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mercoledì 31 ottobre 2012

Usa 2012: repubblicani eccellenti contro Romney, non Obama

Scritto per L'Indro il 31/10/2012

Repubblicani eccellenti contro. Ma non contro il presidente democratico Barack Obama, come sarebbe logico. Piuttosto, contro il candidato repubblicano Mitt Romney. Chris Christie, governatore del New Jersey, lo Stato più devastato dall’uragano Sandy, e Mike Bloomberg, sindaco di New York, la metropoli ‘chiusa per tempesta’ per quasi 48 ore, fanno i complimenti al presidente per la leadership dimostrata dallo Studio Ovale in questa prova, e penalizzano così Romney, suscitando sospetti e malizie. “Romney in visita nel New Jersey?”, dice Christie. “Non ne so nulla. So che viene il presidente e mi fa molto piacere”.

Per motivi diversi, né Christie né Bloomberg sono due fan del miliardario mormone. Christie, cui pure è stato affidato un importante discorso alla Convention di Tampa a fine agosto, era stato prima indicato come un aspirante alla nomination –vi rinunciò solo nell’imminenza delle primarie- ed era stato poi considerato un possibile candidato vice-presidente. Adesso, si pensa che studi da candidato per il 2016: a lui, fa più gioco che Obama resti alla Casa Bianca per altri quattro anni. Bloomberg, anch’egli considerato a un certo momento in corsa per la nomination, è un repubblicano anomalo: del resto, se non lo fosse, anomalo, non sarebbe mai diventato sindaco di New York, dove i democratici sono netta maggioranza.

Per Romney, non è una buona giornata. Gli si mette contro anche GM, dopo la Chrysler: l’industria dell’auto, che è rimasta in piedi grazie a Obama, sta con il presidente. E l’industria dell’auto pesa molto in alcuni stati in bilico, come il Michigan e pure l’Ohio. I sondaggi di giornata, per quel che contano, portano sorrisi in casa democratica: il presidente sarebbe avanti di cinque punti in Ohio e sarebbe di nuovo avanti, anche se di un punto solo -e statisticamente non conta-, in Florida. Romney si rigetta nella campagna. Obama continua a fare il presidente e il comandante in capo, più che il candidato: andrà in New Jersey, dove farsi vedere non gli serve perché lì vince di sicuro.

E questo atteggiamento, in questo momento, può piacere agli elettori. Di sicuro, piace a Christie, che non lo nasconde: il governatore del New Jersey dice di non essere ora minimamente interessato in questo momento alla campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 6 novembre e dichiara di non sapere nulla di una visita di Romney nel suo Stato, dove invece compie un sopralluogo il presidente. "Ho del lavoro da fare qui in New Jersey che conta più delle presidenziali. Di questa roba, non potrebbe importarmi di meno", dice in tv il governatore.

Quanto a Bloomberg, un suo commento, che potrebbe inizialmente parere uno sgarboa Obama, ne diventa invece un elogio: il sindaco e il presidente sono d'accordo sul fatto che "non è il momento per una visita a New York", e che la tappa di Obama in New Jersey "sarà pienamente significativa per l'intera regione" –il New Jersey confina con lo Stato di New York e la metropoli vi si estende-. Secondo quanto riferisce politico.com, Bloomberg, in conferenza stampa, dice: "Ho parlato con il presidente della possibilità di una sua visita qui. Ci farebbe piacere, ma abbiamo molte cose da fare: non voglio mancargli di rispetto, ha un sacco di cose da fare e sono lusingato dalla sua disponibilità, ma penso che quello che debba fare è andare in New Jersey e rappresentare lì la Nazione".

Su Romney cadono pure gli strali della GM, risentita perché in alcuni spot elettorali il repubblicano l’ha accusata, insieme a Chrysler, di volere trasferire parte della produzione – e dei posti di lavoro - in Cina. "Lo spot rappresenta il peggio di una campagna politica cinica", ha affermato il portavoce di Gm, Greg Martin. "Noi pensiamo che creare posti di lavoro negli Stati Uniti e far sì che gli utili tornino in questo Paese dovrebbe essere una fonte di orgoglio bipartisan".

"Barack Obama - recita tra l'altro il discusso spot della campagna repubblicana - dice che ha salvato l'industria dell'auto. Ma per chi?, per l'America o per la Cina?". Il numero uno di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, aveva già risposto allo spot con una e-mail ai dipendenti del gruppo, in cui definiva "sbagliato" insinuare un trasferimento della produzione della Jeep in Cina, mettendo nero su bianco che "la produzione della Jeep non sarà spostata dagli Usa in Cina".

Usa 2012: Sandy non è stata la 'sorpresa d'ottobre',

Scritto per L'Indro il 30/10/2012

Non sarà stata, e per fortuna, la ‘sorpresa d’ottobre, l’evento che scompagina programmi e previsioni, e che, ormai, non farà più in tempo ad arrivare. Ma un segno sull’Election Day, il 6 novembre, Sandy, l’uragano declassato a depressione tropicale che è transitato su Washington e su New York, lo lascerà sicuro, almeno a livello organizzativo. Nel Maryland e in altri Stati della Costa Est le operazioni di ‘early voting’, quelle cioè che consentono agli elettori di esprimere il proprio voto prima del giorno fissato, sono state sospese. E Craig Fugate, il direttore della Fema, la protezione civile degli Stati Uniti, ammette che la tempesta “avrà effetti anche a medio e a lungo termine e, quindi, anche sulla settimana prossima”, quando si va alle urne. Il che non vuol dire, come qualcuno vuole frettolosamente decretare, che l’Election Day sarà rinviato: la legge federale lo fissa al martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre. Piuttosto, vuol dire che, qua e là, le modalità di voto, ad esempio la dislocazione dei seggi, potrebbero doversi adeguare all’impatto di Sandy.

A livello elettorale, una vittima certa dell’uragano spintosi così a nord come raramente capita sono i sondaggi, di solito martellanti in questa fase della campagna: la Gallup per prima e poi altri istituti demoscopici più o meno famosi li hanno sospesi, perché la difficoltà di raggiungere al telefono i componenti dei campioni rendeva i rilevamenti monchi e inaffidabili. E questo, in particolare, in alcuni Stati cruciali di usa 2012, la Virginia, la Pennsylvania e pure il New Hampshire.

Sul piano politico, difficile valutare se Sandy sarà stata, a conti fatti, repubblicana o democratica oppure se sarà da ascrivere anch’essa fra gli elettori indecisi fino all’ultimo momento. A favore di Obama, c’è il fatto d’essere rimasto, da comandante in capo, sulla plancia della nave in preda ai marosi per tutta la durata dell’emergenza, in contatto con la protezione civile per tutta la notte della grande paura per la ‘tempesta perfetta’ –come al solito, in questi casi, le reminescenze cinematografiche si sprecano-. Obama s’è così meritato l’elogio del governatore repubblicano del New Jersey Chris Christie (“apprezzo la leadership del presidente”, ha detto). Un po’ velenoso con Romney, Christie, che già pensa alla nomination repubblicana nel 2016 e cui, quindi, la conferma del presidente fa più gioco della vittoria dello sfidante. E contro Romney ci può essere il fatto che non abbia chiamato tutti i governatori interessati, ma solo quelli repubblicani, e che abbia ordito una polemica, a tempesta in corso, contro la protezione civile.

Ma contro Obama, e quindi a favore di Romney, c’è la constatazione che Sandy, per quanto contenuta nei suoi danni dall’azione preventiva della Casa Bianca e delle Amministrazioni statali e municipali, lascia, comunque, una striscia, probabilmente inevitabile, di morte e di devastazionii: una trentina di vittime, miliardi di dollari di danni, oltre otto milioni di americani senza luce –a New York, un black out peggiore di quello del 2003-, tre centrali nucleari fermate, trasporti pubblici paralizzati, la borsa di New York chiusa - non accadeva dalla settimana dell’11 Settembre 2001 -. Obama, che aveva anticipato lunedì il rientro dalla Florida alla Casa Bianca, e aveva cancellato un evento nel Wisconsin, prolunga di un giorno lo stop alla campagna elettorale: non andrà nelle prossime ore nell’Ohio, stato chiave di questo voto. Romney, invece, riparte per la Florida.

Quella che Sandy non ferma, almeno nelle case dove la tv continua a essere accesa, è la guerra degli spot tra i due rivali: in Ohio, un tema caldo è l’industria dell’auto. Romney torna alla carica con un clip in cui accusa Obama di avere venduto la Chrysler agli italiani, che avrebbero poi deciso di trasferire la produzione della jeep in Cina.  In gioco c'é il consenso dei lavoratori di Toledo, la città che ospita la fabbrica dove si produce la Jeep.  Ma lo spot diventa un boomerang: le accuse si rivelano false, visto che la casa di Detroit, sin dal primo momento, chiarisce che si tratta di ampliare la produzione e non di trasferirne una parte  ("nessun bullone uscirà dagli Stati Uniti”). E il presidente replica con un contro-spot: chi voleva il fallimento dell'auto ‘made in usa’ era Romney, che bocciò il piano di aiuti elaborato dalla Casa Bianca.

martedì 30 ottobre 2012

Usa 2012: Sandy, Katrina, Isabel, uragani della politica

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/10/2012

Dopo Katrina, nessuna Amministrazione statunitense prenderà più sotto gamba un allarme uragano:
nell’agosto 2005, Katrina, forza 5, sommerse sotto la sua furia mezza New Orleans, fece centinaia
di vittime dalla Louisiana alla Florida e spazzò via la residua credibilità di George Bush, da poco
rieletto presidente, ma già sfiduciato dall’America per le sue bugie ormai smascherate sulle armi di
distruzione di massa irachene. Non c’è da stupirsi, quindi, delle precauzioni per l’arrivo di Sandy,
che sarà pure solo forza 1, ma colpisce aree di solito troppo a nord perché gli uragani ci arrivino,
Washington, la Pennsylvania, il New Jersey e New York: di solito, le perturbazioni, quando
arrivano lassù, sono al massimo delle tempeste tropicali.

