘eurobonds’, ma non ci sono. E, anzi, di questo passo, arriveranno prima i ‘bonds’ cinesi. Perché, di fronte agli attacchi della speculazione e alle esitazioni di Barack Obama versione ‘tentenna’, l’Unione non risponde dando prova di solidarietà, ma all’insegna del ‘chi fa da sé fa per tre’.

Come la Deutsche Bank che ‘scarica’ 7 miliardi di euro di titoli italiani e sconvolge Romano Prodi, ex presidente della Commissione di Bruxelles, che vi legge “la fine di ogni legame di solidarietà europea”: una scelta che “obbliga tutti a giocare in difesa”, che brucia d’un colpo un quinto di manovra italiana e che “porta al suicidio anche la Germania”, oltre che ‘uccidere’ l’Italia e l’Unione.

giovedì 28 luglio 2011

SPIGOLI: Norvegia, prima delle stragi pioggia di mail ai templari

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/07/2011

Oslo si sveglia nella paura: all’alba, la polizia fa evacuare la stazione centrale perché c’è una valigia sospetta su un bus. E si dà la caccia a uno squilibrato appena rimesso in libertà: si teme voglia emulare Anders Behring Breivik, il fondamentalista cristiano che, venerdi’ scorso, ha compiuto la doppia mattanza nel centro di Oslo e sull’isola d’Utoya. Poi, gli allarmi rientrano, ma la tensione resta. E le indagini investono tutta l’Europa. Un’ora e mezza prima di cominciare le stragi, Breivik invio’ un migliaio di mail in diversi Paesi con allegato il suo documento di 1500 pagine dal titolo '2.083, una dichiarazione d’indipendenza europea’, dove racconta la preparazione del massacro senza rivelarne la data. Tra i destinatari, almeno 130 sono in Gran Bretagna, 115 in Italia e 74 in Francia, secondo Le Point. Il manifesto memoriale di Breivik, che parla di una «nostra organizzazione», cita una rete transnazionale di cavalieri templari con nove fondatori e cellule autonome e indipendenti. Il terrorista norvegese si dice «uno dei leader» del «movimento di resistenza patriottica nazionale e paneuropeo» e vanta «fratelli e sorelle» in mezza Europa e anche in Italia. I templari del XXI Secolo vogliono «prendere il potere nell’Europa occidentale, distruggere il marx-culturalismo e scacciare l’Islam». Realtà o deliri? L’avvocato di Breivik insiste: «E’pazzo». E non ci sono riscontri oggettivi alle sue affermazioni. A parte i 76 morti. La Norvegia pensa a rinforzare la sicurezza: 100 poliziotti in più e 2,6 milioni di euro stanziati. Esperti dell’Ue si consultano oggi con i norvegesi su come prevenire stragi del genere.

mercoledì 27 luglio 2011

SPIGOLI: Parlamento Ue sicuro come le prigioni d'Israele

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/07/2011

Che cosa hanno in comune il Parlamento europeo e le prigioni israeliane in CisGiordania? Non lo indovinereste mai: la sicurezza. La stessa società di vigilanza garantisce la sicurezza degli uffici dell’Assemblea a Bruxelles e delle carceri d’Israele nel Territori, oltre che di check-points e di colonie. La G4S, anglo-danese, è la più grande compagnia di sicurezza al Mondo e opera in 120 Paesi. A denunciare l’incongrua coincidenza, è stato un gruppo di deputati europei di diversi gruppi e diverse nazionalità, messi sul chi vive da un’organizzazione non governativa israeliana, Who profits. I deputati hanno scritto al presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek, giudicando improprio che l’Assemblea si serva di una società che contribuisce all’occupazione dei Territori, bollata a più riprese come illegale dall’Onu. Buzek s’è attivato, la compagnia ha respinto le accuse (tutto è legale, dice, anche gli scanner e i sistemi di sicurezza installati ai check-points ed agli ingressi delle prigioni). A conti fatti, pero’, la G4S s’impegna a rinunciare –e in tempi brevi- ai suoi contratti in Israele e in CisGiordania. Gli eurodeputati e Who profits vigilano che sia vero, nell’imminenza d’una stagione difficile in Medio Oriente, col tentativo dei palestinesi di fare varare l’indipendenza del loro Stato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

martedì 26 luglio 2011

SPIGOLI: Norvegia, deliri, i colpevoli? le vittime imbelli

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/07/2011

I veri responsabili della ‘mattanza’ di Oslo? Le vittime, i giovani dell’isola di Utoya ammazzati a decine –per di più, laburisti, gente di sinistra, magari solidali con gli immigrati e inclini alla giustizia sociale-: gente imbelle, che invece di andare in giro armata, come farebbero i ragazzi di un liceo d’America, se non ci fossero alle porte d’ingresso i metal detector, si sono fatti uccidere senza reagire. E Breivik ?, allora. Mica colpa sua, se quelli non lo fermavano. E poi le sue idee “profondamente sane”, “al netto dei propositi di violenza” –hai detto poco-, sono “ormai patrimonio comune di quegli europei”, che dicono “no” alla società multirazziale e all’invasione islamica e sentono “la necessità di una risposta identitaria e cristiana di tipo templare”. Ci sono momenti in cui la brutalità della cronaca e l’orrore della realtà confondono le idee anche all’analista più esperto. Ma, a farci da bussola, ci sono il Giornale e l’onorevole Borghezio, eurodeputato leghista. Certo, anche loro talora si perdono la stella polare: quelli de il Giornale puntavano ‘a priori’ contro l’integralismo islamico, nonostante indizi concreti potessero fare pensare al fondamentalismo cristiano; e Borghezio, non sapendo uscire dal labirinto dell’elogio del killer, si pone la solita domanda, «a chi giova la ‘mattanza’ di Oslo ?». Già, a chi giova? Se lo chiede pure l’Ue, i cui leader s’interrogano e i cui esperti di anti-terrorismo si riuniranno presto con quelli norvegesi per capire perchè hanno sottovalutato i fermenti ‘supremazisti’ delle società nordiche. Cecilia Malmstroem, svedese, ‘ministro dell’interno’ europeo, denuncia: «Sono troppo pochi i leader dell’Ue che condannano la xenofobia », troppi la tollerano o addirittura la corteggiano, in Italia e in Francia, in Olanda e in Ungheria, in Filandia. Breivik è un frutto anche loro. La tolleranza e la solidarietà producono i giovani dell’isola di Utoya: decine ne muoiono, decine di migliaia sopravvivono e li onorano con un fiore in mano e la giustizia nelle menti.

domenica 24 luglio 2011

Norvegia: Oslo come Oklahoma City, il terrore bianco e cristiano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/07/2011

Una nuova minaccia para-militare e terroristica insidia l’Europa, abituata, da almeno dieci anni, dopo l’11 Settembre 2001, a credere di doversi proteggere solo dall’integralismo islamico: è quella rappresentata dalle versioni fanatiche dell’ ‘integralismo cristiano’, di cui Anders Behring Breivik, il norvegese di 32 anni autore delle mattanze di Oslo, è subito diventato l’epigono peggiore. E c’è chi considera il 22 luglio 2011 norvegese una ‘Oklahoma City’ europea, con riferimento all’attentato nella capitale dell’Oklahoma il 19 aprile 1995: anche in quel caso, un militante d’estrema destra, un eroe di guerra, un supremazista bianco, come li chiamano negli Stati Uniti, agendo da solo o quasi, fece esplodere un camion bomba contro un palazzo di uffici federali, dove c’era pure un asilo, facendo 168 vittime, fra cui molti bambini.

Le forze di polizia dell’Europa occidentale sono da tempo preoccupate per i crescenti rigurgiti d’estrema destra, alimentati da un misto tossico di fanatismo anti-musulmani e anti-immigranti e resi più virulenti dalla perdurante difficile situazione economica. Le violenze, anche se talora ci scappa il morto, come in Svezia nel maggio del 2010, raramente erano però andate oltre, finora, a scontri fra bande e a scambi di coltellate. La deflagrazione di Oslo e la sanguinaria sparatoria sull’isola di Utoeya possono invece aprire una nuova fase, con il rischio di fare proseliti e imitatori: “E’ un episodio senza precedenti, specialmente in Scandionavia”, afferma Hagai Segal, specialista della sicurezza alla New York University di Londra, citato dalla Reuters.

Come bilancio delle vittime, gli attacchi di Oslo sono i peggiori mai subiti da un Paese europeo dopo le esplosioni sui treni di Madrid, l’11 marzo 2004, che fecero oltre 200 morti: peggiori anche dei kamikaze nella metropolitana di Londra, il 6 luglio 2005, che di vittime ne fecero 52. A Madrid e a Londra, la matrice delle azioni, coordinate e organizzate, con il coinvolgimento di più persone, era dichiaratamente di al Qaeda.

I parallelismi tra Oslo e Oklahoma City sono notevoli: un attacco condotto da un singolo terrorista con idee estremiste e anti-governative, legato a gruppi integralisti e tradizionalisti; un’azione mirata contro le istituzioni e i partiti attaccandone gli edifici e i rappresentanti. Resta da vedere se davvero Breivik abbia agito da solo. McVeigh ebbe dei complici, anche se, sul lettino dell’iniezione letale, finì solo lui, l’11 giugno 2001, nel carcere di Terre Haute nell’Indiana.

Se l’azione di Breivik, che l’anno scorso definitiva Gro Harlem Brundtlandt, a più riprese premier laburista norvegese tra il 1981 e il 1996, “l’assassina del paese”, per le sue politiche libertarie e antirazziste, voleva minare i presupposti di tolleranza e di libertà d’espressione della democrazia norvegese e, in generale, scandinava, un risultato l’ha raggiunto: su Facebook, c’è già una pagina dal titolo agghiacciante, “Impiccate Anders Behring Breivik”. Parole che sgomentano, in un Paese che non è neppure sfiorato dalla tentazione della pena capitale e che assegna il Nobel per la pace.

C’è una sensazione di ritardo delle forze di sicurezza a percepire la nuova minaccia: un rapporto dell’Europo, lo scorso anno, indicava l’assenza di pericoli di terrorismo di estrema destra, nonostante l’estrema destra stesse diventando “molto professionale” nel produrre online propaganda anti-semitica e xenofoba e “sempre più attiva nei network social”, al punto da rappresentare “un’insidia per gli Stati dell’Ue”. L’attenzione di prevenzione restava, però, centrata sul terrorismo più ‘tradizionale’ di matrice integralista islamica, che l’anno scorso era stato, del resto, attivo anche in Scandinavia: in Svezia, con l’attacco di un kamikaze, unica vittima del suo gesto, e in Svezia e Danimarca con episodi ancora legati alla pubblicazione, nel 2005, di vignette anti-Maometto.

Ma singole polizie erano sul chi vive. Quella britannica, ad esempio, tiene sott’occhio dal 2006il Power (British Patriots of the White European Resi stance). E quella norvegese segnalava, in un rapporto di febbraio, contatti fra gruppi di estrema-destra norvegesi, svedesi e russi, avvertendo che “l’accresciuto livello di attività di alcuni movimenti anti-islamici potrebbe condurre a una crescente polarizzazione e a situazioni di disagio, specie durante commemorazioni e dimostrazioni”. Purtroppo, s’è andati ben oltre.

