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mercoledì 31 luglio 2013

Italia/Ue: Sannino a EurActiv; L'Europa chiama, l'Italia risponde

Scritto per EurActiv il 30/07/2013

"C’è in Europa una forte richiesta d’Italia". E’ questa la convinzione dell’ambasciatore Stefano Sannino, dal 1° luglio rappresentante permanente del nostro Paese presso l’Ue. Nel contesto attuale, dove un Paese, la Germania, pesa più degli altri, "un’Italia più stabile, più credibile, che fa le cose che s’è impegnata a fare piace a tutti, anche ai tedeschi, perché facilita la ricerca di un bilanciamento nel Consiglio dei Ministri dell’Unione".  C’è, dunque, "voglia di credere" a questa Italia e, di conseguenza, "apertura di credito".
Ma, se l’Europa chiama, l’Italia risponde? “Certamente”, testimonia l’ambasciatore: “c’è un impegno corale del Governo italiano. Tutti i nostri ministri sono presenti alle riunioni a Bruxelles, intervengono nei dibattiti, portano idee”. Ma è importante che questo sforzo possa essere sostenuto nel tempo: “Dobbiamo mettere a frutto l’apertura di credito di cui godiamo, continuare a dimostrare solidità e affidabilità”.
Nuovo nel ruolo, ma con una lunga esperienza europea  -da ultimo, come direttore generale per l’Allargamento della Commissione europea- l’ambasciatore Sannino prevede che la ripresa europea, dopo la pausa estiva, sarà in due tempi. E spiega: “Ci sarà, prima, una ripresa stagionale; poi una ripresa politica”. Il mese di settembre servirà all'ulteriore messa a punto dei dossier a livello tecnico e diplomatico: bisognerà “usare il tempo in maniera intelligente, lavorare su quel che si può fare”. Invece, “sul grosso dossier dell’autunno, l’Unione bancaria, con il nuovo meccanismo unico di risoluzione delle crisi degli istituti di credito, sarà determinante un ulteriore impulso politico, probabilmente a livello dei capi di Stato e di Governo”. L’ambasciatore non lo dice, ma in molti ritengono che una spinta decisiva al dossier sarà impressa quando il nuovo quadro politico tedesco sarà chiaro. “L’Unione bancaria verrà nuovamente in primo piano già in occasione del Consiglio europeo di ottobre, mentre i lavori dei ministri delle Finanze nella filiera Ecofin procederanno in parallelo, probabilmente fino alla fine dell’anno”.
Quanto ai Vertici tematici previsti quest’anno, sull'Agenda digitale, o sulla Difesa europea, così com'è stato per quello sull'Energia, “essi servono a impostare la discussione su un problema, ma bisogna poi tradurre le idee in progetti concreti. Li prepareremo sulla base delle comunicazioni della Commissione”.
L’agenda d’autunno prevede anche, ricorda l’ambasciatore, la messa in pratica delle decisioni sulla crescita e l’occupazione, specie giovanile, del Consiglio europeo di fine giugno, la necessità di sbloccare i prestiti della Bei per le Pmi, e la finalizzazione del bilancio pluriennale Ue 2014/2020, portando a termine un delicato negoziato con il Parlamento europeo. “Non mi aspetto grandi variazioni sulle cifre, ma ci sarà piuttosto da lavorare sull'ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse, perseguendo obiettivi più qualitativi che quantitativi”.
Per quanto riguarda le priorità dell’Italia, “i temi di fondo restano crescita e occupazione giovanile”. Poi, “dobbiamo ulteriormente migliorare la nostra capacità di assorbimento dei fondi strutturali e consolidare la performance sulle procedure d’infrazione. E’ in atto uno sforzo collettivo, frutto di una presa di coscienza generale: del Governo, del Parlamento, delle Regioni, delle autonomie locali”.