Un uragano a quelle latitudini, lungo la Costa Atlantica, è evento raro, non inedito. Nel settembre
2003, arrivò a Washington Isabel. Katrina non c’era ancora stata, ma l’Unione era allora sul chi
vive permanente: da sei mesi, l’America era in guerra in Iraq; da due anni, era in guerra contro il
terrorismo, dopo gli attacchi dell’11 Settembre 2001; e Washington, l’anno prima, aveva conosciuto
la grande paura del cecchino che ammazzava per la strada a casaccio uomini, donne e bambini.
Se quello era il clima, con gli allarmi non si scherzava: in casa erano pronti i kit d’emergenza,
fiammiferi a prova d’acqua, giacche termiche, biscotti e scatolette, medicinali e cerotti.

La notte che Isabel doveva passare, le istruzioni impartite erano state dettagliate: andare a dormire
nei basement, che noi chiameremmo cantine, tenere a portata di mano i kit, avere pronte all’uso
torce elettriche e fornellini da campeggio. Come oggi a New York, negozi, scuole, uffici pubblici,
l’Amministrazione federale, i trasporti pubblici erano stati ‘chiusi per uragano’: dalle 6 di sera,
strade deserte.

Seguimmo le indicazioni alla lettera. Cioè, quasi: infatti, a dormire, non scendemmo in cantina, ma
ci accampammo nel living. Il vento soffiava forte, la pioggia veniva giù a secchiate. La notte passò
relativamente tranquilla, tra sinistri scricchiolii e sordi tonfi. Al risveglio, tutto pareva normale:
non c’era la luce, ma eravamo stati preavvertiti del possibile disagio. La radiolina portava notizie
relativamente rassicuranti: il peggio era passato, la tempesta si stava spegnendo risalendo a nord
(andrà a morire in Canada); c’erano stati danni, ma, a Washington, non più di due o tre vittime.

Quando misi il naso fuori, però, trasecolai: tutti gli alberi della strada erano stati abbattuti e,
venendo giù, avevano trascinato a terra i pali della luce e spezzato i fili, spesso ancora aerei.
L’albero nel giardino del vicino, che sembrava solidissimo, s’era andato ad appoggiare sulla casa,
sfondandone il tetto.

La luce non tornò per una settimana: per giorni, la prima cosa che chiedevi al collega o all’amico,
incontrandolo, era non ‘come stai?’, ma ‘hai la luce?’; furono organizzate distribuzioni gratuite
di ghiaccio, perché i frigo non funzionavano; gli alberi caduti vennero sezionati sul posto e man
mano sgomberati. Isabel non era stata devastante come sarebbe poi stata Katrina, ma lasciò dietro
di sé centinaia di case scoperchiate, migliaia di alberi sradicati, allagamenti, cinque milioni di
americani senza luce dalla North Carolina al Delaware.

lunedì 29 ottobre 2012

Usa 2012: è Sandy, e non Mitt, l'uragano anti Obama

Scritto per L'Indro il 29/10/2012

E’ Sandy, e non Mitt, l’uragano che Barack Obama deve fronteggiare, a una settimana esatta
dall’Election Day, martedì 6 novembre. La perturbazione che minaccia la Costa Est degli Stati Uniti
è un test della capacità del presidente di fronteggiare un’emergenza: milioni d’americani senza luce;
centinaia di migliaia evacuati solo a New York; migliaia di voli cancellati; Wall Street chiusa per la
prima volta dagli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001; Washington e New York paralizzate
per prudenza, con scuole, parchi, chiese, porti fermi. E a tutti un invito: “State a casa”.

E’ Sandy la ‘sorpresa d’ottobre’ della campagna 2012?, il fatto imprevisto che scompagina rapporti
di forza e previsioni? E’ presto per dire se l’uragano giochi a favore dal presidente, che, assumendo
il ruolo del comandante in capo, s’acquartiera nello Studio Ovale e cerca di parare all’emergenza, o
del rivale repubblicano Mitt Romney, che sospende anch’egli i comizi.

I due contendenti, ormai, fanno campagna in un fazzoletto: solo negli Stati in bilico decisivi,
quasi sempre tra Ohio e Florida –Sandy permettendo-. I sondaggi indicano equilibrio e incertezza:
Obama, che pare avere arrestato l’emorragia di consensi seguita al primo dibattito in diretta tv, è
avanti in alcuni rilevamenti, Romney è avanti in altri; ma i divari sono sempre inferiori ai margini
d’errore dei test.

Il numero degli Stati incerti oscilla: per alcuni sono 11, per altri 9, per quelli più sicuri di sé, o che
amano prendere dei rischi, solo 7. Dopo il terzo e ultimo duello, lunedì 22 a Boca Raton in Florida,
i due contendenti hanno avuto un’attività frenetica: comizi; e soprattutto spot, quanti più le casse
delle campagne consentono di sfornarne. Sono in campo i candidati presidenti con le famiglie e i
loro vice, anche se Romney sembra avere messo un po’ in naftalina il suo ‘numero due’ Paul Ryan,
adesso che non ha più bisogno di sollecitare l’elettorato conservatore e religioso, ma deve piuttosto
esercitare un richiamo sugli indecisi di centro e, quindi, sui moderati. Evitando, nel contempo, un
rischio per lui letale: demotivare l’ala destra del partito repubblicano, che potrebbe decidere di
non andare a votare per quel mormone che copia il presidente nero in politica estera. Così come
Obama deve evitare che i delusi del suo primo mandato testimonino la loro insoddisfazione con
l’astensione.

Il calcolo di base dei Grandi Elettori resta quello del sito 270towin.com, che ne assegna 201
sicuri a Obama e 191 sicuri a Romney: il collegio ne conta 538, ne servono 270 per vincere.
Gli altri 146 sono quelli di New Hampshire (4) e Pennsylvania (20) nel New England; Virginia
(13), North Carolina (15) e Florida (29) nel Sud; Michigan (16), Wisconsin (10), Ohio (18)
e Iowa (6) nei Grandi Laghi e nel Mid-West; Nevada (6) e Colorado (9) lungo le Montagne
Rocciose. RealClearPolitics.com considera la Pennsylvania e il Michigan già scontati per Obama.
Politico.com assegna pure la North Carolina a Romney e il Nevada a Obama.

Se prendiamo per buoni i conteggi di politico.com, abbiamo Obama a 243 e Romney a 206. Nei
sette Stati che restano, Romney è in vantaggio in Florida e nel New Hampshire, mentre Obama
è avanti nel Wisconsin e nello Iowa. Ohio, Virginia e Colorado sono davvero ‘too close to call’,
troppo serrati per essere assegnati, anche solo orientativamente.

A Obama, fare man bassa nei Grandi Laghi e nel MidWest basterebbe per restare alla Casa Bianca.
Di qui, una conferma della legge non scritta, ma ineluttabile, per i candidati repubblicani: se
vogliono diventare presidenti, devono vincere l’Ohio; e Romney deve riuscire in un colpo doppio,
vincere l’Ohio e pure la Florida, l’altro Stato determinante di Usa 2012. sarà lì che la partita si
giocherà con maggiore intensità.

Quale che sia l’esito della corsa presidenziale, pare quasi scontato che il prossimo presidente
sarà un’ ‘anatra zoppa’, cioè non avrà dalla sua tutto il Congresso: la Camera, infatti, dovrebbe

restare repubblicana; e il Senato dovrebbe restare democratico. Nell’Election Day, gli americani
non eleggono solo il presidente, ma rinnovano tutta la Camera e un terzo del Senato, designano
decine di governatori, votano una miriade di assemblee statali e locali e si pronunciano su decine di
referendum statali e locali.

mercoledì 24 ottobre 2012

Usa 2012: Obama e Romney e il gioco dell'oca degli Stati

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/10/2012

 

Il numero oscilla: per alcuni sono 11, per altri 9, per quelli più sicuri di sé, o che amano prendere dei rischi, solo 7. E’ lì, negli Stati in bilico dell’Unione, che il presidente Barack Obama e il suo sfidante Mitt Romney trascorreranno la maggior parte del loro tempo di qui all’Election Day, il 6 novembre: dopo il terzo duello televisivo, i due contendenti si sono subito gettati nelle ultime due settimane di frenetica campagna.

 

Da ieri e fino alla domenica che precede il voto, la loro attività sarà frenetica: comizi; e soprattutto spot, quanti più le casse dei due contendenti consentono di sfornarne. Saranno in campo i due candidati con le famiglie e i loro vice, anche se Romney sembra avere messo un po’ in naftalina il suo vice Paul Ryan, adesso che non ha più bisogno di sollecitare l’elettorato conservatore e religioso, ma deve piuttosto esercitare un richiamo sugli indecisi di centro e, quindi, sui moderati. Evitando, nel contempo, un rischio per lui letale: demotivare l’ala destra del partito repubblicano, che potrebbe decidere di non andare a votare per quel mormone che copia il presidente nero in politica estera. Così come Obama deve evitare che i delusi del suo primo mandato testimonino la loro insoddisfazione con l’astensione.