L’analisi di Europol non pare tenere conto del terreno fertile rappresentato, per episodi di fanatismo e di terrorismo, dai movimenti dichiaratamente xenofobi e anti-islam, e a volte esplicitamente neo-nazisti, emersi con forza inconsueta negli ultimi tempi in Germania e in Svezia (qui, sotto il nome di Potere Bianco). E quanto l’humus dell’estrema destra sia fertile lo dimostrano i successi che forze politiche con venature e talora connotazioni xenofobe e anti-Islam hanno ottenuto in elezioni politiche e amministrative: in Belgio –la Nuova Alleanza fiamminga di Bart De Wever- e in Olanda –il Partito per la Libertà di Geert Wilders-, in Francia -il Fronte nazionale- e in Finlandia –i veri Finlandesi- e anche in Grecia e all’Est, in Ungheria, in Slovacchia, nella Repubblica Ceca.

sabato 23 luglio 2011

SPIGOLI: Star Wars sul Trasimento, un convento per Lucas

Scritto per Il fatto Quotidiano del 23/07/2011

Scene da Star Wars a Passignano sul Trasimeno, provincia di Perugia, Umbria: George Lucas, regista dei primi (e migliori) film della popolare serie, ha comprato e “amorevolmente restaurato”, spendendo circa 6 milioni di euro per l’acquisto e una decina per i lavori, un convento di cappuccini risalente al 16.o secolo e occupato dai monaci fino al 1966. Il mago degli effetti speciali cambia tutto, tranne una chiesa del 13.o Secolo che resta tale e quale, e installa una piscina, un centro benessere, una sala per il biliardo e, ovviamente, un cinema, dove avrebbe già invitato, settimane fa, gli amici suoi di Hollywood Francis Ford Coppola e Steven Spielberg, Robert DeNiro e Ron Howard: per loro, avrebbe proiettato il suo ultimo film, che non farà di certo gli incassi de ‘la forza sia con te’: un documentario sul restauro del complesso. La storia piace assai alla stampa britannica: il Daily Mail racconta che l’acquisto della proprietà, avvenuto nel 2009, era rimasto finora segreto con la complicità degli abitanti del luogo, che restano “riluttanti” a parlare del nuovo ‘compaesano’: Lucas raramente si fa vedere fuori dalla sua proprietà, se non per una passeggiata sulle rive del lago. Ma capita che il regista e sua moglie ordinino “enormi quantità” di gelato per i loro ‘parties’. Al Sunday Times, Claudio Bellaveglia, sindaco del paese, che è stato ospite al convento -era la prima volta che ci entrava, in vita sua-, dice: “Abbiamo rispettato la sua volontà. Se ci fossimo comportati in modo diverso, saremmo stati dei provinciali”.

Belgio: crisi record verso l'epilogo (ma non era poi così male)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/07/2011

Dopo la crisi politica più lunga, un vero e proprio record mondiale, il Belgio intravvede un accordo per la formazione di un governo: otto partiti fiamminghi e francofoni hanno raggiunto un'intesa per negoziare incarichi e programmi. Entro l’estate, sarà cosa fatta. Dal patto, sono fuori i nazionalisti fiamminghi, i vincitori delle elezioni politiche del giugno 2010.

L'intesa lascia sperare nel superamento di una crisi che mette a prova l'unita' del Paese, compromessa dalla contrapposizione fra i fiamminghi al Nord, due terzi della popolazione, cattolici e tendenzialmente conservatori, e i valloni al Sud, francofoni, laici e socialisti. I fiamminghi, più ricchi, puntano all'autonomia, se non all'indipendenza; i valloni restano favorevoli a uno stato centrale forte.

L'appello lanciato dal re dei belgi Alberto II giovedì, in occasione della festa nazionale, ha trovato un’eco positiva in una notte. Uscendo dal riserbo che la Costituzione gli impone, il sovrano aveva avvertito che la mancanza di un accordo comprometteva non solo l’unità del Paese, ma anche l’integrazione dell’Europa. E ciò proprio nel giorno in cui, al Vertice dell'eurozona, il Belgio confermava la sua vocazione europea: sì all'accordo salva Grecia e salva euro e, inoltre, la proposta di un ministro delle finanze europeo unico e un sì agli eurobond.

L'assenza di un governo post-voto non e' stata, però, sentita in modo drammatico dalla popolazione: l'esecutivo di Yves Leterme, in carica per gli affari correnti, ha gestito bene una situazione difficile e ha pure garantito, nel secondo semestre 2010, un buon turno di presidenza del Consiglio dell'Ue.

Norvegia: bomba nel cuore di Oslo, strage di giovani su isola

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/07/2011

L’ombra d’un attacco terroristico islamico concertato s’allunga su Oslo dopo una giornata di sangue e di paura: la capitale della Norvegia offre immagini di distruzione e di devastazione, che ricordano le scene di New York 2001, Madrid 2004, Londra 2006. Una decina, forse, le vittime; decine i feriti (se ne ignorano le condizioni): le informazioni sono frammentarie, le fonti ufficiali sono caute e ‘abbottonate’.

Su internet, compare la rivendicazione di un gruppo jihadista finora sconosciuto: “E’ solo l’inizio, vi aspetta ben di peggio. Gli attacchi, una ritorsione per la presenza della Norvegia in Afghanistan, miravano a colpire al cuore una grande democrazia scandinava rimasta finora praticamente indenne dai germi del terrorismo, che, a varie riprese, hanno invece contagiato la Svezia, a partire dal mai del tutto chiarito omicidio del premier Olof Palme, negli Anni Ottanta, e la Danimarca: Ma, specie dopo la rivendicazione, l’allarme s’è esteso a tutti i Paesi della forza Isaf, fra cui l’Italia.

Due e distinti gli episodi ieri a Oslo, ma, secondo la polizia, certamente collegati l’uno all’altro. Prima, alle 15.26, l’esplosione di una o due bombe di forte potenza nel centro della capitale, presso una sede del governo; poi, di lì a poco, una sparatoria su un’isola nei pressi di Oslo, a una riunione di giovani socialisti. La deflagrazione ha devastato un palazzo di 17 piani, sede del Verdend Gang, maggiore tabloid norvegese, e di agenzie governative, e ha danneggiato l’ufficio del premier, che non c’era, però, al momento dell’esplosione. Calcinacci, vetri infranti, incendi sporadici, urla e paura: il centro di Oslo appariva, nel pomeriggio, una zona di guerra, polvere, fumo, devastazione.

Il premier Jens Stoltemberg, laburista, ha diffuso in tv un messaggio solo audio, per motivi –è stato detto- di sicurezza: senza denunciare il terrorismo, afferma che la situazione “è molto grave”. Uno dei suoi consiglieri, Sindre Fossum Beyer, fa sapere che “il premier è al sicuro”.

I bilanci sono ancora provvisori e non ufficiali, Secondo i media norvegesi, due persone sono morte e numerose altre sono rimaste ferite nell’esplosione prodottasi nel centro della capitale. Sulla base delle testimonianze, e mentre sono in corso accertamenti balistici e scientifici, la polizia ha parlato “di una o due bombe”, senza indicare il numero delle vittime, limitandosi a confermare che vi sono “dei morti” e “di una decina di feriti”. Un’auto sarebbe stata vista passare a tutta velocità sulla scena dell’attentato, poco prima della deflagrazione, ma non c’è conferma che c’entri qualcosa con quanto avvenuto.

Poco più tardi, un uomo vestito da poliziotto ha aperto il fuoco in una riunione dei giovani laburisti, sull’isola di Utoeya, alla periferia della capitale (il premier doveva intervenire al meeting). Anche in questo caso, la polizia conferma l’episodio, senza fornire particolari. I media norvegesi parlano di alcune vittime, forse sette. L’autore della sparatoria è stato arrestato, ma la sua identità non è stata ancora rivelata.

Un portavoce della polizia ha invitato gli abitanti di Oslo a restare in casa e ad “evitare di radunarsi in massa”, per non offrire bersagli a nuovi attacchi. Decine di persone hanno fatto ricorso ai medici degli ospedali perché colpite nel crollo delle macerie o dai vetri. Il quartiere delle esplosioni è stato completamente chiuso, mentre gli agenti e i cani poliziotti cercavano d’individuare la presenza eventuale di altri esplosivi e di raccogliere indizi.

La Norvegia è un paese che non ha mai voluto entrare nell’Ue –per due volte, l’adesione è stata bocciata da un referendum-, ma che fa parte della Nato: è impegnata in Afghanistan, con circa 500 uomini nel Nord, e partecipa in Libia alla missione ‘Unified Protector’.

Espressioni di condanna degli attentati e di solidarietà al popolo norvegese sono venuti da tutto il Mondo: un messaggio di cordoglio del presidente Napolitano, uno di deplorazione del presidente Obama. Il governo di Oslo potrebbe invocare l’attivazione dell’articolo 5 della carta atlantica, quello già attivato dopo gli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001 contro gli Stati Uniti, che scatta quando un paese dell’Alleanza è sotto attacco e che prevede che tutti gli altri contribuiscano alla sua difesa.

venerdì 22 luglio 2011

SPIGOLI: sposarsi è una lotteria nella NY dei matrimoni gay

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/07/2011

A New York, solo oggi gli aspiranti al matrimonio domenica sapranno se potranno davvero sposarsi, o se dovranno aspettare ancora un giorno o più. Il 24, infatti, entra in vigore la nuova legge dello Stato che autorizza i matrimoni omosessuali e gli uffici comunali sono stati travolti dalle domande delle coppie gay che vorrebbero, tutte, sposarsi proprio il primo giorno che ne hanno diritto. La valanga di richieste di matrimoni omosessuali ha cosi’ provocato un ingorgo da tutto esaurito : risultato, domenica si sposa solo chi vince la lotteria del sorteggio. Il sindaco Michael Bloomberg ha infatti deciso di porre un tetto: potranno dire si’, anzi ‘I do’, come si fa là, nei cinque ‘municipi’ newyorchesi, solo 764 coppie, etero o omo che siano. E, per evitare favoritismi, è la sorte a decidere a quali coppie fra quelle che hanno fatto regolare domanda toccherà il matrimonio. In pratica, solo un candidato su quattro ce la farà, perchè le domande presentate, martedi’, quando è stato deciso il sorteggio, erano 2.661, di cui 1.728 gay. E le richieste continuano ad arrivare. Il fatto che le coppie omosessuali superino quelle etero non deve meravigliare: c’è da smaltire, tutto in una volta, il ‘peso del passato’. Entro oggi, si saprà chi ha vinto la lotteria del matrimonio. Gli altri, al prossimo turno. Meglio cosi’, è il parere di Bloomberg, che avere lunghe file di fronte ai cinque municipi, a rischio di mandare a casa delusi (e non sposati) migliaia di aspiranti.

giovedì 21 luglio 2011

SPIGOLI: piano casa Israele rilancia voglia Palestina

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2011

La partita vera si giocherà a settembre. Ma, Israele non aspetta il fischio d’inizio: a fare gol, o autogol, ci prova subito. L’annuncio di piani per la costruzione di 294 nuovi alloggi a Beitar Illit e Karnei Shomron, due insediamenti ebraici nei Territori, rafforza la volontà dei palestinesi di ottenere il riconoscimento della Palestina come Stato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e l’ammissione all’Onu. Abu Mazen dice che è l’unica strada rimasta, vista l’incapacità del Quartetto di rilanciare la trattativa; e la Lega Araba appoggia la mossa, che creerà imbarazzo agli Usa e dividerà l’Europa. Dalla sua cella, Marwan Barghuti, leader di al fatah, condannato all’ergastolo per terrorismo, invita i palestinesi a scendere in piazza. La tesi di Israele è che i piani di costruzione sono solo una risposta al ‘caro casa’ e alle proteste che ne derivano, in un contesto di crescente malessere sociale. Ma, mentre i conflitti tutto intorno, la guerra in Libia, la repressione sanguinosa in Siria, gli sviluppi in Egitto e in Tunisia della Primavera Araba, tengono occupata l’opinione pubblica mondiale, la cronaca quotidiana israelo-palestinese resta fatta di gesti ostili: scambi di razzi e raid; e abbordaggi alla flottiglia dei filo-palestinesi verso Gaza. A tenere l’Islam in scacco, ci pensano i presidenti siriano Bechir al-Assad, che riconosce in anticipo la Palestina, e soprattutto l’iraniano Mahmud Ahmadinejad, che minaccia di mandare Israele «all’obitorio».