Da una parte, ricorda l’ambasciatore, bisogna mantenere accesa la fiaccola degli ideali europeisti, con uno slancio verso l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa; dall'altra, rispettare i nostri impegni in materia di bilancio “con l’Italia ormai riammessa al club dei Paesi virtuosi dell’Eurozona, grazie alla determinazione del Governo ed ai sacrifici dei cittadini”; in parallelo, portare a compimento iter essenziali come le due Leggi europee, “prossima concreta scadenza in cui è impegnato il nostro Parlamento, che permetterà di recepire importanti direttive, nonché di diminuire il contenzioso con l’Ue, conseguenza di precedenti violazioni”. Procedure come quelle sui rifiuti o sull’Ilva fanno prestare meno attenzione ai discorsi di prospettiva, indica l’ambasciatore; pertanto, “occorre continuare ad articolare il nostro impegno su tutti i tavoli e su tutti i piani rilevanti: locale, regionale, nazionale, nei consessi negoziali a Bruxelles. L’Europa è la nostra quotidianità, e la nostra credibilità nell'Unione si basa su atti concreti, coerenza e continuità”.
Sullo sfondo, c’è già il semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio Ue, per il quale, il 7 agosto, si riunirà per la prima volta a Palazzo Chigi il “comitato di pilotaggio”, cui l’ambasciatore Sannino parteciperà. “Sarà un semestre molto particolare, con il Parlamento europeo in fase di formazione e di rodaggio dopo le elezioni di maggio e la Commissione in fase di rinnovo e d’insediamento”. Con la possibilità teorica, legata a dinamiche non preventivabili, di un periodo di esercizio provvisorio dell’attuale Esecutivo comunitario. Il rappresentante permanente italiano prevede che “per ragioni di calendario legate alla fisiologica messa a punto dei nuovi equilibri tra Istituzioni europee, l’attività legislativa durante il nostro semestre sarà probabilmente meno intensa che in altre fasi”. Ma bisognerà anche “vedere quanti dossier in discussione nell'attuale legislatura saranno rimasti ancora nella pipeline all'inizio della successiva”.
Ci sarà spazio, in ogni caso, per una riflessione sugli sviluppi istituzionali dell’integrazione. “Il presidente della Repubblica, il Governo e il Parlamento hanno una chiara vocazione europeista, di impronta federalista. Le recenti dichiarazioni dei vertici della nostre Istituzioni hanno fatto stato chiaramente della volontà dell’Italia di promuovere, in occasione del semestre di presidenza dell’UE, un rilancio del processo di integrazione politica”.  E’ vero, l’aria che tira in Europa è quella che è: non c’è un entusiasmo straripante per approfondire l’integrazione, con la Gran Bretagna che pensa al referendum, e l’Olanda che rivede le sue posizioni tradizionalmente europeiste. Però, indica l’ambasciatore, “il nostro Paese potrà fare la sua parte delineando le questioni sul tavolo, e stimolando i partner a mantenere un senso di prospettiva”. Come più volte sottolineato dall'Italia durante la discussione di importanti dossier in questi anni di crisi (e di trasformazione) dell’Unione: “fare tutto quello che si può a Trattati costanti, senza invocare strumentalmente la loro riforma quale pregiudiziale per approfondire il cammino di integrazione comune” ma al contempo “non considerare la riforma dei Trattati un tabù, perché l’obiettivo di fondo dell’Unione politica richiederà nuovi trasferimenti di sovranità ed assetti istituzionali nuovi”.
Come valuta le aperture tedesche all'Unione politica?, non vale la pena di andare a vedere se sono un bluff o meno? “Io non penso che le aperture della Germania siano un bluff, bisogna piuttosto capire le sensibilità ed i punti di vista dei nostri partner” suggerisce l’ambasciatore. “Ed è normale, come in un qualsiasi processo negoziale, che ciascun Paese, inclusa quindi la Germania, cerchi di promuovere i propri punti di vista e di tutelare i propri interessi”. L’importante è mantenere aperto un dialogo con tutti, senza pregiudiziali. “Anche con i britannici”, oggi i più euro-scettici e quanto mai lontani dalla prospettiva dell’Unione politica, “si possono fare progressi, ad esempio sul mercato interno, e persino sul bilancio, dove parliamo con la stessa voce sulla qualità e l’efficienza della spesa europea”.
L’importante, conclude l’ambasciatore, è che “l’Italia in Europa oggi ha molto da dire. Se sei credibile ed hai una visione, qui a Bruxelles sono pronti ad ascoltarti”.