 

Il calcolo di base dei Grandi Elettori resta quello del sito 270towin.com, che ne assegna 201 sicuri a Obama e 191 sicuri a Romney: il collegio ne conta 538, ne servono 270 per vincere. Gli altri 146 sono quelli di New Hampshire (4) e Pennsylvania (20) nel New England; Virginia (13), North Carolina (15) e Florida (29) nel Sud; Michigan (16), Wisconsin (10), Ohio (18)  e Iowa (6) nei Grandi Laghi e nel Mid-West; Nevada (6) e Colorado (9) lungo le Montagne Rocciose. RealClearPolitics.com considera la Pennsylvania e il Michigan già scontati per Obama. Politico.com assegna pure la North Carolina a Romney e il Nevada a Obama.

 

Se prendiamo per buoni i conteggi di politico.com, abbiamo Obama a 243 e Romney a 206.  Nei sette Stati che restano, Romney è in vantaggio in Florida e nel New Hampshire, mentre Obama è avanti nel Wisconsin, nell’Ohio e nello Iowa. Virginia e Colorado sono davvero ‘too close to call’, troppo serrati per essere assegnati, anche solo orientativamente.

 

Ma a Obama fare man bassa nei Grandi Laghi e nel MidWest basterebbe per riconquistare la Casa Bianca. Di qui, una conferma della legge non scritta, ma ineluttabile, per i candidati repubblicani: se vogliono diventare presidenti, devono vincere l’Ohio; e Romney deve riuscire in un colpo doppio, vincere l’Ohio e pure la Florida, l’altro Stato determinante di Usa 2012. sarà lì che la partita si giocherà con maggiore intensità.

 

Certo, i sondaggi, negli ultimi giorni, hanno dato indicazioni così diverse da fare dubitare della loro fondatezza: a livello nazionale, la Gallup, fino a ieri, assegnava a Romney un ampio margine di 6 punti, mentre gli altri principali rilevamenti vedevano i due contendenti vicini.

 

Quale che sia l’esito della corsa presidenziale, pare quasi scontato che il prossimo presidente sarà un’ ‘anatra zoppa’, cioè non avrà dalla sua tutto il Congresso: la Camera, infatti, dovrebbe restare repubblicana; e il Senato dovrebbe restare democratico. Nell’Election Day, gli americani non eleggono solo il presidente, ma rinnovano tutta la Camera e un terzo del Senato, designano decine di governatori, votano una miriade di assemblee statali e locali e si pronunciano su decine di referendum statali e locali.

martedì 23 ottobre 2012

Usa 2012: dibattito3, meglio Obama, ma Romney non va ko

Scritto per L'Indro il 23/10/2012

Barack Obama vince l’ultimo duello in diretta televisiva con Mitt Romney: i sondaggi indicano che il presidente democratico s’è nettamente imposto  sul rivale repubblicano, addirittura 53% a 23% secondo la Cbs, con meno divario secondo la Cnn. La mia percezione è stata più sfumata, forse perché si parlava soprattutto di politica estera: Romney partiva con l’handicap, ma se l’è cavata, senza gaffes né errori; Obama era più a suo agio e ha sfruttato il terreno favorevole. Resta da vedere l’impatto che il dibattito avrà sull’elettorato, certo più attento all’economia e all’occupazione che agli affari internazionali.

Sulla politica estera, Romney ha confermato l’evoluzione moderata della sua campagna, che aveva invece avuto, durante le primarie, una deriva conservatrice, per contrastare gli antagonisti populisti e ultra-religiosi. Su molti terreni, la Primavera araba, la Siria, la lotta al terrorismo, il repubblicano ha sposato la linea del presidente, al punto che, sui social media, tamburellava il messaggio ‘Romney appoggia Obama’. Lo scivolone più clamoroso l’ha fatto il moderatore, Bob Schieffer, simbolo della Cbs e veterano dei dibattiti: ha parlato dell’uccisione di ‘Obama’ bin Laden, invece che di Osama.

Più che lo sfidante, è stato il presidente ad andare all’attacco. “La guerra fredda e' finita. Lo sa?”, ha così chiesto Obama a Romney, definendone le posizioni su Iraq e Afghanistan “non solo sbagliate, ma tali da mandare un segnale confuso”. Quando il repubblicano ha denunciato che le forze armate statunitensi dispongono, oggi, di meno unità navali che in passato, il democratico ha replicato: “Abbiamo anche meno cavalli e baionette, ma questo non significa che siamo meno forti”. Infine, Romney, nell’appello finale, s’è impegnato a riprendere “la torcia della libertà e della speranza”, mentre Obama l’ha accusato di volere “riportare indietro” l’America agli anni di George W. Bush.

Scintille sulla Cina, che il miliardario mormone ha esplicitamente accusato di “manipolare” i tassi di cambio, e sull’industria dell’auto, rientrata dalla finestra cinese nel dibattito sulla politica estera. Ma Michael Moore, il regista icona dei liberal americani, ha commentato sul suo twitter: "Hey, nessuna menzione di Europa, di America Latina, di Antartide … E' vero che, se non possiamo bombardarti, non parleremo mai di te".

E, in effetti, l’Europa è stata totalmente assente: non è stata citata neppure con riferimento ai rischi di contagio della crisi del debito. L’unico accenno, non lusinghiero, è venuto nel finale da Romney: “Obama conduce l’America sulla via della Grecia”. Il che non ha evitato al candidato repubblicano il giudizio tagliente di Maurizio Caprara, inviato del Corriere della Sera: “Ha fatto la figura dell’orecchiante”.

Le valutazioni a caldo della stampa sono in linea con i sondaggi: Obama vince, ma Romney non cade; oppure, Obama convince, Romney fa il moderato. Restano, ora, due settimane di campagna, fino all’Election Day del 6 Novembre: il presidente s’è subito rivolto ai suoi sostenitori, “Tocca a voi, datemi una mano”, perché l’esito del confronto è estremamente incerto.

Prima del dibattito i sondaggi erano contraddittori: per tutti, però, grande equilibrio, con l’eccezione della Gallup che vede Romney avanti al di là dei margini d’errore del rilevamento. Decisivi gli Stati in bilico,  specie Ohio e Florida –l’ultimo dibattito s’è svolto proprio lì a Boca Raton-: Obama e Romney ci passeranno la maggior parte del loro tempo, a caccia di Grandi Elettori. Su 538, quelli ancora in palio sono, a seconda delle fonti, 128 o 148, in nove o dieci Stati (c’è chi già assegna la Pennsylvania al presidente e chi la considera ancora aperta).

lunedì 22 ottobre 2012

Nobel Pace: Ue, un pomo della discordia

Scritto per EurActiv il 22/10/2012

Altro che Nobel della Pace: è il Nobel della discordia, quello assegnato all’Unione europea. Fa discutere più gli europeisti che gli euro-scettici, nel merito, nella tempistica, anche sulle modalità di ritiro. Adesso, almeno, una decisione è stata presa: lo ritireranno i presidenti delle tre principali Istituzioni europee, Consiglio, Commissione, Parlamento; e i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi Ue sono tutti invitati a Oslo, per la la cerimonia del 9 dicembre.

Ma la soluzione, salomonica e collegiale, su chi debba ritirare il premio non spegne, specie sul web, l’intreccio di commenti critici e proposte alternative. Il Movimento europeo e la Fondazione Rifkin, che si richiama all’economista Jeremy Rifkin, quello del ‘sogno europeo’, stanno organizzando manifestazioni di protesta pacifiche il cento città europee il 9 dicembre.

Il premio, dunque, sarà messo nelle mani di Herman van Rompuy, José Manuel Durao Barroso e Martin Schulz: dal punto di vista protocollare, nulla da eccepire, anche se la triplice designazione certifica la mancanza d’un rappresentante unico dell’Unione europea. Se il premio fosse stato attribuito a uno Stato nazionale, pochi dubbi che a ritirarlo sarebbe andato il capo dello Stato, senza troppi codazzi.

Nel giro di dieci giorni dalla decisione dell’Accademia norvegese, numerose lettere sono state spedite alle Istituzioni comunitarie, con proposte alternative di vario tenore: c’è pure chi ha ipotizzato una delegazione di 27 giovinetti, uno per Paese dell’Ue, innocenti abbastanza per non sentirsi addosso le macchie contro la pace dei loro Padri e, soprattutto, dei loro Nonni. Che, però, appartengono pure alla generazione dei Padri dell’Europa, quelli che, per giudizio pressoché unanime, il Nobel l’avrebbero effettivamente meritato.

In rete, è stato pure lanciato un sondaggio, che, dopo una settimana, aveva dato risultati modesti, sia per il livello di partecipazione che per la distribuzione delle indicazioni: neppure 2000 europei avevano ‘votato’ se mandare a Oslo Barroso (520 suffragi), Van Rompuy (341), Schulz (169) o il ‘ministro degli esteri’ europeo molto ombra Lady Ashton (appena 22 suffragi, e va già bene che 22 la conoscessero) o ancora Jacques Delors (222), quello che più s’apparenta ai padri dell’Europa fra i politici viventi. La maggioranza relativa dei partecipanti al sondaggio, 610, quasi uno su tre, avevano risposto “nessuno di questi”.

Un’altra iniziativa su Internet sosteneva la proposta di mandare a ritirare il premio Virgilio Dastoli, presidente del Comitato italiano del Movimento europeo, già rappresentante della Commissione in Italia, ma soprattutto a lungo stretto collaboratore di Altiero Spinelli. Nello stesso tempo in cui Barroso riceveva 520 preferenze, Dastoli ne ha avute dieci volte tante, circa 5000. Una riprova che non è l’idea d’Unione impopolare, quanto l’incarnazione che oggi ne danno i suoi attuali leader e i percorsi d’integrazione che essi ipotizzano.