Afghanistan: tutti a casa un po' per volta, Karzai resta solo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2011

Un po’ per volta, vengono via tutti. E restano le forze di sicurezza afghane, a provare a garantire la pace in un Paese dove i talebani, da quando si parla di ritiro e di trattative, hanno ridato vigore alla loro offensiva. Da ieri, le truppe afghane hanno il controllo d’una città chiave del Sud, Lashkar Gah, capitale della provincia d’Helmand, turbolenta e pericolosa, dove c’è l’ospedale di Emergency al centro di polemiche e di perquisizioni. E, pochi giorni or sono, era toccato ad un’intera provincia, Bamiyan, una delle più sicure, nel centro del Paese, a ovest della capitale, l’unica governata da una donna, Habiba Sorabi, e abitata da una minoranza, gli hazari, perseguitata dagli integralisti e, quindi, loro ostile: un tempo, era famosa per i giganteschi buddha tagliati nella pietra (e fatti saltare proprio dai talebani iconoclasti).

Il passaggio di consegne a Lashkar Gah e' coinciso con due attentati: uomini armati hanno attaccato un commissariato di polizia a Kandahar, sempre nel Sud, uccidendo quattro poliziotti, in uno scontro a fuoco durato nove ore; e a Mazar-i-Sharif, nel Nord, una delle città che dovrebbero essere presto affidate alle forze afghane, una bici-bomba ha ucciso 5 civili, tra cui un bambino, e ne ha feriti molti altri.

Fra le 7 areee che resteranno sotto esclusivo controllo afghano, secondo quanto previsto dal programma di transizione, Lashkar Gah e' quella più inquieta: un vero e proprio test della capacita' di Kabul di gestire una situazione ben lungi dall'essere pacificata. Annunciando l’inizio del ritiro, il presidente Usa Barack Obama aveva, del resto, riconosciuto: “Il lavoro non è finito, ma Kabul è più sicura”. E il capo di Stato Maggiore della difesa Usa, generale Mike Mullen, aggiungeva: “Con l’avvio della transizione, i rischi aumentano”.

Il piano era stato accolto bene dalla Nato (“Il ritiro graduale nasce dai progressi fatti”) e dal presidente Hamid Karzai –ma nè l’Alleanza nè Karzai avevano alternative-. I talebani avevano fatto spallucce: “La riduzione delle forze non è una soluzione, noi continuiamo la jihad”. Ma intanto si negozia, neppure troppo in segreto.

L’inizio del passaggio di aree del Paese sotto l’unico controllo delle forze afghane (per ora, due provincie, un distretto, 4 città, fra cui l’ ‘italiana’ Herat: complessivamente, neppure un decimo del territorio nazionale) ha coinciso con il ritiro dei primi americani: un reparto di 650 uomini dislocato a nord-est della capitale, avanguardia degli almeno 30 mila uomini che dovrebbero andarsene entro il settembre 2012, quando la campagna per le presidenziali entrerà nel pieno. E il ‘partiam partiamo’ contagia i francesi, che hanno recentemente subito cinque perdite in un giorno solo, e pure gli italiani, che sono a quota 40 caduti –gli ultimi due a luglio-. Il taglio dei militari all’estero da 9.250 a 7.000 si farà soprattutto in Afghanistan.

Per l’America, la fase di adattamento della strategia afghana è complessa. Prima dei suoi soldati, è partito il generale David Petraeus, l’uomo del ‘surge’ prima in Iraq e poi qui, chiamato a guidare la Cia al posto di Leon Panetta, andato a capo del Pentagono dopo l’uscita di scena di Robert Gates –prima missione, l’Afghanistan dove ha detto che “la sconfitta strategica di al Qaida è vicina”. Al posto di Petraeus, il generale John Allen.

Sulla riuscita dello sganciamento, pesano due incognite: la tenuta e l’affidabilità delle forze afghane e la capacità dei talebani di condurre l’offensiva che ha avuto, negli ultimi giorni, il suo acme nell’uccisione a Kandahar di un fratellastro del presidente Karzai e poi nell’attacco al suo funerale, con diverse vittime in una moschea. Le cronache delle ultime settimane sono un’alternanza di attentati e agguati, da una parte, e di successi della coalizione, come il raid del 30 giugno in cui fu ucciso uno dei capi della rete terroristica locale, Sirajuddin Haqqani.

mercoledì 20 luglio 2011

SPIGOLI: italiani contro casta, come tutti, ma un po' di più

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/07/2011

L’insofferenza degli italiani contro la casta diverte, ma non sorprende, la stampa estera: un po’ perchè “tutto il mondo è paese” (chi non ce l’ha , con i privilegi dei politici?) e un po’ perchè “come non avercela con i politici di casa nostra?”. I più attenti a cogliere e raccontare il fenomeno di Spyder Truman sono i britannici, grandi esperti di hacker, insider e compagnia bella (chi ne dubita s’accomodi alla diretta della commissione d’inchiesta parlamentare sul ‘murdoch-gate’). Quello che colpisce FT e Independent, Guardian e Telegraph e pure, oltre Atlantico, Chicago Tribune è che i politici proteggano i loro privilegi, invece di condividere i sacrifici dei cittadini nel momento in cui varano un piano d’austerità. E se Les Echos parla di “legnate contro gli abusi dei parlamentari”, Le Monde scrive papale palae: “I politici italiani cercano d’esentarsi dai vincoli del rigore”. Solo Abc, in Spagna, dopo avere celebrato “il wikileaks italiano che mette a nudo la politica”, presta credito alla riforma del ministro Calderoli, ridurre per legge i parlamentari e vincolarne il gettone alle presenze. Le storie ispirate da Spyder Truman spesso integrano cronache sulla manovra, sulla politica e, naturalmente, su Berlusconi, che, scrive Liberation; è “all’ultimo respiro”, mentre Nouvel Obs già esplora il ‘dopo Mr B’. Come capita sovente, la stampa estera corre avanti, sull’onda emotiva –accadeva lunedi’- d’un’udienza del processo per il Rubygate: “Il premier non potrà sfuggire al processo”, scrivono in molti. Ma, intanto, la prossima udienza sarà il 3 ottobre: la giustizia ha i suoi tempi, che sono sempre lunghi.

martedì 19 luglio 2011

Corno d'Africa: siccità e indifferenza minacciano 12 milioni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/07/2011

Gli allarmi crescono d’intensità e di drammaticità giorno dopo giorno. Ma la risposta dei governi e dell’opinione pubblica internazionale resta distratta e inadeguata: nel Corno d’Africa, colpito da quella che è considerata “la peggiore siccità in quasi mezzo secolo”, 12 milioni di persone, secondo le stime della Fao, mancano di cibo e sono in una situazione critica. Con il Pam, il programma alimentare mondiale, e l’Oxfam, l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura ha lanciato la scorsa settimana un appello per aiuti internazionali.

La crisi umanitaria fa affluire in media quasi 1500 persone al giorno –e c’è chi parla del doppio, di 3000- dalla Somalia al campo profughi di Dadaab, in Kenya, che accoglie ormai 380 mila persone, mentre era stato allestito per ospitarne 90 mila. Da Nairobi, Action contre la faim, una Ong, denuncia la “catastrofe” della Somalia, dove 250 mila bambini soffrono già di malnutrizione. Nelle ultime settimane, c’è stata un’escalation nella drammatizzazione delle denunce, da crisi a emergenza a catastrofe. Papa Benedetto XVI ha espresso “profonda preoccupazione”, specie di fronte alla sofferenza anche dei più piccoli. E la Chiesa fa eco al dolore del Papa stanziando prime somme poco più che simboliche –prima 50mila euro, ieri 300mila la Caritas-.

Pure la comunità internazionale dà segnali di reazione, ma lo fa ancora in modo misurato e compassato, nonostante, a Ginevra, l’UnHcr stia organizzando “un enorme carico” di aiuti umanitari, con un ponte aereo verso la zona di confine tra Kenya e Somalia (tra l’altro, 600 tonnellate di tende in arrivo dal Pakistan e altri sei voli umanitari di qui alla fine del mese). In certe regioni della Somalia, dopo la lunga siccità sono arrivate forti piogge, che mettono anch’esse a repentaglio milioni di persone, specie anziani e bambini, troppo deboli per potersi muovere e mettersi in salvo.

In tempi di crisi ovunque, mentre in Europa avanza l’egoismo del ‘ciascuno per sé’, l’attenzione dei media e la mobilitazione dell’opinione pubblica non decollano. E i governi impegnati in missioni militari più o meno di pace e comunque onerose sul piano economico e delle vite perdute, dalla Libia all’Afghanistan, esitano all’impegno umanitario, in una Regione del Mondo che ha già vissuto precedenti cruenti. Per il momento, si va avanti a piccoli: mentre i ministri degli esteri dei 27 dell’Ue, riuniti ieri a Bruxelles, non hanno preso alcuna decisione, la Gran Bretagna ha promesso un aiuto d’urgenza di quasi 60 milioni di euro per le vittime della siccità nel Corno d’Africa, le popolazioni di Somalia, Etiopia, Gibuti, Kenya e Uganda. Ed il premier David Cameron, in visita nel Continente Nero, parla “del dramma più grave da una generazione in qua”, prima di accorciare la visita e rientrare a Londra per arginare le conseguenze dello ‘scandalo Murdoch’.