martedì 30 luglio 2013

Visti dagli Altri: Berlusconi, l’attesa (ingenua?) dell’atto finale

Scritto per il blog de Il Fatto il 30/07/2013

 O sono creduloni. O ne sanno una più del diavolo, o almeno di noi. Perché la stampa estera vive l’attesa della sentenza della Cassazione sul caso Mediaset con tutti i crismi di un vero e proprio “atto finale” per il Cavaliere – è il titolo di Der Spiegel -, mentre per il Financial Times “la classe politica italiana ha raramente vissuto uno stato di suspense analogo”.

Ora, la notazione dell’FT è probabilmente vera, perché la fibrillazione è forte. Ma la percezione dello Spiegel appare più un auspicio che un dato di fatto. Anche perché, in Italia, gli “atti finali” non si recitano (quasi) mai… E, poi, a dirvi la verità, un po’ mi dispiacerebbe se l’ultima scena della sit-com del Berlusconi politico fosse recitata in un’aula di giustizia (e non sul palcoscenico d’un’elezione).

Il fatto è che i media stranieri sono meno ‘scafati’ di quelli nostrani, e di noi stessi, davanti all'italica capacità di evitare il ‘redde rationem’ tramite il rinvio, il cavillo, l'artifizio, il papocchio.

Il settimanale tedesco non conosce mezze misure: Berlusconi –osserva- rischia per la prima volta una condanna definitiva”. E aggiunge: “Il Cavaliere trema e il governo è nervoso, perché il verdetto potrebbe sfasciarlo”.

Riferendosi all'intervista di ieri a Libero, ampiamente rilanciata all'estero, lo Spiegel afferma che Berlusconi sta provando il ruolo del martire –sono innocente, ma "se condannato andrò in galera", cosa che, del resto, non rischia-. Il Times, invece, parla di “atteggiamento di sfida”, mentre molti media anglosassoni rilevano che il Cavaliere ha abbassato il tono degli attacchi alla magistratura, forse perché ora deve fare i conti con le toghe supreme.

Nella vigilia del verdetto, sempre che arrivi domani, non c’è quasi testata estera che non ci spenda un titolo: The Guardian, “L’interdizione dai pubblici uffici potrebbe porre fine alla carriera politica d’un uomo che, nel bene e nel male, svolge ancora un ruolo influente nel suo Paese”; Le Monde, “Berlusconi davanti alla Cassazione, la scadenza avvelena il clima politico”; Le Figaro, “A Roma va in scena una pièce gravida di conseguenze” per “gli equilibri della fragile coalizione e la durata della legislatura”; WSJ, “sentenza minaccia l’esile maggioranza”; WP, “ultime speranze” di Mr B nel “giorno del giudizio”.

Libération ci mette un po’ d’ironia: “Bustarelle invano”, è il titolo della storia di copertina dedicata a Berlusconi. Come la trama di una fiction: nonostante gli intrallazzi, l’ex premier è condannato e vede crollare il suo impero mediatico crollare. Dove realtà e sogno, cronaca e fantasia s’intersecano. O no? Aspettiamo la sentenza e –forse- lo sapremo.