Presa la decisione, al Vertice europeo della scorsa settimana, il brontolio del web diventerà mormorio e andrà presto spegnendosi. Ma il segnale è stato forte e andrebbe colto.

venerdì 19 ottobre 2012

Ue: Vertice, tanto rumore per nulla (o per poco)

Scritto per L'Indro il 19/10/2012. Altra versione su EurActiv.

Una volta di più, “tanto rumore per nulla”, o almeno per poco. Perché, a volere cercare dei passi avanti, nelle conclusioni del Vertice europeo di ieri e oggi, rispetto al Consiglio europeo di fine giugno, bisogna andarci con il lanternino e accontentarsi delle briciole. Per di più, dopo che l’agenda della riunione era già stata svuotata di potenziali contenziosi.

Così, non s’è parlato, a Bruxelles, se non nei corridoi, a margine della plenaria, di Grecia e Spagna, malgrado la drammaticità della situazione ad Atene e l’incertezza di quella a Madrid. Per la Grecia, pare però chiaro che si vada verso il versamento della prossima quota di aiuti pattuiti, 31,5 miliardi di euro, e verso una proroga di due anni, al 2016, del tempo entro cui completare il risanamento del bilancio. Per la Spagna, resta da vedere se e quando e in che misura il governo deciderà di chiedere interventi comunitari.

Il fatto saliente è che il Vertice ha tracciato la strada verso l’Unione bancaria, che, in realtà, era già stata tratteggiata –apprezzate la differenza, prego!- a giugno, in attesa che un altro Vertice, probabilmente quello di dicembre, la disegni con precisione – anche qui, apprezzate la differenza, prego!-. E, alla fine, anche se le riluttanze della Germania sono state stemperate, la cancelliera Angela Merkel ha comunque ottenuto di allungare i tempi di passaggio alla Banca centrale europea della sorveglianza su tutti gli istituti di credito europei –e, magari, Berlino tornerà a riproporre l’eccezione delle banche regionali tedesche-.

La Merkel non è andata lontano, invece, almeno questa volta, con l’idea d’un ‘super-commissario’ con poteri d’intervento sui bilanci dei Paesi dell’euro: Le istituzioni comunitarie, la Francia, l’Italia, la Spagna, vari altri sono stati concordi nel sostenere che non è una priorità ora; che per farlo bisognerebbe cambiare di nuovo i Trattati; e che, comunque, ‘basta con la priorità al rigore, pensiamo alla crescita’, fermo restando il rispetto degli impegni. Ma resta il sospetto che la storia del ‘super-commissario’ fosse uno specchietto per le allodole, per cercare di distrarre l’attenzione dall’Unione bancaria.

E il premier britannico David Cameron non l’ha spuntata con la sua proposta di bilanci separati per l’Eurozona e il ‘resto dell’Ue’, anche se l’argomento tornerà in tavola al prossimo Vertice, quello di novembre, dedicato proprio alla definizione del quadro del bilancio Ue a medio termine, 2014-’20: lì, Cameron si prepara a battersi ad oltranza e brandisce la minaccia del veto.

Il premier Monti ha rilanciato l’offerta, fatta a settembre, di un Vertice contro l’euro-scetticismo ed il populismo, a Roma, nella prossima primavera. Monti ci lavora con il presidente del Consiglio Herman Rompuy: il progetto è di riunire i leader dell’Unione sul Campidoglio, magari a 55 anni esatti da quel 25 marzo 1957, quando lì vennero firmati i Trattati istitutivi delle Comunità europee. Oggi, però, il magnetismo simbolico del luogo è fortemente appannato: la piazza di Michelangelo mostra, spesso, venature euroscettiche.

Sui mercati, l’impatto del Vertice è modesto. Lo spread, cioè il differenziale fra in titoli di Stato italiani e tedeschi, s’avvicina a quota 300, ma le borse appaiono incerte.  Del resto, dopo avere discusso fino alle 3 del mattino sul percorso dell’Unione bancaria, i leader dei 27 hanno liquidato - poco più di due ore - tutta la discussione degli interventi su crescita e lavoro e anche la valutazione della situazione internazionale, specie Siria e Iran. "Restiamo determinati a stimolare crescita e lavoro", riaffermano le conclusioni, ribadendo l’impegno a che tutti gli impegni assunti "siano rispettati rapidamente".

Il compromesso della scorsa notte ha consentito di superare i contrasti tra Germania e Francia, resi mediaticamente evidenti dall’animata discussione televisiva tra la Merkel e il presidente francese François Hollande, mentre s’avviavano ai posti di lavoro. Entro "il primo gennaio 2013" dovrà ora essere concordata "la cornice legale" del nuovo meccanismo di supervisione bancaria: mantenendo la data (messa in discussione da Berlino) si mantiene "il senso d'urgenza" del percorso, su cui Hollande non era disposto a cedere.
Il termine del primo gennaio 2013 non è dunque più vincolante per avviare la riforma, ma serve come limite massimo per definire nei dettagli la normativa in base alla quale la Bce potrà vigilare su tutti gli istituti di credito europei. La piena operatività del meccanismo estesa a tutte le 6000 banche della zona euro sarà però effettiva  solo all'inizio del 2014, cioè dopo le elezioni politiche tedesche del settembre 2013. Alla piena operatività è legata la possibilità del nuovo fondo salva stati permanente Esm di ricapitalizzare direttamente le banche: qui, la Merkel ha segnato un punto, perché le conclusioni confermano la ricapitalizzazione diretta da parte del fondo salva stati, ma non indicano una data. Sfumano quindi le speranze della Spagna di ridare ossigeno agli istituti di credito senza passare sotto le forche caudine di nuove condizioni per nuovi aiuti.
Infine, una questione diplomaticamente spinosa: il Nobel per la Pace all’Ue sarà ritirato il 10 dicembre a Oslo dalla troika dei presidenti europei, del Consiglio, della Commissione e del Parlamento. Ma i leader dei 27 sono tutti invitati. Si profila il tutto esaurito, nella capitale norvegese.

Ue: Vertice, una notte per restare alla casella di partenza

Scritto per EurActiv il 19/10/2012

Dopo un negoziato durato fino alle 3 del mattino, i leader dei 27 riuniti a Bruxelles hanno trovato un accordo sui tempi dell’Unione bancaria europea, cioè della supervisione della Banca centrale europea sugli istituti di credito dei singoli Paesi: le trattative su modi e tempi della supervisione saranno concluse entro la fine dell’anno e l’applicazione avverrà gradualmente a partire dall'inizio del 2013.

In pratica, il Vertice europeo ha confermato, con qualche ulteriore dettaglio, quanto era già stato deciso a fine giugno: un richiamo in tal senso era venuto dal presidente della Commissione europea José Manuel Durao Barroso, che aveva invitato i leader a “rispettare la parola data”. La Germania, nelle ultime settimane, aveva manifestato crescenti perplessità: vorrebbe sottrarre al controllo della Bce le proprie casse regionali.

Non è, invece, andata avanti la proposta tedesca d’un ‘super-commissario’ europeo che vigili e decida sui conti pubblici dei singoli Paesi dell'Eurozona: per istituirlo, è stato notato, ci vorrebbe una modifica ai Trattati e “non è questa la priorità al momento”, hanno osservato Francia, Italia, Spagna e altri Paesi.

Al Vertice, ha detto il premier italiano Mario Monti, non se n’è quasi parlato, ma, su questo punto, la discussione ha avuto momenti accesi a margine della plenaria, specie tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande, colti dalle telecamere in uno scambio di battute vivace. La proposta della Merkel, fatta in extremis, aveva irritato Hollande e altri leader, apparendo come un tentativo di ‘dirottare’ il Vertice dal tema dell’Unione bancaria di nuovo a quello del rigore.

Il Consiglio europeo si concluderà in giornata. Ieri, i lavori si erano aperti mentre la Grecia viveva un drammatico sciopero generale, con scontri in piazza ad Atene e la morte per infarto di un marittimo di 65 anni che protestava. A Bruxelles, i leader dell’Eurozona hanno espresso giudizi positicvi sui progressi della Grecia sulla via del risanamento: dichiarazioni che preludono alla concessione della tranche di 31,5 miliardi di euro prevista.

Infine, il Nobel per la Pace all'Ue sarà ritirato il 10 dicembre a Oslo dalla troika dei presidenti europei, del Consiglio, della Commissione e del Parlamento. E i leader dei 27 sono tutti invitati.

Usa 2012: quando vince chi perde, sarà la quinta volta?

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/110/2012

A 18 giorni dall’Election Day, Quello tra Barack Obama è Mitt Romney è un voto così serrato che può davvero succedere di tutto: quello che s’è già visto, e che cioè un candidato perda le elezioni, ma vada ugualmente alla Casa Bianca, perché ha la maggioranza dei Grandi Elettori, che è quello che conta; e pure quello che non s’è mai visto, e che cioè i due rivali si dividano a metà il collegio dei 568 Grandi Elettori, 269 voti a testa. La complessità del sistema e l’andamento dei sondaggi, con Romney avanti a livello nazionale, ma Obama avanti negli Stati incerti, autorizza le previsioni più paradossali, senza che il meccanismo venga, però, messo in discussione: le iniziative per cambiarlo hanno sempre avuto scarso seguito.