Se la Somalia è tra le priorità della politica estera italiana, come ha recentemente detto il sottosegretario agli esteri Alfredo Mantica, è l’ora di dimostrarlo. Mantica era in visita a Mogadiscio il 10 luglio e ieri rappresentava l’Italia a Bruxelles –il ministro Frattini non c’era-: ai colleghi, ha riferito della sua missione. Quello somalo, in particolare, è un quadro noto e fragilissimo: le istituzioni federali di transizione dovevano scadere il mese prossimo, ma sono state prorogate di un anno, all’agosto 2012. La situazione resta precaria: l’efficacia del percorso di stabilizzazione intrapreso dopo l’uscita di scena nel 1991 di Siad Barre e dopo l’operazione militare ‘Restore Hope’ del 1993, fino a mettere in piedi e a tentare di rafforzare istituzioni centrali e federali, non è ancora dimostrata. E ai contrasti tra le diverse etnie e le personalità politiche s’è ora aggiunta la devastante carestia, peggiorando le condizioni di sopravvivenza in un Paese, che, dopo vent’anni di guerra civile, vive in uno stato di conflittualità endemico. L’assetto costituzionale ipotizzato e basato sugli accordi di Gibuti del 2008 non è stato risolutivo, perché senza un processo di riconciliazione non c’è stata la legittimazione del governo di transizione.

Se i rapporti che legano l’Italia alla Somalia hanno origine dall’epoca coloniale, le questioni che rendono l’area prioritaria per la sicurezza internazionale sono la presenza della pirateria e la minaccia, ad essa in qualche misura collegata, del terrorismo internazionale, oltre alla posizione strategica del Paese in una Regione difficile, dove l’intervento militare, umanitario e di stabilizzazione, dell’operazione Restore Hope, voluta da Bill Clinton, è proseguito con l’impegno delle Nazioni Unite prima e dell’Unione africana ora, senza però portare al superamento dello stato di conflitto latente. Anzi, la Somalia è andata frammentandosi, laddove la presunta uniformità linguistica, religiosa e culturale della nazione somala non facevano presagire un destino di balcanizzazione. E che la drammaticità della situazione sia percepita dalle popolazioni locali lo dimostra il fatto che gli integralisti islamici shebab, che due anni or sono avevano quasi cacciato le organizzazioni umanitarie, ora ne patrocinano il ritorno”anche se non sono musulmane”.

domenica 17 luglio 2011

USA: Obama evoca l' 'Armageddon del debito'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/07/2011

A due settimane dalla data ultima del 2 agosto, mentre si consumano senza esito le ore dell’opportunità data dalla Casa Bianca all’opposizione repubblicana (fino a lunedì, per un piano che riduca l’abissale deficit del bilancio Usa), Barack Obama chiama di nuovo l’opinione pubblica a testimone dell’esigenza di “un approccio equilibrato” e di “sacrifici condivisi” per risanare le finanze degli Stati Uniti. Tre conferenze stampa e due discorsi in una settimana dicono l’ansia del presidente per un’intesa.

Quello tra la Casa Bianca democratica e l’opposizione repubblicana, che ha la maggioranza alla Camera, è un braccio di ferro che si trascina, già in vista della campagna per le presidenziali dell’anno prossimo. Obama cerca un accordo ampio e bipartisan, i repubblicani non gli vogliono dare avalli, anche se corrono il rischio di apparire agli elettori come quelli che sabotano l’intesa.

E, per una volta, le agenzie di rating, che di solito, con le loro previsioni, fanno sconquassi in Europa, mettono sotto osservazione gli Stati Uniti: S&P giudica possibile un peggioramento della valutazione senza un’intesa sul debito. Per il primo presidente nero americano, è l’ennesimo momento difficile di questo suo primo mandato fatto di alti e bassi: la crisi e la ripresa, la riforma della sanità e la sconfitta nel voto di metà mandato del novembre scorso. Il successo dell’uccisione di bin Laden, nemico pubblico numero 1 della sicurezza americana, sembra già lontano e l’inizio del ritiro dall’Afghanistan non scalda i cuori, come l’emozione per l’incontro, ieri, alla Casa Bianca con il Dalai Lama, che è ben più forte a Pechino, dove diventa irritazione, che fuori dalla Beltway, il raccordo anulare della capitale federale.

Oltretutto Obama deve far fronte a una diaspora di collaboratori di primo piano, fisiologica a fine mandato, ma anticipata rispetto al solito: dopo il segretario alla difesa, Robert Gates, un repubblicano, sostituito da Leon Panetta, c’è voce di una defezione di Hillary Clinton, segretario di Stato, che sarebbe provata dalla ‘primavera araba’ imprevista nella genesi e imprevedibile negli sviluppi e che fa sapere d’essere “stanca” e d’avere in mente di ‘mollare’ l’anno prossimo.

Obama (come Napolitano) predica la coesione nazionale: “Facciamo in fretta e condividiamo i sacrifici”, tenendo però fermo il no a piani poco trasparenti e ancora meno equi, quelli dove paga la classe media e ci rimettono i più poveri per il deterioramento dei servizi. Il presidente cerca di serrare i tempi e usa immagini forti: evoca Armageddon, che, per gli americani, più che il luogo d’una profezia dell’Apocalisse, è un film di qualche anno or sono in cui un meteorite di tal nome minacciava la Terra e veniva fatto in pezzi e deviato, ovviamente in extremis, dal genio e dal coraggio dei cowboy dello spazio (i russi vi avevano un ruolo, ma da macchietta).

Quando dice che non c’è tempo da perdere, Obama non fa della retorica: il debito Usa aumenta ogni secondo di 40 mila dollari. Se s’arriva al 2 agosto, gli americani si troveranno sul groppone 59 miliardi di dollari in più. Una inezia, magari, sui 15mila miliardi di debito già accumulato, ma l’equivalente, comunque, della nostra manovra triennale ‘lacrime e sangue’. E, dietro la mancanza di accordo, c’è il rischio di un’altra recessione e di un rialzo della disoccupazione con milioni di cittadini in più senza lavoro. Davvero i repubblicani vogliono arrivare a questo, per ‘azzoppare’ il presidente e avere una chance di conquistare la Casa Bianca fra 15 mesi?

Obama batte quasi ogni giorno sullo stesso tasto. E, ieri, di nuovo, come una settimana fa, il presidente ha usato i quattro minuti del messaggio del sabato per dire agli americani come la pensa, quali sono i pericoli. La sua linea è costante: bisogna ridurre il peso del debito, mettere a posto i conti e, quindi, tagliare la spesa, ma anche chiedere ai più agiati di contribuire a una politica di rilancio della crescita e di sostegno dell’occupazione, che sventi il rischio di una ‘chiusura’ dell’Amministrazione –accadde già in passato, sia pure parzialmente- e quello, da Armageddon davvero, d’un ‘default’ degli Stati Uniti. Per questo, bisogna tenere su la fiducia del Mondo nella capacità americana di rispettare gli impegni e, soprattutto, ripagare i debiti: un film, questa volta, non basta.

sabato 16 luglio 2011

SPIGOLI: l'estate dei maestri redivivi, Leonardo e Michelangelo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/07/2011

Per la stampa britannica, è l’estate dei capolavori (italiani) perduti e ritrovati: prima, salta fuori un Salvator Mundi di Leonardo da Vinci, poi una Crocefissione di Michelangelo. L’opera di Leonardo, dopo essere stata venduta a un’asta per 45 sterline, ha trovato la giusta attribuzione –non un allievo scarso, ma il Maestro lui medesimo-, la giusta quotazione, 120 milioni di sterline, e pure la giusta collocazione, perché sarà esposta alla National Gallery di Londra in novembre, quando aprirà la mostra ‘Leonardo da Vinci pittore alla Corte di Milano’. La storia del Salvator Mundi è movimentata: proprietà dei re d’Inghilterra Carlo I e Carlo Ii, rimase a Londra per 400 anni, fino a che il suo ultimo proprietario inglese, tal Sir Francis Cook, la mise all’incanto nel 1958 come opera di un allievo di Leonardo, Giovanni Boltraffio. Finito nel 2004 nelle mani della casa d’arte Robert Simon Fine Art di New York, il dipinto è stato ‘scrostato’ da precedenti grossolani ritocchi e sottoposto a una ‘super-perizia’: quattro specialisti sono concordi nell’attribuirla al Maestro. Analoga è la vicenda della Crocifissione di Michelangelo, che dagli Anni Trenta era appesa alla parete della sala degli studenti della comunità gesuita di Oxford: generazioni di giovani l’hanno avuta sotto gli occhi ignare del suo autore e del suo valore, 100 milioni di sterline, fin quando uno studioso italiano, Antonio Forcellino, non ne ha svelato l’origine. L’opera era stata acquistata a un’asta, per una somma ignota: ora si trova, per meglio proteggerla, in un museo di Oxford e, in autunno, sarà esposta a Milano e a Roma.

Libia: tutti pazzi per i ribelli, fondi e armi, ma si tratta

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/07/2011

Il Gruppo di Contatto riconosce il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) come “l’unica autorità governativa legittima” in Libia: l’organo degli insorti contro il regime del Colonnello diventa così l’interlocutore ufficiale e privilegiato tutti i Paesi che attuano la risoluzione dell’Onu che autorizza l’uso della forza contro i lealisti a tutela dei civili.

Le conclusioni del Gruppo di Contatto, riunitosi ieri a Istanbul, per la quarta volta, dicono che “fino al momento in cui un’autorità di transizione non sarà insediata, il Cnt sarà considerato l’unica autorità governativa legittima in Libia”. Una posizione cui Francia, Italia e altri Paesi erano già giunti e cui si sono aggiunti ora gli altri protagonisti dell’operazione ‘Unified protector’, a partire dagli Stati Uniti.

Non sono solo parole. C’è anche un aspetto pratico importante, spiega il ministro degli esteri francese Alain Juppé: “Ciò significa che potremo ‘scongelare’ una parte dei beni appartenenti allo Stato libico, perchè per noi è il Cnt che ne esercita ormai l’autorità”. Dallo scorso febbraio, l’Onu, l’Ue e singoli Stati hanno adottato e progressivamente inasprito sanzioni economiche contro il regime di Tripoli, fra cui, appunto, il gelo degli averi della famiglia Gheddafi e di persone vicine al rais. Il Cnt ne reclamava il controllo, per soddisfare le esigenze della popolazione e acquistare armi.

L’accettazione delle richieste del Cnt è il frutto, sostiene il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, delle assicurazione date dagli insorti, specie “la promessa di portare avanti riforme democratiche aperte sia geograficamente che politicamente”. Hillary, che ha avuto un incontro bilaterale con Mahmud Jibril, ‘numero due’ degli insorti, è parsa “impressionata” dai progressi del Cnt.

Il Gruppo di Contatto ha anche incoraggiato i Paesi membri a fornire aiuti finanziari sostanziali al Cnt, ad aprire nei suoi confronti linee di credito e a permettergli di vendere petrolio e gas. Il documento finale sollecita pure gli insorti a mettere in piedi al più presto un governo di transizione. Parallelamente, il Gruppo ha di nuovo chiesto l’uscita di scena di Gheddafi, che “deve lasciare il potere secondo tappe definite e pubblicamente annunciate”: le conclusioni di Istanbul, a 150 giorni esatti, cinque mesi, dallo scoppio dell’insurrezione, e a quattro mesi dalla risoluzione dell’Onu che autorizza il ricorso alla forza, non esigono, tuttavia, l’abbandono della Libia da parte di Gheddafi né l’arresto del dittatore colpito da un mandato di cattura della Corte dell’Aja.