sabato 27 luglio 2013

Italia/Ue: il semestre in bianco

Scritto per il blog de Il Fatto il 27/07/2013
Un semestre in bianco: ecco quello che ci aspetta! No, non spaventatevi… Che cosa avete capito? Non ‘in bianco’ in quel senso. E non sto neppure parlando del ‘semestre bianco’, che precede la fine del mandato del presidente della Repubblica, quando non si possono sciogliere le Camere e bisogna tenersi il governo che c’è, accada quel che accada. E non mi riferisco neanche al ‘semestre europeo’ che, adesso, sta a indicare tutto l’ambaradan di conti pubblici che bisogna sottoporre in primavera alle Istituzioni comunitarie perché li valutino, li correggano e ce li rimandino indietro vistati e integrati da un sacco di raccomandazioni.
Sto pensando al semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue, quello dal 1.o luglio al 31 dicembre 2014. Sì, è vero, manca ancora quasi un anno e, di qui ad allora, chi li sa i problemi, gli imprevisti, i rischi di crisi e le crisi vere e proprie che ci capiteranno tra capo e collo.
Tutto giusto. Ma io intanto vi avverto, perché, di qui ad allora, molto e sempre di più ne sentirete parlare, del semestre di presidenza di turno italiana, magari per puntellare il Governo Letta: se resiste fino a primavera, poi mica vuoi fare la crisi quando l’Unione ci guarda e ci aspetta? Tanto più che, al semestre italiano, ci tiene in particolare il presidente della Repubblica: Napolitano lo giudica "occasione cruciale e banco di prova per il rilancio dell'Ue e il ruolo d’uno Stato fondatore come il nostro" –dal discorso di lunedì 18, durante la cerimonia del Ventaglio al Quirinale-.
Ligio e attento, il premier Letta ha convocato mercoledì 7 agosto a Palazzo Chigi la prima riunione del cosiddetto “comitato di pilotaggio” del semestre italiano: ministri competenti –quelli più coinvolti lo sono, Bonino, Moavero, Saccomanni-, esperti, consiglieri. I propositi di partenza sono buoni: priorità poche e chiare, obiettivi definiti e raggiungibili.
Però, quasi a prescindere dalla volontà dell’Italia, il semestre andrà in bianco. A Bruxelles, lo sanno bene, calendario alla mano. E pure a Roma lo sanno, quelli che conoscono le scadenze e i ritmi dell’Unione: il secondo semestre 2014 sarà “molto atipico”,  perché cadrà dopo le elezioni europee di fine maggio e coinciderà con il rinnovo della Commissione europea e dei Vertici delle Istituzioni dell’Ue: con l’Assemblea in rodaggio e la Commissione in allestimento, ci sarà da gestire il valzer delle poltrone, se i giochi non saranno già stati fatti, il passaggio delle consegne e gli affari correnti. Salvo, naturalmente, crisi emergenti.
Anche l’attività di rilancio dell’integrazione, cui quel che resta dell’Italia europeista tiene molto, potrà avere al più funzione propedeutica a decisioni e iniziative che giungeranno a maturazione, se tutto filerà liscio, solo a partire dal 2015.

Vedo qualcuno che si frega le mani: chissenefrega dei dossier, se gestiamo le nomine ci toccherà qualcosa di grosso. A dire il vero, non mi farei troppe illusioni: per la Commissione europea, parte in pole position il tedesco Martin Schulz, ora presidente del Parlamento europeo; per l’Assemblea, fa la corsa in testa il francese Michel Barnier, ora commissario europeo. E noi abbiamo in pista Franco Frattini a segretario generale dell’Alleanza atlantica: non è un’istituzione europea, ma, se ci danno quello, mica ci tocca altro; e se non ce lo danno, magari ci siamo intanto bruciati il resto.

venerdì 26 luglio 2013

Presidenza italiana Ue: Letta convoca comitato pilotaggio, semestre atipico

Scritto per EurActiv il 26/07/2013

Il premier Enrico Letta ha convocato per mercoledì 7 agosto una riunione del cosiddetto “comitato di pilotaggio” in vista del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dal 1.o luglio al 31 dicembre 2014. Al consulto, a quanto s’apprende, sono stati invitati vari ministri, fra cui quelli degli Esteri Emma Bonino, degli Affari Europei Enzo Moavero Milanesi e dell’Economia Fabrizio Saccomanni, e numerosi altri interlocutori qualificati. Sarà pure presente il rappresentante dell’Italia presso l’Ue, ambasciatore Stefano Sannino.