L’ipotesi che ‘vince chi perde’ non è peregrina. E’ già accaduto quattro volte (1824, 1876, 1888 e 2000) e, quindi, può accadere una quinta. Agli albori dell’Unione, molti furono i casi singolari, prima che l’elezione venisse codificata così com’è ora. Ma il 2000 è storia recente: Al Gore ebbe mezzo milione di voti popolari in più a livello nazionale, ma 257 suffragi contestati in più in Florida bastarono a consegnare quello Stato e la Casa Bianca a George W. Bush.

Se non c’è la maggioranza fra i Grandi Elettori, la Camera elegge il presidente; e il Senato elegge il vice: accadde una sola volta, nel 1824, quando i candidati erano quattro. I deputati preferirono John Quincy Adams, figlio del secondo presidente, a Andrew Jackson, che aveva avuto 47mila voti popolari in più (non pochissimi, a quei tempi). Di lì la regola che i figli dei presidenti vanno alla Casa Bianca perdendo le elezioni, perché, dopo Quincy Adams, toccò pure a Bush jr.

Oggi che i candidati in grado di vincere uno Stato sono solo due il ricorso alla Camera è (quasi) impensabile: ci vuole il pareggio. Nel 1876, il repubblicano Rutherford Hayes fu eletto dal Congresso in seduta congiunta. Eppure il suo rivale democratico, Samuel J. Tilden, aveva avuto il 51% dei voti popolari e aveva raccolto 184 Grandi Elettori –allora, la maggioranza era 165-, contro i 165 di Hayes. Ma in 4 Stati, Oregon, Lousiana, South Carolina e, già allora, la Florida, ci furono brogli e contestazioni: una commissione d’inchiesta assegnò la vittoria ad Hayes in tutti e 4 e gli consegnò la Casa Bianca.  in cambio, lui svendette al Sud l’eredità della Guerra Civile e aprì la via alla segregazione razziale, smantellata solo quasi un secolo dopo.

Nel 1888, Benjamin Harrison, ancora un repubblicano, battè il presidente uscente Grover Cleveland, che aveva avuto 100mila voti popolari in più,  con 233 Grandi Elettori contro 168. Cleveland si prese la rivincita nel 1892, tornando alla Casa Bianca.

giovedì 18 ottobre 2012

Ue: Vertice, svuotata l'agenda, sempre litigi, e un morto ad Atene

Scritto per L'Indro il 18/10/2012

Mentre in Grecia va in scena lo sciopero col morto contro l’austerity, a Bruxelles i leader dei Paesi dell’Ue s’incontrano per un Vertice europeo praticamente svuotato di decisioni, così che i contrasti appaiano meno stridenti. Negli scontri in piazza ad Atene durante le manifestazioni contro le misure di rigore decise dal Governo per rispettare i vincoli posti dalla troika delle istituzioni finanziarie internazionali, Ue, Bce, Fmi, un uomo muore d’infarto; e non è la prima vittima del la cura europea alla crisi mondiale, ma la notizia colpisce, pochi giorni dopo l’assegnazione all’Ue del Nobel per la Pace. Il Vertice coincide col 20.o anniversario del Mercato unico, uno dei segni più tangibili dell’integrazione europea.


Conflitto e preoccupazione, gli stati d’animo della stampa internazionale

Conflitto e preoccupazione: sono gli stati d’animo che la stampa internazionale associa, nelle ore della vigilia, al Consiglio europeo di oggi e domani. L'incontro dei leader, relegato quasi ad evento di routine, dopo che nell’agenda non sono state incluse decisioni cruciali, offre lo stesso occasione di contrasti. Lo scrive Die Welt, lo conferma il Financial Times, che prevede un confronto con la "riluttante Germania" in materia di Unione bancaria.

Secondo il New York Times è sempre più forte il timore di un’uscita della Gran Bretagna dall'Ue (ma gli americani raramente ci azzeccano, sulle dinamiche europee). Il NYT fa collage di una serie di indizi e conclude che il Regno Unito si sta muovendo inesorabilmente "verso la porta di uscita” dell'Unione. Al punto che esperti politici e finanziari avrebbero già denominato questo processo Brixit, una variante di Grexit, l'abbreviazione usata per "l'altamente probabile uscita della Grecia dalla zona euro" –andrà a finire che le due parole resteranno entrambe inutilizzate-.

Die Welt afferma che la proposta del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble di dotare l’Ue, previa modifica dei Trattati, d’un commissario con potere d’intervento sui bilanci nazionali, suscita a Parigi "una risposta di Parigi niente affatto entusiasta". E di fronte al "desiderio tedesco" di un maggiore controllo sui bilanci nazionali, il presidente francese Francois Hollande rilancia l’esigenza di introdurre gli eurobond, che la Germania non vuole. E torna ad emergere il contrasto d’accento tra Berlino e Parigi su rigore e su crescita.

Il Financial Times, invece, sostiene che l'unione bancaria è già "in fase di stallo": Francia, Spagna e Gran Bretagna, ma anche i presidenti della Commissione José Manuel Barroso e del Consiglio Van Rompuy sarebbero tutti turbati dal fatto che la bonaccia sui mercati possa ridimensionare il senso di urgenza rispetto al piano.

L’agenda europea e quella italiana

Dall’unione bancaria ai primi passi dell’unione fiscale, passando per l’Esm, i “contratti individuali” per la politica economica dei paesi membri e il bilancio unico della zona euro: i temi del Vertice sono già tutti in tavola da diversi giorni. Vediamo, punto per punto, con l’aiuto di Giuseppe Latour, di EurActiv.it, qual è la posizione che l’Italia porta al tavolo delle trattative

Il piatto forte è la vigilanza bancaria comune. Al centro dei negoziati c’è la proposta di avviare già all’inizio del 2013 il processo per cui tutti gli istituti di credito europei saranno posti sotto l’ombrello della Banca centrale europea: subito quelli sottoposti a piani di aiuto; dopo sei mesi, anche le banche “sistemiche”; a inizio 2014, tutte le banche.

Per molti, e in particolare per i tedeschi, non ha senso che tutti gli istituti di credito europei rientrino nella vigilanza di Francoforte. Italia e Francia vorrebbero invece partire subito, creando un raccordo tra la Bce e i singoli organi di vigilanza nazionali. Nell’ottica italiana, “il supervisore unico permetterebbe di sbloccare la ricapitalizzazione diretta degli istituti bancari” da parte dell’Esm. Insomma, si perde qualcosa in termini di autonomia, ma si guadagna molto a livello di garanzie. L’idea che il nuovo fondo salva Stati permanente aiuti direttamente gli istituti di credito senza passare tramite i governi è stata lanciata dal premier Monti elle scorse settimane.

Diversi gli schieramenti su un altro punto dell’agenda europea: il bilancio unico della zona euro. L’Italia giudica la proposta “molto interessante” e l’appoggia, insieme a molti paesi che puntano, come la Gran Bretagna, a spendere meno per l’Unione in tal modo. Però, nel contempo, i Paesi fuori dall’Eurozona potrebbero perdere qualcosa in termini di aiuti e investimenti.

A Bruxelles, si parlerà pure di “contratti individuali” dell’Ue con i diversi paesi per definire tabelle delle riforme strutturali e delle politiche di bilancio da condurre. Anche qui, l’Italia è favorevole. Per la verità, il consenso è diffuso, visto che si tratta solo di rimescolare quanto già previsto nell’ambito del semestre europeo.

Infine, per l’Italia è fondamentale che si parli del Patto di Crescita e occupazione lanciato a giugno: c’è da valutare l’analisi dei risultati cui il Patto sta portando, affidata a Barroso. In quel contesto, si discuterà anche del cosiddetto “Single Market Act”, il documento di indirizzo sul completamento del mercato unico avviato dalla Commissione ad aprile del 2011 e ancora, in larga parte, inattuato.

mercoledì 17 ottobre 2012

Usa 2012: dibattito2, Barack è tornato; e pure il solito Mitt

Scritto per L'Indro il 17/10/2012

Barack è tornato. E pure Mitt, quello delle gaffes,  è tornato: il secondo dibattito in diretta televisiva di Usa 2012 ci ha restituito i protagonisti che conoscevamo, dopo che il primo, il 3 ottobre, aveva quasi visto un’inversione dei ruoli: convincente e disteso lo sfidante repubblicano, impacciato e sotto tono il presidente democratico. L’uomo d’affari distante e noioso e il politico affabulatore e visionario s’erano scambiati le parti.

Nell’arena dell’Università di Hofstra, a Hempstead, nello Stato di New York, pavimento rosso e pareti blu, con Candy Crowley della Cnn a fare da moderatore e pure da arbitro –è stata lei a contare Romney, quando è stato messo giù da Obama sulla Libia-, i due rivali nell’Election Day del 6 novembre hanno risposto alle domande poste dai cittadini: economia, lavoro, valori, politica estera.

Media e sondaggi a caldo sono concordi: questa volta, ha vinto Obama, che ha arrestato la slavina Romney, da lui stesso innescata con l’opaca prestazione del primo dibattito. Ecco alcuni titoli: “Obama ritrova la grinta”; e ancora “Stavolta vince Obama”. Decine di milioni di americani, specie gli indecisi, hanno seguito il confronto di martedì notte, per capire chi votare: il dibattito ha premiato la loro attenzione, è stato teso, divertente, interessante. Uno spettacolo televisivo, ben più del primo, e come lo era stato la scorsa settimana quello fra i vice Joe Biden e Paul Ryan.