A parole, però, non c’è spazio per trattative ‘segrete’, che molti pensano siano in corso. L’invito a tutte le parti è di collaborare con l’emissario dell’Onu in Libia, il cui mandato prevede la definizione di un cessate.-il-fuoco e negoziati con Bengasi e Tripoli. “Tutti i tentativi per giungere a mediazioni segrete, confidenziali, con certi Paesi, che ci sono stati, si sono rivelati del tuttto controproducenti”, dice il ministro degli esteri Franco Frattini, senza citare nessun Paese (ma Russia e Cina, che avevano declinato l’invito a Istanbul, sono riconoscibili nelle sue parole).

Sul terreno, nessun movimento decisivo. Si combatte sulla stratd di Brega e i ribelli avrebbero fatto qualche progresso, ma avrebbero pure subito perdite.

venerdì 15 luglio 2011

SPIGOLI: Libia, Gheddafi, via l'Eni e marcia su Bengasi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/07/2011

Forse, Gheddafi, facendo la voce grossa, vuole solo coprire il brusio dei negoziati tra il regime e gli insorti. Ma certo l’ordine impartito ai suoi in un messaggio audio alla tv libica di “marciare su Bengasi” per “liberarla dai traditori” non ha nulla di conciliante. Insieme alla rottura con l’Eni, è la risposta del dittatore all’illusione francese di una ‘pace del 14 luglio’ e pure all’insistenza dei ribelli nel negare ogni soluzione politica, se lui resta al suo posto e in Libia. Mentre sul terreno il villaggio di Goualich passa e ripassa di mano tra lealisti e insorti, e mentre resta l’ombra di un transito d’armi dai ribelli ai terroristi di al Qaida –un timore avallato dall’intelligence americana-, i riti annunciati della diplomazia si consumano senza risultati tangibili. Anzi, il Gruppo di Contatto di Istanbul, assenti sia Russia che Cina, dà indicazioni contraddittorie: ci vuole una ‘road map’ per superare il conflitto, ma il ministro Frattini percepisce “una sensazione d’urgenza” per la fine delle operazioni militari che non è solo italiana. Ue e Nato, reduci da contatti al vertice con gli insorti, ribadiscono il sostegno a una “soluzione politica”, che però presuppone –insiste Washington- l’uscita di scena di Gheddafi, che “ha i giorni contati” –il ritornello stavolta lo canta Hillary Clinton-. E i civili che la Nato deve proteggere come se la passano? Il procuratore di Tripoli ne conta mille uccisi dai raid sulla capitale. La cifra sa di propaganda, ma anche solo uno è un peso intollerabile.

giovedì 14 luglio 2011

Ue: vertice dell'euro, una cena?, o una minestra riscaldata?

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano del 13/07/2011

Che cosa c’è di peggio, per l’Ue, per l’euro e per i suoi “anelli deboli”, la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l’Italia, e anche per i “signori” della moneta unica, la Germania e la Francia, di una decisione sbagliata? La mancanza di una decisione. Alimentare l’incertezza, tirarla in lungo, mettere in mostra divisioni e indecisioni vuol dire dare spago alle chiacchiere e alla speculazione. Lo sanno tutti. Eppure, ogni volta è la stessa solfa: l’attesa monta all’avvicinarsi di un vertice dell’Ue; i leader dei 27 si riuniscono e dichiarano solennemente di essere tutti d’accordo perché i loro ministri dell’Economia e delle finanze decidano, appena una certa condizione si sia realizzata; la circostanza si realizza; i ministri si riuniscono e non decidono, anche se ribadiscono di essere decisi a difendere l’euro e a salvare i Paesi sotto attacco. E, allora, comincia a circolare l’ipotesi di un vertice straordinario. Che, però, non viene convocato; anzi, lo sarà, dice il presidente Herman Van Rompuy, «al momento giusto», cioé quando tutti sono d’accordo per farlo. E siccome almeno la Germania non è d’accordo, il momento non è mai quello giusto e il tempo passa e l’incertezza resta; e i mercati divorano capitali.

Non è mica un “caso di scuola”, una storia fittizia: è esattamente quello che sta accadendo in queste ore. C’è stato il vertice europeo di fine giugno, poi la Grecia doveva adottare il suo piano “lacrime e sangue” –e l’ha fatto- ; poi i ministri dovevano riunirsi l’11 e il 12 luglio – e l’hanno fatto – e dovevano chiudere il cerchio. Ma non l’hanno fatto, perchè le modalità d’attuazione del secondo piano di salvataggio greco, specie per quanto riguarda il coinvolgimento dei privati, creano frizioni. E allora salta fuori la storia del vertice straordinario, solo dei Paesi dell’euro (17 su 27), forse venerdì 15, che poi sarebbe subito: obiettivo, dare una risposta forte alle turbolenze dei mercati e alle speculazioni, specie contro l’Italia, che, tra venerdì e lunedì, hanno di nuovo acceso l’allarme su un rischio di contagio della crisi della Grecia.

Van Rompuy si consulta, ma non tira fuori, per ora, l’invito a cena ai leader, venerdì, a mercati rigorosamente chiusi su tutto il pianeta. Sul suo Twitter, il presidente scrive che «c’è un fortissimo impegno al più alto livello a fare tutto ciò che è necessario per salvaguardare la stabilità finanziaria della euro zona». E aggiunge: «I leader devono uscire dalle pastoie delle loro agende politiche interne; e lo faranno». Sì, forse, ma quando? Siccome la Germania dice che il vertice non è in programma e che anzi non ce n’è neppure bisogno, la cena di venerdì rischia di diventare fredda senza che nessuno la consumi. O di tramutarsi in una minestra riscaldata: manco un brodino, che, almeno, tirerebbe un po’ su l’euro e la Grecia, e magari pure l’Italia.

mercoledì 13 luglio 2011

SPIGOLI: Libia, 48 ore cruciali, trattative senza condizioni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/07/2011

“Negoziati senza condizioni”: la frase che puo’ sbloccare la crisi libica è del premier Baghdadi al-Mahmoudi, un uomo di Gheddafi, in un’intervista a Le Figaro. «Vogliamo solo che cessino i raid: non si puo’ parlare sotto le bombe». E’ la palla che tutti sperano di cogliere al balzo per innescare la fine il conflitto. Il premier francese Francois Fillon dice all’Assemblea nazionale, che autorizza la prosecuzione della missione: «Sta prendendo forma una soluzione politica». Il ministro degli esteri italiano Franco Frattini chiosa: «Al-Mahmudi capisce che una soluzione politica pacifica va a vantaggio di tutti, specie del popolo libico». Alle trattative, assicura il premier, eliminando un ostacolo, Gheddafi non ci sarà. La crisi libica s’appresta a 48 ore cruciali: oggi, i leader dei ribelli saranno all’Ue e alla Nato; domani, il Gruppo di Contatto si riunirà a Istanbul. Potrebbe venirne fuori un’offerta di negoziato sotto l’egida dell’Onu. Usa e Russia, al livello di presidenti, sono pronti ad avallare trattative. Al-Mahmudi crede, o lascia credere, che tutto possa risolversi in fretta, perchè –spiega- in Libia i rapporti sono tribali e «fra di noi ci conosciamo bene». La Nato fa sempre la voce grossa: le forze di Gheddafi sono state indebolite, afferma, mentre i ribelli avanzano un altro passettino, e i raid proseguiranno nel Ramadan, se la vita di civili sarà in pericolo.

lunedì 11 luglio 2011

UE: E' l'Italia l'iceberg dell' 'eurotitanic'? Dubbi e timori

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano l'11/07/2011

E’ l’Italia l’iceberg dell’ ‘eurotitanic’? La stampa internazionale si pone l’interrogativo, tra malizie anglosassoni anti-euro ed anti-Ue (il WSJ dà l’esempio: “La Bce dovrà affrontare grossi iceberg”, annuncia come nella locandina di un ‘remake’, con Mario Draghi nel ruolo di Leonardo DiCaprio). E anche se i segnali da Bruxelles sono una sfilza di dichiarazioni rassicuranti, la telefonata della Merkel a Berlusconi –“Silvio, vara in fretta la manovra”- e l’appello di Napolitano alla “coesione nazionale” suonano campanelli d’allarme (o, almeno, d’inquietudine). Hanno un bel testimoniare fiducia all’Italia il ministro delle finanze tedesco Schauble, secondo cui “l’Italia non è un problema”, e il presidente di turno del Consiglio Ecofin, il polacco Rostowski, secondo cui “la situazione italiana è sotto buon controllo”, e tutti gli altri ministri della zona euro, che hanno già abbastanza grattacapi con la Grecia per non volerne dall’Italia. Ma, secondo l’FT, i mercati “scommettono contro i buoni italiani” e il governo Berlusconi “indebolito ne teme gli attacchi”. L’Economist vede un “gioco dei birilli in salsa italiana: “per quanto improbabile possa essere, se la crisi dell’euro raggiunge l'Italia”, che è la terza economia della moneta unica, “i risultati potrebbero essere da cataclisma”. Il Daily Mail si chiede se “la crisi dell’euro inghiotterà ora l’Italia”, dopo Atene, Dublino e Lisbona. In discussione, non sono tanto i fondamentali dell’economia italiana, al di là del debito esagerato (120% del Pil!) e della crescita stitica (solo 0,1% nel primo trimestre), ma è la scarsa credibilità di un governo litigioso e impopolare sempre “nella tormenta di uno scandalo politico o finanziario” o altro (Les Echos), soprattutto ora che il dubbio lambisce Tremonti. Ed El Pais si chiede se l’Italia sia “troppo grande” per essere attaccata o “troppo corrotta” per non esserlo. Le voci della domenica di un vertice finanziario a Bruxelles sul ‘caso Italia’, sono prima smentite e poi ridimensionate dai fatti: s’è trattato della consueta riunione settilmanale fra il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e il presidente della Commissione europea Barroso, allargato pero’ al presidente dell’eurogruppo Juncker e al commissario all’economia Rehn, nell’imminenza della riunione dell’eurogruppo. Dove Tremonti si presenta pieno di fastidi, ma con un grado in più sulle spalline: é diventato coordinatore dei ministri dell’economia del Ppe, i ‘democristiani’ dell’Ue, al posto del finlandese Jyrki Katainen, promosso premier nel suo paese. Che Giulio s’immagini un percorso analogo? La condizione è che le previsioni catastrofiche di Times e Telegraph, Figaro e Les Echos, El Pais ed El Mundo non si verifichino: “Bisogna proteggere Roma e Madrid”, i giornali snocciolano il loro rosario, ed “evitare che il contagio della Grecia raggiunga l’Italia”, il cui dissesto costerebbe –calcola El Economista- un miliardo di euro. Che fare? “Italia e Spagna devono pregare per un miracolo”. Siamo a posto: se la congrega dei ministri democristaini europei è dalla nostra, pregare è il loro forte. E pazienza per quei mangiaprete dei socialisti spagnoli, ché per loro non prega nessuno.

domenica 10 luglio 2011

SPIGOLI: e Paolina si fidanza col David di Michelangelo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/07/2011