La volontà di Letta di mettere fin d’ora i principali attori del semestre italiano intorno a un tavolo testimonia l’attenzione del premier per la presidenza di turno del Consiglio dei Ministri dell’Ue. Vi presta un interesse particolare anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, secondo cui "il semestre italiano è occasione cruciale e banco di prova per il rilancio dell'Unione e per il ruolo d’uno Stato fondatore come il nostro", come ebbe a dire lunedì 18 durante la cerimonia del Ventaglio al Quirinale.

Finora, la riflessione sul semestre italiano è stata portata avanti soprattutto da organizzazioni e movimenti europeisti e think tanks attenti agli affari internazionali ed europei. Il 'comitato di pilotaggio', diverso nel nome, ma analogo nella funzione alle abusate 'cabine di regia', convoglia il dibattito in ambito governativo.

La presidenza italiana prenderà il testimone dalla Grecia, che chiude il trittico in corso formato anche da Irlanda e Lituania. L’Italia apre un nuovo trittico con Lettonia –esordiente nel ruolo- e Lussemburgo, Paesi con cui dovrà esserci uno stretto coordinamento.

Il proposito di partenza è di non sovraccaricare di attese il semestre italiano, di non impostare, cioè, un “programma albero di Natale”, ma di avere piuttosto chiare le priorità principali, al di là di quelli che possano poi essere i singoli dossier trattati nei Consigli dei Ministri in formazione specifica (industria e competitività, agricoltura e pesca, affari sociali, ambiente ed energia, cultura, etc).

In ambienti comunitari, si nota, senza volere smorzare attese e ambizioni, che il secondo semestre 2014 sarà “molto atipico”,  perché cadrà subito dopo le elezioni europee di fine maggio e coinciderà con il rinnovo della Commissione europea e dei Vertici delle Istituzioni comunitarie. “Si corre, quindi, il rischio –indica ad EurActiv una fonte di alto rango, che non vuole essere citata- che l’Assemblea sia in formazione e che la Commissione, in regime di ‘prorogatio’, come già avvenuto in passato, debba limitarsi a gestire gli affari correnti”.

In questo caso, l’attività legislativa sarà ridotta ai dossier in tavola non esauriti, perché dall’Esecutivo comunitario non potranno arrivare nuove proposte. Ed anche l’attività di rilancio dell’integrazione dovrebbe avere funzione propedeutica a decisioni e iniziative che potrebbero giungere a maturazione solo a partire dal 2015.

giovedì 25 luglio 2013

Caso Ablyazov: Astana alla Bonino; guai a te, se cacci l'ambasciatore

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/07/2013
Se l’Italia si muove con imbarazzo e la Bonino non batte pugni sul tavolo, il Kazakhstan, invece che starsene buono, aspettando che la buriana passi, fa la voce grossa: Alma Shalabayeva, la moglie dell’oppositore dissidente, oltre che ricercato internazionale, Mukhtar Ablyazov, può tornare, se vuole, in Italia, a patto però che vi sia imprigionata per quattro anni per uso di documenti falsi; e quel che il ministro degli esteri italiano dice dell’inutilità dell’ambasciatore kazako in Italia, che sarebbe ormai bruciato, è solo un “parere personale”.
A parlare con tanta chiarezza, proprio mentre la Bonino interveniva davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato, è  stato ieri Yerbol Orynbayev, vice-premier kazako, che a Bruxelles guidava la sua delegazione al Consiglio di Cooperazione con l’Ue. Orynbayev non si cela dietro il paravento delle parole, timide e vuote, del presidente di turno lituano del Consiglio dei 28: del caso Ablyazov, “abbiamo brevemente parlato”, dice, reticente, il ministro degli esteri di Vilnius Linas Linkevicius.
Il vice-premier, invece, racconta che, a pranzo, con gli interlocutori europei, ha discusso “i dettagli del caso”. E aggiunge che Astana  non avrebbe problemi a rimandare Alma e la figlia Alua in Italia, purché –prima condizione- “vi siano garanzie di poterla ancora interrogare in futuro” e la donna s’impegni a presentarsi a testimoniare, se fosse chiamata a farlo in un processo in Kazakhstan.
E c’è pure una seconda condizione: ''Se Alma torna, dovrebbe essere imprigionata per quattro anni", perché ha usato un passaporto falso, come sarebbe stato accertato dall'Interpol del Centrafrica - secondo quanto riferito dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza italiano – durante le indagini svolte dalla questura di Roma. La questione del passaporto della Shalabayeva è controversa, ma Orynbayev insinua: se questa è la prospettiva, “è dubbio che voglia tornare”. Del resto, perché mai dovrebbe volere rientrare in un Paese che l’ha espulsa senza troppi riguardi?
Sempre in conferenza stampa, a Bruxelles, il vice-premier afferma che le autorità kazake stanno aspettando una decisione dell'Italia sulla possibile espulsione dell'ambasciatore kazako a Roma Andrian Yelemessov, prima di prendere contromisure: "Attendiamo una decisione ufficiale, se mai dovesse esserci, e quindi reagiremo''. Il che preannuncia una sorta di reazione a catena, come spesso avviene in questi casi: se l’Italia dichiara ‘persona non grata’ l’ambasciatore kazako, Astana farà probabilmente altrettanto con l’ambasciatore d’Italia laggiù, Alberto Pieri, che, in questi giorni, mantiene aperti i canali di contatto con Alma e la figlia.
E quando un giornalista gli fa notare che la Bonino ha definito l'ambasciatore Yelemessov ormai inutile agli stessi kazaki, perché dopo quanto accaduto "non lo riceverebbe più nessuno, Orynbayev, che non dev'essere un diplomatico di formazione, risponde che i pareri del ministro italiano "sono personali", sono solo “un punto di vista”.