Due i passaggi critici, per Romney. Quando ha accusato l’Amministrazione Obama di avere nascosto agli americani che l’uccisione a Bengasi a settembre dell’ambasciatore Stevens e di tre marines fosse un atto di terrorismo (“l’ho detto dallo Studio Ovale”, gli ha replicato Obama, “offeso” dall’attacco; e la Crowley, corrispondente dalla Casa Bianca, ha confermato). In un altro momento, ha ricordato che, quando faceva l’imprenditore, volle assumere delle donne e gliene portarono “a pacchi” –di curricula, s’intende-: un’espressione, ‘binders’ in inglese, che è subito diventata un ‘tormentone’ sui social network.

Nel dibattito, durato un’ora e mezza, Romney ha insistito sull’economia e sul lavoro, ma Obama è stato, come aveva promesso, meno educato della prima volta: gli ha rinfacciato, ad esempio, il disprezzo espresso per il 47% degli americani non ricchi, neri, latini; e lo ha accusato di volere ridurre le tasse ai ricchi, mentre lui vuole ridurre gli sgravi fiscali a loro favore e aiutare la classe media. Ci sono stati ‘botta e risposta’ sulla bancarotta di Detroit e sulle prospezioni petrolifere, sull’immigrazione e anche sulle rispettive pensioni: Romney ha detto che con Obama gli Stati Uniti faranno la fine della Grecia; Obama che le politiche economiche di Romney sono quelle di Bush, che hanno innescato la crisi finanziaria del 2008.

Il terzo e ultimo duello tv tra i due rivali si svolgerà lunedì prossimo, il 22, all’Università di Lynn, a Boca Raton, in Florida, uno degli Stati chiave di queste elezioni. Si torna al formato della prima sfida: domande del moderatore Bob Schieffer della Cbs, sei segmenti di 15’ ciascuno. Boca Raton è la cittadina della gaffe finora più pesante di Romney in questa campagna, la frase irriguardosa verso quasi la metà degli americani: terreno scivoloso, per lo sfidante repubblicano, la cui strada è di nuovo in salita.

martedì 16 ottobre 2012

Scozia: referendum 2014. voglia d'indipendenza nell'Ue

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/10/2012

Nel 2014, gli scozzesi si pronunceranno sull'indipendenza dal Regno Unito. Un accordo in tal senso è stato firmato, ieri, a Edimburgo, dal premier britannico David Cameron e dal leader nazionalista Alex Salmond: ci sarà un referendum con una domanda secca, volete l’indipendenza sì o no, senza questioni sussidiarie su una maggiore autonomia.  Una vittoria dei sì suonerebbe campana a morto per la Gran Bretagna nella forma attuale e avrebbe contraccolpi anche sull'Unione europea, nei cui Stati si moltiplicano le spinte autonomiste, secessioniste e indipendentiste.

Le elezioni municipali in Belgio hanno visto un netto successo degli indipendentisti fiamminghi. E, domenica, il Partito sardo d’Azione ha approvato una  mozione indipendentista. Ma a Bruxelles si gioca allo struzzo: le secessioni di Catalogna, Fiandre, Scozia, altri sono “solo questioni ipotetiche”, dice la Commissione europea.

L’ “accordo di Edimburgo” è stato siglato a Saint-Andrews, la sede del governo locale e suggellato con una stretta di mano. Ma l’intesa non è piena e le tensioni persistono. Cameron resta convinto che la Scozia debba rimanere britannica, ma dice che bisogna rispettare “la volontà del popolo”: non sono più i tempi di Braveheart. I 5,2 milioni di scozzesi, del resto, nei sondaggi, non sono entusiasti dell’indipendenza: meno di un terzo, il 28%, auspica oggi di congedarsi dalla Corona. L’alternativa è quella di una “maggiore autonomia”.

Cameron spera “ardentemente” che la Gran Bretagna resti unita perché, “insieme, siamo più ricchi, più forti e più sicuri”. Parole che suonano strane, in bocca a un leader che s’appresta a difendere, giovedì, al vertice di Bruxelles, il diritto di Londra di battere strade diverse da quelle dell’Unione.
Salmond, leader del Partito nazionale scozzese (Snp), parla di “giorno storico” e crede nella vittoria dei sì: “Abbiamo una visione ambiziosa”. La Scozia è, dal 1797, un gioiello della corte d’Inghilterra, ma, dal 1997, gode di una particolare autonomia.

L’idea di un referendum sull'indipendenza è stata accettata da Londra a gennaio, dopo che Salmond era uscito rafforzato dalle elezioni regionali del 2011. L’accordo ieri firmato è un compromesso sulle modalità dello scrutinio.

lunedì 15 ottobre 2012

Usa 2012: Grandi Elettori, come perdere il voto, ma vincere

Scritto per L'Indro il 15/10/2012

Il conto alla rovescia procede: - tre settimane, - 21 giorni, - 2 dibattiti tv (dei 4 programmati) all’Election Day del 6 novembre. E l’incertezza, invece di dissiparsi, s’ispessisce: 270towin, il sito che tiene il conto di quanti Grandi Elettori i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti possono considerare sicuri, ha riportato il conteggio a 201 per Barack Obama e 191 per Mitt Romney, cioè là dove eravamo a inizio settembre, con 11 Stati in bilico.

Il sito s’è dunque rimangiato la mossa fatta a inizio ottobre, quando ne aveva dati 237 a Obama, attribuendogli Pennsylvania e Michigan ora di nuovo incerti. E’ l’effetto del primo dibattito tv, quello in cui uno spento e remissivo presidente era stato nettamente battuto da un efficace e convincente sfidante.

Poi, la scorsa settimana, cè stato il confronto dei vice: meglio dei capi, come spettacolo, più vivaci e più combattivi. Joe Biden, il democratico, vice in carica, e Paul Ryan, il rivale repubblicano, partivano da posizione rovesciate rispetto ai loro ‘principali’: favorito, sulla carta, Ryan, più ferrato in economia, più aggressivo, più brillante, rispetto a Biden, incline alla gaffe, più anziano, solido in politica estera.

Ma Biden ha fatto meglio del previsto; e Ryan non ha deluso. Alla fine, un sostanziale pareggio, con i sondaggi a caldo che davano risultati disparati l’uno rispetto all’altro, testimoniando, soprattutto, la relativa inattendibilità di certi rilievi a tambur battente. Obama ha subito ringraziato, per la bella prestazione, il suo vice, che non ha ‘toppato’. Il ticket repubblicano non ha guadagnato ulteriore terreno, ma neppure ne ha perso.

In questa fase della campagna presidenziale, la tv si conferma tuttora strumento centrale, molto più di facebook e twitter che pure la facevano da padroni fino a settembre. E l’attenzione è tutta puntata sulle prossime date: domani, c’è il secondo dibattito fra Obama e Romney, all’Università di Hofstra a Hempstead, nello Stato di New York, con le domande del pubblico, e la prossima settimana, il 22, il terzo e ultimo all’Università di Lynn, a Boca Raton, in Florida.

Il finale di partita s’annuncia incandescente: il presidente ammette di essere stato troppo ‘educato’ nel primo dibattito; e fa intendere che ne terrà conto nei prossimi duelli. E i sondaggi indicano che lo sfidante ha annullato, a livello nazionale, lo svantaggio e che è anzi passato in testa (i margini d’errore dei rilevamenti rendono, però, il dato statisticamente irrilevante). Il presidente resta avanti in alcuni Stati chiave, come Ohio e Florida; a avrebbe ricevuto i tre quinti dei suffragi già espressi, là dove si può votare prima.

Il sistema dei Grandi Elettori, in questo momento, favorisce Obama. Il presidente degli Stati Uniti, infatti, non lo eleggeranno 100 milioni di cittadini americani, uno più, uno meno, andando alle urne il 6 novembre. I cittadini non eleggono il presidente, bensì i Grandi Elettori del loro Stato, ripartiti in funzione della popolazione. E sono poi i 538 Grandi Elettori - maggioranza, 270 - a eleggere il presidente: tutti quelli di uno Stato vanno al candidato che, anche per un solo voto popolare, vince in quello Stato. Ovviamente, per rendere le cose semplici, ci sono eccezioni: il Maine e il Nebraska ripartiscono i loro Grandi Elettori su base proporzionale, fortuna che sono pochi, 4 e 3 rispettivamente.

Allora quel che conta, sono i Grandi Elettori ancora contesi: Obama e Romney, ormai, fanno campagna solo nei loro Stati. Sulla mappa di 270towin, dove gli Stati blu sono quelli sicuramente democratici e i rossi quelli sicuramente repubblicani, restano beige New Hampshire (4) e Pennsylvania (20) nel New England; Virginia (13), North Carolina (15) e Florida (29) nel Sud; Ohio (18), Iowa (6), Michigan (16) e Wisconsin (10) tra MidWest e Grandi Laghi; Nevada (6) e Colorado (9) sulle Montagne Rocciose.

Non tutti gli Stati in bilico hanno la stessa valenza. Vi sono quelli tradizionalmente incerti, cosiddetti ‘swing States’, che votano alternativamente democratico o repubblicano: esempi tipici, l’Ohio, lo Iowa, la Virginia, la Florida; e vi sono quelli contesi questa volta per ragioni contingenti, che possono essere l’origine di un candidato o la popolarità di certe sue idee in una certa area.

Di tutti gli ‘Stati chiave’, i due ritenuti più significativi sono Florida e Ohio: per i repubblicani, conquistare la Casa Bianca senza vincere l’Ohio è un tabù; per chiunque, arrivarci senza avere vinto in almeno uno dei due è praticamente impossibile.