La notizia che Paolina Bonaprate, e non Monna Lisa, è la donna più bella dell’arte, a giudizio d’un campione d’italiani, ha interessato, stupito e persino scandalizzato la stampa di mezzo mondo, ma soprattutto quelle britannica e spagnola: la prima quasi irritata che il riconoscimento andasse alla sorella di Napoleone Bonaparte, nemico storico (e sconfitto) di Sua Maestà (Independent e altri); la seconda scatenata a celebrare la ‘Miss dell’Arte’ (El Mundo, Abc, La Vanguardia). I giornali d’Oltralpe, invece, l’hanno presa con sereno distacco: tanto, la più bella o è francese, Paolina, o sta in Francia, a Parigi, al Louvre, e di li’ non si muove. El Mundo, pero’, data la notizia, senza mettere in discussione la ricerca del Censis, che davanti alla Gioconda piazza pure signore meno note, come la Odalisca di Hayez, la Venere Callipigia e molte altre, c’è tornato sopra, chiedendosi chi possa mai essere ‘el chico’, il ragazzo, di Paolina, cioè il più bello dell’arte. Il giornale non l’ha pero’ chiesto ai suoi lettori, che chissà che cosa veniva fuori, ma a degli intellettuali, che hanno puntato l’attenzione sullla maschera di Tutankamon, il Discobolo di Mirone, il Poseidone di Artemisio o il pensatore di Rodin. Ma il più citato, quasi unanimemente, è il David di Michelangelo. Un’accoppiata di artisti italiani, dunque, Canova e Michelangelo per un fidanzamento che varrebbe, mediaticamente, almeno quanto quello, ormai rotto, tra Elisabetta Canalis e George Clooney. Adesso, il tormentone é se Elisabetta l’abbia piantato perchè lui è gay: Daily Mail e ancora El Mundo rassicurano le aspiranti in attesa citando una sua amica, “George non è gay, solo non voleva sposarsi”.

sabato 9 luglio 2011

SPIGOLI: quelli della cricca falciati come birilli al bowling

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/07/2011

Come birilli al bowling, quelli della cricca al potere, in questi giorni, sono tutti ‘falciati’ dall’ironia della stampa internazionale: Mr B con il ‘frodo Mondadori’, Tremonti per la casa di Milanese, Brunetta dopo lo ‘scorno’ con Tremonti, la Lega per l’impuntatura sulla Libia . In un editoriale, il Financial Times, che va oltre l’ironia, denuncia il “tentativo svergognato” di introdurre nella manovra il ‘frodo Mondadori’ e boccia la credibilità dell’austerità all’italiana: “Il Governo deve fare tutto quanto è in suo potere per difendere una credibilità finanziaria conquistata a fatica. Il pacchetto di misure voleva cementare tale credibilità, ma le circostanze hanno contraddetto l'obiettivo.... Cosi, non si alimenta la fiducia dei mercati”. E l’Economist, fedele a se stesso, denuncia “la bustarella di Berlusconi” e celebra “il fallimento di una spudorata manovra del premier”. Il comportamento di Mr B indigna, ma non stupisce, mentre i guai giudiziari, o almeno etici, di Tremonti sono una sorpresa. L’Economist vede il ministro dell’economia “in difficolta”, lui che, finora, “non era mai stato toccato dagli scandali”. Ed El Pais, sulla homepage, descrive un Tremonti “infangato” dalla vicenda della casa “gratis”, Appena apparse su la Repubblica, le dichiarazioni di Berlusconi che non si ripresenterà alle prossime elezioni finiscono sui siti in Francia, Spagna, Inghilterra e pure in America: minimo comune denominatore la diffidenza, stile ‘chissà se sarà vero’.

venerdì 8 luglio 2011

SPIGOLI: Libia, l'Italia si evita le 'forche caudine'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/07/2011

Ci aspettavano al varco. Gli amici, mica i nemici, chè quelli se ne stanno nel deserto e, al massimo, ci lanciano dietro un pugno di sabbia e un sacco di maledizioni. Dopo il 25 Luglio del Consiglio Supremo della Difesa, che, mercoledi’, aveva detto che la guerra in Libia continua al fianco degli alleati, ma che l’Italia puo’ ridefinire lesue missioni militari all’estero senza sottrarsi agli impegni internazionali presi, c’era chi temeva un repentino 8 Settembre : tutti a casa e chi s’è visto s’è visto. Invece, il Consiglio dei Ministri ‘trova una quadra’ ed evita le forche caudine: rifinanzia le missioni all’estero, con un mandato in Libia fino al 30 settembre; fa rientrare dall’estero di qui alla fine dell’anno di 2078 soldati e taglia le spese da 811 a 694 milioni di euro. Tutti contenti ? La Nato palesa fiducia. Berlusconi dice di essere sempre stato e di restare contrario alla guerra (e allora perchè l’ha fatta ?). La Lega ottiene ridimensionamento delle missioni e termine per la Libia. La Russa porta a casa un bel gruzzolo. Solo Napoletano, che conosce i suoi polli, diffida : il taglio dei contingenti va valutato con Onu e Nato, non deve essere decisione unilaterale. Si muovono più i diplomatici che i combattenti: oggi, il capo della Nato Rasmussen è a Napoli, il 13 l’Alleanza riceve i ribelli del Cnt, il 15 c’è il Gruppo di Contatto a Istanbul. A Bruxelles, l’Alleanza sostiene di avere ridotto la capacità militare del colonnello Gheddafi, ma ammette che, nonostante l’offensiva degli insorti, le forze del regime si stanno riorganizzando.

Gb: lo 'squalo' chiude e licenzia, ma salva Rebekah

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/07/2011

Sarà uno squalo, e mica di primo pelo, con i suoi 80 anni, ma è pure una saetta: detto fatto, Rupert Murdoch, il tycoon australiano di un impero editoriale sulle cui rotative non tramonta mai il sole, decide di chiudere il tabloid settimanale News oh the World, l’epicentro dello scandalo delle intercettazioni. L’ultimo numero uscirà domenica, proprio questa, il 10 luglio. Poi, tutti a casa: News International, la casa editrice, stima a circa 200 i posti di lavoro perduti. Ma Murdoch il generoso dà loro una chance: chi resta senza impiego –spiega Daisy Dunlop, la portavoce di News International- potrà presentare la propria candidatura per altri posti che si rendessero liberi in altri media dell’impero multimediale.

James Murdoch, figlio di Rupert, presidente di News International, branca britannica della casa madre News Corp, dice: «Abbiamo sbagliato»; e cita il ‘pirataggio’ delle mail di una ragazzina di 13 anni assassinata come la goccia che ha fatto traboccare il vaso della chiusura («Un atto inumano»). Per Murdoch jr, «News of the World aveva la missione di chiedere i conti agli altri, ma non ha applicato il principio a se stesso», nonostante ci fossero già state avvisaglie, come le condanne a pene detentive nel 2007 contro il corrispondente reale Clive Goodman e un detective al soldo del settimanale Glenn Mulcaire.

L’inchiesta sarebbe sul punto di portare ad arresti, si dice cinque, fra cui giornalisti e poliziotti corrotti. La polizia stima che la lista delle persone potenzialmente spiate, o ‘piratate’, potrebbe comprendere 4.000 nomi, uomini politici, personalità dello sport e dello showbizz, gente comune vittima di qualche tragedia o familiari di vittime.

Tutto matura in tre giorni: lo scoppio dello scandalo, con le rivelazioni sulle pratiche intrusive di detective e reporter del settimanale ‘gossipparo’ –le ultime dicono che neppure le famiglie dei caduti in Afghanistan e in Iraq sono state risparmiate dalle intrusioni nella privacy-; la perdita, da parte di News of the World dei contratti pubblicitari e del sostegno dei suoi lettori; la deriva politica, con il coinvolgimento del premier conservatore David Cameron, che s’era andato a scegliere come portavoce proprio un direttore del settimanale, Andy Coulson; e, infine, la decisione di chiudere un giornale “ormai infangato”, parola –questa- di Rupert Murdoch.

Chi non va a casa, in tutto cio’, è Rebekah ‘la rossa’ Brooks, una salita da segretaria ai vertici di News International, di cui è amministratore delegato, passando proprio per la direzione di News of The World all'epoca delle intercettazioni più controverse, quelle su una ragazzina vittima di un maniaco sessuale. La donna, in cui Rupert ripone totale fiducia, è scoppiata in lacrime annunciando la chiusura ai dipendenti e avrebbe offerto le sue dimissioni. Ma James l’assolve: «Rebekah –dice- ha buoni standard etici». Non tutti, pero’, la pensano allo stesso modo: "I Murdoch avrebbero dovuto chiudere la Brooks, non News of the World", chiosa su Sky Michael White, vice-direttore del Guardian. Nel ciclone resta Coulson, ‘vice’ di Rebekah e poi suo successore alla testa del settimanale.

Il tabloid domenicale, che qualcuno definiva ‘il re dei tabloid’, concluderà, dunque, dopo domani una storia lunga 168 anni e che non lo vedeva certo in declino : ancora 2,8 milioni le copie tirate ogni settimana. Anzi, News of the World era il ‘fiore all’occhiello’ del gruppo e il suo acquisto, nel 1968, oltre quarant’anni fa, era stato decisivo nella stretegia d’insediamento di Murdoch in Gran Bretagna. Un percorso che, adesso, potrebbe subire una battuta d’arresto busca: l’acquisto di BSkyB, che doveva essere cosa fatta a giorni, diventa un affare mancato, o quanto meno rinviato, perchè la decisione slitta a settembre, mentre il premier Cameron consulta il capo dell’opposizione Ed Milliband.. E centinaia di migliaia di persone, via twitter, sottoscrivano un appello, « Mai BSkiB a Murdoch’ e invitano al boicottaggio dei media dello squalo.

giovedì 7 luglio 2011

SPIGOLI: Libia, Tripoli come la Bastiglia il 14 Luglio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/07/2011 (versione originale)

E, adesso, Nicolas Sarkozy sogna che il 14 Luglio sia pure la festa nazionale libica, che la caduta della Bastiglia coincida, d’ora in poi, con la caduta di Tripoli. E’ almeno il disegno che la stampa attribuisce al presidente, mentre gli insorti lanciano un’offensiva “con il via libera –assicurano-dell’Alleanza atlantica” e prendono un vilalaggio non lontano dalla capitale. E’ l’inizio della fine, come sostiene, per l’ennesima volta, a dire il vero, il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, “per Gheddafi, la partita si chiude”?; o è un ‘fare ammoina’ mentre, in realtà, si negozia (e c’è chi sostiene che Roma è una delle capitali della trattativa). Tutti –mica solo la Lega- hanno una voglia matta che ‘sta storia finisca, in un modo o nell’altro; e molti hanno una paura pazza d’andare in giro a raccontare che siamo all’epilogo perchè temono di mandare tutto a monte. “Spetta ai libici guidare i negoziati”, dice lapalissianamente il ministro degli esteri Franco Frattini, nell’attimo in cui si distrae dalle faccende del Lodo Mondadori e s’occupa di vicende internazionali. Intanto, l’Alleanza continua a colpire e la Francia, invece, rinuncia a paracadutare armi ai ribelli, mentre la Nato e la Russia, che s’incontrano a Soci, in Crimea, continuano a battibeccare sull’intervento militare. Malgrado i sogni di Sarkozy, Parigi non ha fiducia nella capacità dei ribelli di condurre l’offensiva su Tripoli. Gli insorti dovrebbero misurare “la loro impazienza sulla realtà”, sostiene il ministro della difesa francese Gerard Longuet. Che, fino a ieri, era quella di uno stallo dove, giorno dopo giorno, si muore un po’, da una parte e dall’altra, ma mai in maniera decisiva. E a cercare una mediazione sono, ormai, una piccola folla: pure l’Unione africana, con il presidente sudafricano Jacob Zuma a Mosca; e la Turchia, che dà la sua benedizione al Cnt insurrezionale e cerca di affermare il proprio ruolo nel Mediterraneo in vista della riunione del Gruppo di Contatto a Istanbul il 15 luglio. I ribelli annunciano, con baldanza, un attacco su Tripoli “nel giro di 48 ore” e si ripetono pronti ad arrestare il Colonnello, in base al mandato di cattura della Corte dell’Aja, ma, per la prima volta, dicono pure, tra una smentita e una conferma, che, se Gheddafi lascia il portere, puo’ restare in Libia, purchè i suoi movimenti avvengano “sotto supervisione internazionale”. E l’Italia? Il Consiglio Supremo della Difesa afferma, con toni alla Badoglio del 25 Luglio, che “la missione in Libia continua fino alla fine del conflitto” al fianco degli alleati. Sperando che abbia ragione, almeno stavolta, Sarkozy.