La Bonino replica, dopo l’intervento davanti alle commissioni: "Il giudizio sul comportamento dell'ambasciatore kazako, inaccettabile, è già stato dato dal presidente della Repubblica e dal presidente del Consiglio". Ma Yelemessov si schermisce dalle accuse mossegli: in un’intervista, nega di avere fatto pressioni sul ministro dell’interno Angelino Alfano e anche di avergli parlato e dice di essersi limitato a passare carte dell’Interpol alla polizia italiana. Alma e la figlia –ammette, aggravando la posizione del governo Letta- "non c'entrano niente": "Le abbiamo rimpatriate perché l'Italia le ha espulse", ma "possono tornare, basta che avanzino una richiesta". "Qual è la mia colpa –chiede il diplomatico-? Ho puntato una pistola a qualcuno?". Non, di sicuro non ne ha avuto bisogno.

Al confronto con quello del vice-premier kazako, il linguaggio del presidente di turno europeo è esangue: "Seguiamo gli sviluppi della vicenda da vicino e osserviamo la situazione per quanto ci attiene”, dice il ministro Linkevicius, cui la Bonino s’era rivolta. Questo è l’appoggio che ci si può attendere dai partner europei: inquinato anch’esso, come la fermezza italiana, da gas e petrolio kazaki. Che da Bruxelles non avremmo avuto aiuto l’avevamo già capito: parole di circostanza di Lady Ashton, che altre non sa dirne, nonostante alcuni eurodeputati l’abbiano sollecitata, e timidi passi presso le autorità kazake della Commissione europea, senza però che il presidente dell’Esecutivo Manuel Barroso si spenda in prima persona. Eppure, si dice amico del despota Nazarbayev (o, forse, proprio per questo).

Nel pasticcio, però, ci siamo cacciati noi stessi. E, ai punti, vincono anche oggi i kazaki. La Bonino tiene la rotta della prudenza, non agisce contro l’ambasciatore, non fa volare in aria gli stracci, come era parsa annunciare lunedì, quando aveva parlato di “punti oscuri” in altre istituzioni, tranne quando afferma che “la Farnesina ha gestito il caso ex post” e rivendica di avere sempre “promosso e sollecitato un chiarimento”. Il ministro è “tormentata”: insiste che la "priorità" è la tutela di Alma e Alua, “quel che ci sta più a cuore". E dice di sentire “come obbligo morale, prima che politico", mantenere "contatti intensi” con le due donne e con le autorità kazake. Certo, se non le cacciavamo, non stavamo qui a piangere sul latte versato.