Perché questo sistema dei Grandi Elettori, invece del suffragio universale diretto? Negli equilibri costituzionali statunitensi, il meccanismo ha una valenza federale –i Grandi Elettori di ogni Stato corrispondono ai suoi deputati alla Camera più i due senatori, così che anche i più piccoli ne hanno almeno 3- e serve ad evitare che un presidente venga eletto con i voti solo di un’area geografica. Inoltre, il sistema è dinamico: il peso degli Stati varia in funzione degli andamenti demografici, l’Ohio ad esempio ne perde, come tutto il Nord-est in generale, la Florida ne acquista, come il Sud.

C’è però un neo: il sistema consente l’elezione di un presidente che abbia avuto meno voti popolari del suo rivale. E’ già successo tre volte, due nell’ ‘800 e la terza, recentemente, nel 2000, quando George W. Bush andò alla Casa Bianca avendo vinto la Florida per 250 voti, nonostante Al Gore avesse avuto su scala nazionale mezzo milione di suffragi in più. E, da come si sono messe le cose, nessuno può escludere che accada di nuovo questa volta.

Nobel Pace: Ue, Dastoli a Oslo, plebiscito Facebook

Scritto per il blog de Il Fatto il 15/10/2012. Altra versione su EurActiv

Fa discutere gli europeisti, il Nobel per la Pace all’Unione europea: un po’ perché anche chi crede nell’integrazione e le riconosce il merito della pace più lunga mai vissuta dal Continente, trova che il momento non sia stato scelto bene; e un po’ perché c’è il rovello di chi il premio andrà a ritirarlo a Oslo il 10 dicembre. Si profila un ingorgo istituzionale tra i presidenti del Consiglio europeo Herman van Rompuy, della Commissione europea Manuel Barroso e del Parlamento europeo Martin Schulz, senza contare la responsabile della politica estera dell’Unione Lady Ashton e senza neppure citare quelli di turno del Consiglio dell’Ue, addirittura il presidente o il premier cipriota.

Sinceramente, nessuno di questi personaggi sembra avere la statura, o la storia, europea per ricevere un premio che è soprattutto un riconoscimento ai Padri dell’Europa, Robert Schuman, Jean Monnet, Altiero Spienlli: loro che, mentre il Continente viveva nelle tenebre del nazismo e della guerra, o faticava a ricostruirsi dalle macerie del conflitto, seppero intravvedere il percorso della pace e dell’Unione: loro che non ci sono più.

Sabato, è stato lanciato su Facebook un sondaggio su chi mandare a Oslo con cinque nomi bloccati: questa mattina, Barroso aveva avuto 240 designazioni, Van Rompuy 151, Schulz 68 e la Ashton 9 (di troppo). Jacques Delors, presidente della Commissione dal 1985 al 1985 per due mandati quinquennali consecutivi, l’artefice del Trattato di Maastricht, un personaggio europeo sicuramente degno, ha avuto 110 voti. La voce ‘nessuno di questi’ ha raccolto 190 consensi.

Contemporaneamente, e sempre su Facebook, nasceva sabato il gruppo “Let Pier Virgilio Dastoli pick up the Nobel Prize in Oslo”, creato da Angelo Consoli, direttore in Europa della ‘Fondazione on Economic Trends’ di Jeremy Rifkin, quello del ‘sogno europeo’. Questa mattina, la candidatura di Dastoli aveva già raccolto quasi 1600 adesioni e continuava a collezionarne: quelle, fra gli altri, di Barbara Spinelli, figlia di Altiero, di Giuliano Amato, di parlamentari europei e nazionali, del Movimento europeo -Dastoli è presidente del Consiglio italiano-, di varie sezioni del Movimento federalista.

Insomma, l’idea di Consoli piace agli europeisti: un po’, come sberleffo agli uomini delle istituzioni che oggi guidano l’Unione con prudenza e senza visione; e un po’ come omaggio ai Padri fondatori. Perché consegnarlo a Dastoli sarebbe un po’ come metterlo nelle mani di Spinelli, di cui Dastoli fu a lungo collaboratore, al suo fianco anche negli anni dal 1979 all’ ’86 da parlamentare europeo, quando Spinelli animava il Club del Coccodrillo e promuoveva quel progetto di Trattato istitutivo dell’Unione europea dai marcati tratti federali, approvato dal Parlamento nel 1984 e tuttora documento di europeismo più avanzato di tutti i Trattati successivamente approvati.

Nonostante il piccolo plebiscito online, Dastoli ad Oslo a ritirare il premio, quasi sicuramente, non ci andrà: magari, qualcuno spiegherà che l’Europa non può ripiegarsi sul passato, deve guardare avanti, come se Van Rompuy, Barroso o Schulz fossero il futuro. Ma il segnale da Facebook è chiaro: la voglia di buona Europa resta forte. 

sabato 13 ottobre 2012

Nobel Pace: Ue, alla memoria e alla speranza, ma perché oggi?


Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/10/2012

Un Nobel per la Pace alla memoria, ché certamente Robert Schuman, Jean Monnet, Altiero Spinelli e altri padri dell’Europa unita lo avrebbero meritato, loro che, mentre ancora il Continente viveva nelle tenebre del nazismo e della guerra, o faticava a ricostruirsi dalle macerie del conflitto, seppero intravvedere il percorso della pace e dell’Unione. Oppure, come molti ieri hanno detto, un Nobel alla speranza, un po’ come quello inopinatamente dato a Barack Obama all’inizio del suo mandato, quando ancora non aveva fatto nulla per meritarselo (e, in fondo, deve ancora farlo): per spingere l’Europa a uscire dalla crisi ed a recitare un ruolo di aggregazione sulla scena mondiale.

Sì, ma perché oggi?, che l’Unione europea attraversa la sua crisi peggiore –cito dal discorso all’Onu del premier Monti, il 26 settembre- e che non sa dare risposte alle attese dei suoi cittadini, lavoro, crescita,  equità, mentre vive in sordina, al traino più che a cassetta, gli sviluppi internazionali, anche quelli a lei più vicini, sulla Riva Sud del Mediterraneo. Forse, il Nobel 2012 è ‘real politik’: dopo il dissidente cinese, un letterato ‘ortodosso’; e, messe le cose a posto con Pechino, perché muovere le acque con Mosca o con Teheran?

Nessuno dubita che, con la sua storia, l’Unione europea questo premio se lo sia meritato: la pace più lunga mai vissuta in Europa dai tempi incerti della ‘pax romana’; la riunificazione del Continente dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo; e, tuttora, un disegno di superamento dentro l’Unione dei conflitti dei Balcani. E la presenza decennale nei Paesi in via di sviluppo, non solo per le emergenze, ma per la costruzione di un rapporto economico e commerciale con l’Africa, i Caraibi, il Pacifico.

Nelle motivazioni, il comitato norvegese per il Nobel ripercorre le tappe della costruzione dell'Unione. A Romano Prodi, ex presidente della Commissione di Bruxelles, il premio suggerisce una riflessione: “Abbiamo avuto secoli di guerre: ogni generazione è stata toccata da una guerra. Ora,per la prima volta abbiamo avuto 60 anni di pace. E’ una radicale novità”. E il presidente Napolitano parla di “progetto di pace”, mentre Monti e altri sottolineano il richiamo dell’Ue all’esterno.

Oggi, però, il Nobel non se l’aspettava nessuno. Neppure i leader dell’Unione, che hanno tutti dichiarato, quasi all’unisono, sorpresa e soddisfazione. E c’è stata una pausa nelle trattative in atto, a una settimana dall’ennesimo Vertice europeo, tra fughe in avanti d’una minoranza di Paesi (l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie) e battute d’arresto sulla via della soluzione delle crisi greca e spagnola.

Curioso, poi, che il premio all’Unione arrivi da un Paese che, per due volte, s’è rifiutato di entrarvi, addirittura con un referendum e dopo avere concluso minuziosi negoziati. E non è che i norvegesi abbiano cambiato idea: il premier Jens Stoltenberg si congratula, ma ripete che l'ingresso nell'Ue non è sull'agenda di Oslo.

La scelta suscita ironie a Mosca, dove gli anti-Putin l’aspettavano, e non solo. ''Prima a Obama, ora alla Ue. Chi sarà il prossimo? Forse l’organizzazione per la cooperazione di Shangai?“, dove stanno alcuni dei cattivi del Mondo. E ancora: “Una dimostrazione d’impotenza del comitato, per il quale gli interessi politici si rivelano superiori agli ideali della democrazia”. E c’è chi ricorda che il Nobel a Gorbaciov nel ’90 precedette la dissoluzione dell’Urss: cornacchie del malaugurio

Adesso, salterà fuori il problema di decidere chi andrà a ritirarlo il premio a Oslo, tra i presidenti del Consiglio europeo, della Commissione europea, del Parlamento europeo e quello di turno del Consiglio dell’Ue, senza contare la responsabile della politica estera dell’Unione: si profila un ingorgo istituzionale. Quanto alla cifra del premio, quella c’è da sperare la spendano bene.

venerdì 12 ottobre 2012

Ue: verso Vertice, tra fughe in avanti e battute d'attesto

Scritto per AffarInternazionali l'11/10/2012

L’entrata in funzione del nuovo fondo salva Stati permanente, l’Esm, ed i progressi nelle ratifiche del Patto di Bilancio; le proposte della Commissione europeo per realizzare l’Unione bancaria e completare il mercato unico; la coraggiosa iniziativa di cooperazione rafforzata per la Tobin Tax, cioè per una tassazione delle transizioni finanziarie. Ci sono un sacco di ingredienti per sperare che il Consiglio europeo del 18 e 19 sia una bella e franca discussione sulle prospettive dell’Unione, con la Gran Bretagna di David Cameron a opporsi alla Tobin Tax e ipotizzare scorpori di bilancio tra Ue ed Eurozona. Il tutto senza l’ansia di decisioni sul contingente.