Gb: Murdoch e Cameron, lo spione agli ordini di Loro Maestà

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/07/2011

Le famiglie di bimbe vittime di pedofili e maniaci e i genitori di una ragazzina rapita e uccisa e persino genitori, congiunti, figli di vittime degli attentati nella metropolitana di Londra il 7 luglio 2005, sei anni fa oggi giusti giusti: nessuno, proprio nessuno, era al riparo dalla curiosità più voyeuristica che giornalistica dei detective e dei reporter di News of the World, tabloid d’assalto del Gruppo Murdoch. Gli inglesi, che mica si lasciano smuovere facilmente, sono sotto shock per lo scandalo delle intercettazioni (e non solo) compiute, violando privacy e legalità, dall’aggressivo giornale.

La vicenda coinvolge il premier David Cameron. Lui dice che bisogna «imparare la lezione» da questa storia, ma è in imbarazzo quando deve spiegare di essersi scelto come portavoce proprio il giornalista che, da direttore, mandava i cronisti a cacciare il naso nelle case e nelle cose di tanti ignari e incolpevoli Mr Smith/ vittime due volte, della violenza prima, delle intromissioni poi. Pure i genitori di Maddie, la bimba scomparsa in Portogallo nel 2007 e mai più ritrovata, protagonista di una stagione dell’informazione mondiale, furono ‘braccati’.

"E' stato un errore di giudizio catastrofico prenderselo come portavoce" dice il capo dell’opposizione laburista Ed Milliband, intervenendo ai Comuni al ‘question time’, l’ora delle interrogazioni. Sotto tiro è Andy Coulson, successore di Rebekah Brooks alla guida del popolare domenicale e che fino a gennaio è stato l’uomo stampa del premier conservatore. Coulson, da direttore del tabloid, autorizzò pagamenti alla polizia in cambio di notizie (Scotland Yard indaga, come nei libri di Conan Doyle).

Ma non è certo che Murdoch e la sua squadra ne escano bene. "Voglio parlargli, metterlo di fronte alle responsabilità sue e del potere che ha », dice Graham Foulkes, padre di un ragazzo morto negli attentati del 7 luglio. E l’editore di un impero mediatico multimediale e mondiale non si tira indietro : « Pronto a farlo », fa dire al suo portavoce, mentre va al contrattacco e definisce « deplorevoli e inaccettabili » le accuse mosse al suo giornale.

Importanti inserzionisti -Ford, Virgin Holidays, i Lloyds, Mitsubishi,Vauxhall- ritirano la pubblicità dal tabloid.A Wall Street News Corp apre in forte calo, ma
a Milano basta la voce che il tycoon australiano stia interessandosi a Telecom Italia Media per farne volare i titoli.

I Comuni tengono un dibattito d’emergenza –solo il quarto dal 1990- e Cameron non esclude un’inchiesta sugli standard etici dei giornali britannici, che se la prendono tutti con l’editore concorrente (temuto molto più che amato), ma che spesso, a caccia di gossip, sono andati vicini alla frontiera della violazione gratuita dell’altrui privacy –e non si parla di uomini pubblici-. Com’è vero che, spesso, hanno mostrato grinta e fantasia per fare il proprio mestiere: nel 2003, Ryan Parry, del Daily Mirror, tabloid pure quello, riusci’ a farsi assumere come cameriere a Buckingham Palace, dando false referenze, e a lavorarci per due mesi, in vista della visita dell’allora presidente Usa George W. Bush. Parry fotografo’ la camera da letto della Regina e la colazione di Elisabetta, prima di essere scoperto e buttato fuori. Il Mirror fu citato in giudizio per lesione della privacy, dovette consegnare il materiale e pagare una multa.


Agli scandali e agli attacchi, Murdoch, uno ‘squalo’ capace e determinato, c’è abituato. Ma lo scandalo mette in forse l’acquisizione dell'emittente commerciale BSkyB: il governo britannico deve pronunciarsi a giorni e Miliband vuole una pausa di riflessione. Nella bufera c’è la Ceo di News International Rebekah ‘la rossa’ Brooks, pupilla e confidente di Murdoch stesso, direttrice di News of the World
nel 2002. "Abbiamo permesso a Murdoch di avere troppo potere", dice ai Comuni Chris Bryant, un altro laburista: "Lui non vive qui, non paga le tasse qui, eppure possiede già quattro giornali. Almeno Berlusconi vive in Italia".

News International ha aperto un'inchiesta interna, che sarebbe già a buon punto e che scagionerebbe la Brooks, 43 anni, «nauseata»: "Era in vacanza in Italia quando" accaddero i primi fatti, nell’estate 2002. E chi era il suo vice, in quel momento ? Toh, Coulson, proprio lui, quello poi divenuto direttore e quindi portavoce di Cameron.

mercoledì 6 luglio 2011

SPIGOLI: Usa, Obama pensa a un ticket con Cuomo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/07/2011

Il padre, Mario, s’è sempre tenuto lontano dalle campagne presdenziali, anche quando i democratici lo invocavano come il salvatore della patria: nel 1988, contro Bush sr avrebbe forse vinto, mentre il greco Dukakis, che pareva un fantino, non fece il peso. La reticenza di Mario, 79 anni, un saggio, senza dubbio, veniva spesso spiegata con illazioni sugli scheletri che un italo-americano di New York doveva per forza portarsi dietro e che non sarebbero rimasti chiusi nel loro armadio, in una campagna presidenziale. Chiacchiere e nulla più. E, ora, Cuomo figlio, Andrew, 54 anni, starebbe pensando se correre per la Casa Bianca, anche se sul seggiolino del secondo pilota, come vice di Barack Obama nelle presidenziali 2012. Certo, se Joe Biden, l’attuale vice, non si ripresentasse, pochi se ne accorgerebbero e quasi nessuno se ne dispiacerebbe troppo, anche se l’ex senatore del Delaware per trenta e più anni, è una persona ‘tanto per bene’ e sicuramente ‘ammodo’. Ma tra lui e un leader, ce ne passa. Andrew, invece, 54 anni, governatore dello Stato di New York proprio come il padre, governatore per tre mandati, dal 1984 al 1993, ha già dimostrato di non avere paura d’avvicinarsi a Washington –ministro della casa nel secondo mandato di Bill Clinton- e sta ora godendosi la vittoria del riconoscimento dei matrimoni gay nel suo Stato. E non è stato l’unico successo all’attivo di Andrew, in appena sette mesi d’incarico. La fonte dell’indiscrezione va un po’ presa con le molle, perchè è il New York Post, garibaldino tabloid capace di spararle grosse, ma anche d’azzeccarci. Questa volta, il giornale cita due fonti accreditate dell’establishment democratico, che non hanno dubbi: Obama, prima della fine dell’anno, chiamerà Cuomo e gli dirà, ‘Andy, devi farlo, per il bene della patria”. Se lo fa davvero, Obama mostrerà un bel coraggio : fare ‘ticket’, lui nero e in sospetto di essere un po’ liberal, con un italo-americano newyorchese, campione dei gay, vuol dire attizzarsi contro, più di quanto già non siano, tea party e conservatore e, magari, risvegliare pure gli evangelici che sonnecchiano.

martedì 5 luglio 2011

Thailandia: dinastie al potere e democrazie ereditarie

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/07/2011

Una donna, e una sorella, al potere in Thailandia: l’opposizione vicina all’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra e guidata dalla sorella di Thaksin, Yingluck Shinawatra, ha conquistato la maggioranza assoluta (265 seggi su 500) nelle elezioni politiche di domenica scorsa. Il Partito democratico al governo ha ottenuto 159 seggi. Il premier uscente Abhisit Vejjajiva, battuto, ha già lasciato la guida del partito; i militari hanno accettato il risultato del voto; Thaksin ha fatto sapere che non intende tornare al potere; e Yingluck ha annunciato la formazione di un coalizione pentapartita che disporrà di quasi 300 seggi. Il quadro pare idilliaco, in un paese teatro d’una sorta di guerra civile dopo il rovesciamento di Thaksin con un colpo di stato nel 2006

Tutto bene, dunque, almeno per ora, nella spesso politicamente turbolenta Thailandia. E due conferme: quella delle donne al potere e quella delle dinastie al potere, senza ovviamente contare le monarchie dinastiche per definizione. Donne e dinastie sono due tradizioni radicatissime nel sub-continente indiano e che si estendono, ora, alla Thailandia. Yingluck, 44 anni, è la prima donna premier nel suo Paese (e lo diviene soprattutto perché sorella di Thaksin, 61 anni).

Ma l’India, il Pakistan e lo Sri Lanka abbinano le due tradizioni da tempo. Solo per citare gli esempi più noti, i Gandhi in India vanno da mamma Indira a nuora Sonia, italiana di Maino, in provincia di Torino, ma arrivata al potere attraverso il matrimonio con Rajiv, figlio di Indira, a sua volta premier e poi vittima, proprio come la madre, di un attentato durante la campagna elettorale nel 1991. In Pakistan Benazir Bhutto, figlia di Zulfikar Ali Bhutto, premier prima di essere condannato a morte e impiccato, fu a sua volta premier, prima d’essere esiliata, tornare in patria e morire assassinata nel 2007. E, infine, nello Sri Lanka la dinastia dei Bandaranaike ha la figura centrale in Sirimavo, per tre volte premier –tra il 1960 e il 2000- e prima donna al mondo in assoluto a diventare capo di un governo. Moglie di un premier assassinato nel 1959, Solomon, Sirimavo, che morì ancora in carica, in un giorno di elezioni, dopo essere andata a votare, era pure madre di Chandrika Kumaratunga, anch’essa premier e presidente.

Ma le dinastie al potere non sono patrimonio dell’Asia. Senza prendere in conto i regimi dittatoriali, dalla Corea del Nord alla Siria, passando, magari, per Cuba e la Libia, dove il passaggio dei poteri di padre in figlio, o al fratello, non passa al vaglio della volontà popolare, esse fioriscono persino in America. E non sono neppure storia recente, anche se i Kennedy e i Bush, per ricordare le due famiglie maggiori, appartengono agli ultimi cinquant’anni di storia Usa. Ma il sesto presidente, John Quincy Adams, era figlio di John Adams, il secondo: siamo all’inizio dell’ ‘800. E dove i Kennedy non arrivarono –occupare due volte la Casa Bianca con due membri della stessa famiglia-, causa assassini in serie e una tragedia mortale, l’incidente di Chappaquiddick che impedì a Edward di candidarsi, sono arrivati un po’ a sorpresa i Bush: dopo George H., 41.o presidente, George W., 43.o, senz’altro merito che quello di essere figlio d’una degna, e molto ricca, persona.

Dinastie al maschile, le americane, tranne quella, riuscita a metà, dei Clinton: Bill Clinton, il presidente di mezzo tra i due Bush, poteva essere ‘succeduto’ alla Casa Bianca, nel 2008, dalla moglie Hillary Rodham, se non si fosse messo di mezzo Barack Obama, più carisma e più freschezza. Hillary è comunque arrivata a essere segretario di Stato.

E, in vista delle presidenziali americane e francesi 2012, assisteremo a una vera e propria ‘carica rosa’, anzi, vi stiamo già assistendo, con due donne agguerritissime in corsa per la ‘nomination’ repubblicana alla Casa Bianca, Sarah Palin dell’Alaska e Michele Backman, del Minnesota, che hanno in comune l’inclinazione per il Tea Party e la tendenza alle gaffes; mentre, in Francia, in campo socialista, si sfidano Segolène Royale, candidata battuta da Sarkozy nel 2007, ex moglie di Françoise Hollande, pure lui in corsa, e Martine Aubry, figlia di Jacques Delors. La politica è una passione di famiglia e si declina sempre più al femminile.

sabato 2 luglio 2011

SPIGOLI: Libia, il Colonnello tratta, minaccia, aizza gli sciamani

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/07/2011

Missili, bombe, combattimenti nelle strade, almeno 15mila morti. E poi si finisce a trattare. In Libia come in Afghanistan, ma senza aspettare dieci anni. Aisha, figlia di Muammar Gheddafi, dice a una tv francese che ci sono «negoziati diretti e indiretti» tra il regime di Tripoli e gli insorti di Bengasi. «Noi -afferma Aisha, 35 anni, avvocato- vogliamo che cessi lo spargimento di sangue dei libici e siamo pronti, per questo, ad allearci col diavolo", cioe' con i ribelli armati. Stavolta, il Consiglio nazionale transitorio non smentisce, in una giornata in cui il pendolo del conflitto segnala un arretramento degli insorti. Anzi, un giornale arabo, Assharq Al Awsat, sostiene che l’isola di Djerba in Tunisia ha ospitato negli ultimi giorni trattative segrete tra emissari di Gheddafi, da una parte, e funzionari e diplomatici della Nato e di Francia e Gran Bretagna dall’altra (l’Italia non è citata). L'informazione proviene da fonti sia del regime che del Cnt ribelle. La proposta del Colonnello sarebbe un cessate il fuoco immediato sotto l'egida dell’Onu. Ma il dittatore ci sta ad andarsene? Aisha glissa. Gheddafi non farebbe una questione di potere, ma vorrebbe rimanere in Libia, alla Sirte, o andare in Ciad -l’Uganda é il solo Paese che gli ha finora offerto ufficialmente asilo-. E, dopo l'ordine di cattura della Corte dell’Aja, chiede garanzie di impunità per sè, per la sua famiglia e per i suoi pretoriani. Mentre negozia, il Colonnello, pero', non abbassa la guardia: un transfuga racconta che, a proteggerlo, ci pensano gli sciamani di tutto il Sahara, cui si sarebbe rivolto per un aiuto a sconfiggere i ribelli e a resistere alla Nato. La Francia da' armi agli insorti e irrrita Russia, Cina e Africa, ma l'Alleanza e' impotente contro la stregoneria. E Gheddafi la minaccia con l'ennesimo proclama: "Cessi i raid o sara' catastrofe", anche in Europa.

venerdì 1 luglio 2011

SPIGOLI: Restivo e Amanda, critiche alla giustizia italiana

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/07/2011

La giustizia e la sicurezza italiane sul banco degli accusati della stampa anglosassone. E, per una volta, Mr B e Ruby, o la riforma delle toghe, non c’entrano proprio nulla: al pettine, vengono storie di ordinaria ‘mala giustizia’ e di potenziale terrorismo. Era stato accolto con qualche ironia il video di al Qaida in cui il Papa e Berlusconi venivano indicati come possibili obiettivi soprattutto perchè «facili da colpire» (e che il papa fosse vulnerabile l’avevano già dimostrato, con i loro poveri mezzi, i servizi segreti bulgari e un lupo grigio turco nel 1981): un giudizio che suonava uno scherno dei terroristi ai servizi di sicurezza di casa nostra. E ora due casi di cronaca destano interrogativi sulla stampa britannica e americana. Da una parte, c’è il ‘caso Restivo’, dove i giornali britannici non si rendono conto di come Daniele abbia potuto farla franca a Potenza, all’epoca della scomparsa di Elisa Claps. Dall’altra, c’è la vicenda di Meredith e Amanda, il ‘giallo di Perugia’, che è seguito con meticolosa attenzione dai media anglosassoni, finora divisi: colpevolisti i britannici, dalla parte della vittima; innocentisti gli americani, dalla parte dell’accusata. Il colpo di scena mercoledi’ in aula, con la perizia ‘super partes’ che ha mandato all’aria tutto il fragile impianto accusatorio, ha messo gli uni e gli altri d’accordo. Il colpevole c’è ed è il sistema giudiziario italiano, che pasticcia sulla scena del crimine, nei laboratori e nelle aule dei tribunali.

GB: Londra dopo Atene e Varsavia, l'Europa in piazza

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/07/2011

Il giudice Michael Bowes non ha scioperato: in aula, ha pronunciato la condanna all’ergastolo di Danilo Restivo per l’omicidio di Heather Barnett, il 12 novembre 2002, a Bournemouth, nel Dorset. «Lei non uscirà mai di prigione», ha detto Bowes, etichettando Restivo come «recidivo» e decretandone cosi’ d’un colpo solo la colpevolezza nell’assassinio di Elisa Claps, nel 1993, a Potenza.

Ma se il giudice Bowes era al suo posto, mezza Inghilterra del pubblico impiego è rimasta a casa, o é andata in piazza a protestare contro la riforma delle pensioni: moltissimi dei 750mila dipendenti pubblici hanno incrociato le braccia, contestando
il progetto governativo di innalzare l'età pensionabile e i contributi a carico dei lavoratori.

Londra, con disordini a pochi passi da Downing Street, è cosi’ tornata sulla mappa dello scontento sociale in Europa, accanto ad Atene e a Varsavia. Ma gli incidenti, ieri, non hanno avuto nulla a che spartire con le ‘guerriglie urbane’ greche e neppure con la la battaglia infuriata proprio a Londra in dicembre e di nuovo a marzo durante le proteste contro l'austerity. Le politiche del rigore dettate dall’Ue e dalla Bce creano malessere, colpiscono i più deboli e non sono spesso capite dai cittadini, anche perchè è difficile creare consenso su obiettivi magari vitali, ma lontani dai bisogni quotidiani, la riduzione del debito pubblico e la protezione dell’euro dalla speculazione (il che, agli inglesi che hanno la sterlina, non interessa proprio).

I dati sulla partecipazione sono ancora preliminari e sono ovviamente controversi: 100mila manifestanti, neppure il 15% dei lavoratori interessati, secondo il governo, mentre il sindacato più rappresentativo calcola l’adesione dell'84% dei 285mila suoi iscritti, nell'agitazione "più vasta e meglio coordinata di questa generazione". Certo, la lotta sociale in Gran Bretagna non va più di moda dai tempi duri di Margaret Thatcher e delle severe sconfitte allora subite.

Ieri, la scuola è stata tra i settori più colpiti: oltre 11 mila istituti non hanno aperto o hanno cancellato le lezioni. Ma Downing Street legge il dato in positivo: un terzo circa delle scuole erano aperte, un terzo chiuse e un terzo hanno funzionato un po’ si’ e un po no’. Pero’, hanno incrociato le braccia anche insegnanti di scuole private appartenenti a un sindacato che non scioperava da 127 anni. E ad Eton, l'esclusivo liceo simbolo della classe dirigente britannica, dove ha studiato pure l’attuale premier David Cameron, una manciata di professori non è andata in classe. La maggioranza, tuttavia, ha scelto di "dare battaglia contro la riforma delle pensioni con altri mezzi".

Perchè, in effetti, lo sciopero e la protesta hanno suscitato reazioni controverse non per la sostanza delle rivendicazioni, ma per il momento scelto: braccia incrociate e tutti in piazza mentre i negoziati governo / sindacati sono ancora aperti. Il capo dell’opposizione laburista Ed Milliband ha giudicato l’agitazione “sbagliata”, pur aggiungendo che il governo sbaglia, dal canto suo, le misure anti-austerity: in un messaggio su Twitter, Milliband ha scritto che "la gente è stata tradita da entrambe le parti e il governo ha agito in modo sconsiderato". Dura la replica del leader sindacale Mark Serwotka : Milliband dovrebbe "ripensare a quel che sta facendo".

Cortei sono sfilati in molte città britanniche. A Leeds un bambino innalzava uno striscione: "Quando sarò grande ... non potrò permettermi di fare l'insegnante". A Londra, 30 mila sono scesi in piazza: frange del corteo si sono scontrate con la polizia a Whitehall, il quartiere dei ministeri; una trentina di persone sono state arrestate.

"L'impatto dello sciopero è stato minimo", ha dichiarato una portavoce di Cameron, ma il vice-premier Nick Clegg non ha portato i figli a scuola. La temuta paralisi di alcuni servizi essenziali, come ad esempio i posti di controllo dei passaporti nei porti e negli aeroporti, non c’è stata. E, come le scuole, tribunali e altre strutture pubbliche hanno funzionato, sia pure a macchia di leopardo. Pero’, il 90 per cento dei poliziotti che gestiscono i call center erano in sciopero, per ammissione di Scotland Yard: il che ha reso difficile chiamare un'ambulanza, la polizia o i vigili del fuoco.

La riforma delle pensioni contestata prevede l’innalzamento dell'età pensionabile da 60 a 66 anni e l’aumento dei contributi che ciascun lavoratore del pubblico impiego deve versare. Le trattative dovrebbero proseguire fino all’autunno e la protesta potrebbe avere seguiti e sviluppi: la Gran Bretagna del conservatore Cameron non è il ventre molle di un’Europa travagliata dalla crisi, ma la gente vuole capire prima di pagare.