E, invece, potete scommetterci che a Bruxelles la prossima settimana i leader europei parleranno, soprattutto, di Grecia e Spagna: se versare ad Atene la prossima tranche di aiuti scadenzati e se concederle la proroga di due anni che chiede per completare il risanamento dei conti pubblici (dal 2014 al 2016); e se sia meglio per Madrid sollecitare l’intervento europeo, ora disponibile, o cercare di farcela da sola, a parte i 100 miliardi di euro già concessile per salvare le banche.

Eppure, l’Unione europea pareva uscita dall’estate a tutto turbo: la decisione della Bce di acquistare senza limiti sul mercato titoli dei Paesi in difficoltà per ridurre gli spread pareva di per sé sufficiente a raffreddare le tensioni: e, poi, c’era stato il ‘mercoledì da leoni’, il 12 settembre, quando la Corte suprema tedesca da Karlsruhe dava un via libera, seppur condizionato, a Esm e Patto di Bilancio e l’Olanda decretava, alle urne, l’arretramento delle forze xenofobe e anti-euro. Sempre quel giorno, a Strasburgo, il presidente della Commissione Barroso rilancia la prospettiva federale, pronunciando, in Parlamento, il discorso sullo stato dell’Unione. L’Ue ne usciva più forte e più legittimata, democraticamente e giuridicamente.

Pareva abbastanza per rendere obsoleta la proposta appena lanciata a Cernobbio dal premier italiano Mario Monti e dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy: un vertice straordinario in Campidoglio, luogo simbolo dell’integrazione, contro gli euro-scetticismi e i populismi che proliferano nell’Unione. Anche se sarebbe illusorio gridare allo scampato pericolo: dalla Francia alla Grecia, dall’Ungheria all’Italia, nella stessa Germania, le forze qualunquiste e anti-europeiste restano agguerrite.

Ma, subito dopo quel giorno memorabile, invece di costruire baldanzosa sui propri successi, l’Unione s’è di nuovo fermata, rimettendo in discussione punti che parevano già acquisiti e restituendo fibrillazione ai mercati e nervosismo allo spread. E, in Italia, c’è chi si mette d’impegno a screditare politica ed europeismo: scandali come quelli che scoppiano a catena nella Regioni, scrive il Wall Street Journal,  “rischiano di spingere gli elettori tra le braccia dei partiti populisti anti-euro”.

Parlando dalla tribuna dell’Onu, all’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Monti, il 26 settembre, dava un giudizio drastico sulle difficoltà dell’Unione: “Quello che stiamo vivendo non è un ricorrente squilibrio ciclico… E’ la crisi peggiore e più grave dell’integrazione europea”. E, bocciando ogni ipotesi isolazionista o euroscettica, affermava: “Ormai è chiaro che avere più Europa sia un interesse globale”. Del resto, superare le difficoltà, osservava Monti, è nel dna dell’Unione: “Altre crisi hanno minacciato di cacciare l’Europa indietro, nel passato. E, ogni volta, gli europei hanno trovato modo di riprendete il loro cammino”. Ormai, “Il mondo ha imparato quanto sia essenziale un’Europa forte e credibile per affrontare le sfide globali dell’economia e della sicurezza. E quanto sia importante l’area Euro nella ripresa dell’economia mondiale. E l’Italia “continuerà a fare la sua parte” sul doppio binario del rigore e della crescita.

Lo iato dei leader

Ma c’è uno iato tra i discorsi da statisti dei leader europei, all’Onu o nei momenti solenni, come quando il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel celebravano i riti dell’amicizia franco-tedesca, anche come motore dell’integrazione europea, e i comportamenti al tavolo del negoziato. Per settimane, tra agosto e settembre, Monti, Hollande, la Merkel e, ancora, i premier spagnolo Mariano Rajoy e greco Antonio Samaras si sono incontrati in varie formazioni; e Van Rompuy, Barroso, il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Junckler, il presidente della Bce Mario Draghi e pure la presidente dell’Fmi Christine Lagarde sono stati protagonisti di questa fase di diplomazia economica.

Ma quando è l’ora di decidere, la dinamica si rallenta, le trattative quasi s’impantanano. E l’Unione ridà fiato ai suoi detrattori, spazio a chi le specula contro. In questo semestre, i lavori del Consiglio sono gestititi da una presidenza oggettivamente debole, Cipro, con un trittico di vertici cruciali il 18 e 19 ottobre, si farà il punto sul Patto per la Crescita deciso a fine giugno e sui progressi verso l’Unione bancaria, ma il dibattito sarà in larga misura dirottato dalle questioni contingenti, Spagna e Grecia; il 22 e 23 novembre si dovrebbe definire il quadro finanziario Ue settennale -e già Londra ne anticipa i dissensi-; e il 13 e 14 dicembre dovrebbero maturare le decisioni sull’Unione bancaria.

Esm e Tobin Tax

La via del primo Vertice è stata lastricata, negli ultimi giorni, da tensioni sociali in Grecia e Spagna, ma pure in Francia, Italia e altrove: i cittadini europei sollecitano con impazienza i loro leader perché li conducano fuori dalla crisi. E, a rassicurarli, non bastano le novità istituzionali maturate nelle riunioni di Eurogruppo ed Ecofin in settimana, a Lussemburgo.

L’Esm, cioè il nuovo fondo salva Stati permanente, è una realtà: il meccanismo di stabilità europeo è entrato in vigore, con la prima riunione del suo consiglio dei governatori, presenti anche Draghi e la Lagarde. E’ “una tappa storica nella costruzione dell’Unione monetaria”, afferma il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker: la zona euro “è ora dotata di una porta antincendio permanente ed efficace”. Il commissario all'economia Olli Rehn si dichiara "meno pessimista oggi che a primavera" sull'uscita dalla crisi dell'Eurozona.

Se il varo dell’Esm era ormai scontato, la brusca accelerazione sulla Tobin Tax è relativamente sorprendente. Dopo l’iniziativa di Francia e Germania, che avevano lanciato la conta per applicare della procedura di cooperazione rafforzata, anche l’Italia e altri otto Stati hanno detto sì –ce ne volevano almeno nove-. E’ un passaggio storico: mai finora s’è tentata una cooperazione rafforzata in ambito fiscale. Gli 11 Governi invieranno congiuntamente una lettera con cui solleciteranno l’Esecutivo comunitario ad agire in tempi rapidi: per l’Italia, la firma sarà del ministro dell’Economia Vittorio Grilli.

Poi, si lavorerà sulla proposta della Commissione europea. Uno schema prevedeva che si proceda con un’aliquota dello 0,1% sui valori azionari e obbligazionari, e dello 0,01% sui derivati: sarebbero così arrivati nelle casse comunitarie 57 miliardi di euro su scala Ue, cioè a 27 Paesi. Se saranno 11 o più, il flusso di denaro sarà ridotto: il ‘fronte del sì’ comprende, per ora, Germania, Francia, Italia, Spagna, Belgio, Austria, Portogallo, Grecia, Slovenia, Slovacchia, Estonia. Fuori tutti gli altri, soprattutto la Gran Bretagna, da sempre la più ostile alla tassa, e la Svezia.

Per l’Italia, la decisione è stata sofferta, perché l’applicazione ristretta presenta rischi oggettivi: un pericolo è disincentivare i grandi investitori finanziari internazionali; un altro è rendere più costosa la vendita dei titoli italiani; un terzo costringere i consumatori a sopportare il costo finale, che sarà loro immancabilmente scaricato dalle banche. Ma, su questi timori, ha prevalso il desiderio d’allineare l’Italia sul fronte più avanzato dell’integrazione europea. Anche se il tema Tobin Tax incresperà le acque del Vertice, non facilitando di certo il dialogo con Londra.

P.A.: integrità è efficienza, ricette Ocse ed esempi Usa e Pe

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/10/2012

Rafforzare l’integrità nel settore pubblico è uno dei dieci comandamenti dell’Ocse per restituire competitività all’Italia e dare slancio alla crescita. L’Organizzazione ci dedica uno studio ad hoc e verrà a farci un seminario a Roma: tre gli esempi scelti, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e, magari sorprendente, ma sempre alta in tutte le classifiche di serietà e affidabilità, la Slovenia.

Per migliorare l’integrità della Pubblica amministrazione, l’Ocse, ma anche l’Ue, contano sul ddl anti-corruzione. Nell’attesa, basta guardasci intorno, per individuare buone pratiche da imitare. Eccone tre di nostra scelta: l’America della fiducia e dell’intolleranza: fiducia, perché il cittadino tende a fidarsi del politico e/o del funzionario; intolleranza, perché, se la fiducia è mal corrisposta, la giustizia colpisce duro e in fretta. Il reprobo, per prima cosa, si dimette e se ne va.

Poi, uno qualsiasi dei Paesi Nordici europei, tutti campioni di trasparenza. Quel che potere politico e P.A. fanno è sotto gli occhi di tutti: case di vetro, documenti accessibili e pratiche comprensibili. E a tutelare il cittadino basta l’ombusdman.

Infine, il Parlamento europeo –ci siamo pure noi-, dove si guadagna bene, ma tutto ha da essere giustificato e rendicontato. Lì, l’eurodeputato dell’Estonia o di Malta ha, per andare a Strasburgo, indennità di viaggio inferiori a quelle dei consiglieri regionali del Molise per andare a Campobasso.