Datagate: Snowden verso la Russia; e l'Europa gioca Galileo contro Gps Usa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/07/2013, non pubblicato

Nel giorno in cui Edward Snowden, la 'talpa' del Datagate, s’avvicina alla Russia, che sta per dargli un asilo temporaneo di un anno, l’Unione europea presenta al Fucino uno strumento che, in futuro, se funzionerà, dovrebbe affrancarla dalla dipendenza dal Gps americano e darle una possibilità in più di sottrarsi al Grande Fratello Usa: nel centro spaziale di Telespazio, viene sperimentato pubblicamente per la prima volta Galileo, il sistema europeo di navigazione satellitare.

Sul fronte del Datagate, la giornata si apre con un lancio dell’agenzia russa Ria Novosti, secondo cui Mosca avrebbe concesso a Snowden di lasciare l’area transiti dell’aeroporto Sheremetyevo, dove si trova dal 23 giugno, da oltre un mese ormai, quando vi arrivò da Hong-Kong. La notizia viene poi corretta: la ‘talpa’ resta per ora dov’è, non ha ancora avuto documenti che gli consentano di entrare in Russia e non è neppure certo di ottenere l’asilo temporaneo.

La Casa Bianca si affretta a chiedere chiarimenti sull'attuale status dell'ex analista della Nsa, la cui presenza a Mosca intorbida i rapporti Usa-Russia. Più volte, il presidente Putin non ha escluso che Snowden possa restare in Russia purché cessi ogni attività anti-americana.

Se la burocrazia non sdogana ancora la ‘talpa’, un sondaggio gli dà conforto: i 3/4 degli americani pensano che le attività dell’Nsa smascherate dal Datagate violino la privacy. E, in Germania, organizzazioni umanitarie e pacifiste gli assegnano il premio 'gola profonda 2013', riconoscendogli il coraggio di rendere pubbliche informazioni sullo spionaggio Usa nonostante il rischio d’incorrere in gravi conseguenze penali.

E mentre Snowden s’accingeva all'ennesima notte nell'area transiti, al Fucino, l’Ue dava finalmente conto delle potenzialità di Galileo, un sistema di posizionamento e navigazione satellitare alternativo al Gps americano e con esso competitivo: il programma Galileo, che dovrebbe andare a regime l’anno prossimo, ha tre punti di forza specifici, precisione, affidabilità, copertura globale.

Avviato 10 anni or sono da Unione europea ed Agenzia spaziale europea (Esa), e spesso contestato per i suoi costi, progressivamente lievitati, il sistema europeo, che a regime conterà su 30 satelliti, sarà indipendente rispetto al Gps statunitense, ma potrà essere utilizzato congiuntamente senza alcuna interferenza. Secondo i calcoli della Commissione, nei prossimi 20 anni Galileo apporterà all'economia europea benefici pari a 90 miliardi di euro, ben superiori ai suoi costi, dell’ordine d’una dozzina di miliardi fino al 2020.

mercoledì 24 luglio 2013

Visti dagli Altri – Assediato, il fortino Letta cadrà per inedia

Scritto per il blog de Il Fatto il 24/07/2013

Alla stampa estera, il Governo Letta appare come un fortino assediato da tanti nemici, le cui forze, per il momento, non si coalizzano per portare l’attacco decisivo. E poiché nessuno dei nemici, cioè dei problemi, è, di per sé, così grave da farlo cadere, l’Esecutivo vivacchia tra scandali, divisioni, inefficienze, andando avanti con la bussola democristiana del rinvio massiccio e ad oltranza. Fino a che qualcuno non taglierà i viveri.

Testata che vai e Paese che giri, grana che trovi sui media europei: oggi, il Guardian titola sull'evasione fiscale, che costa all'Italia 120 miliardi all'anno; Les Echos punta sul caso Ablyazov, segnalando che "Emma Bonino è sotto attacco per l'imbroglio kazako" e che un "profumo di soldi e petrolio" aleggia su tutta la vicenda;  Die Welt constata che "l'Italia non riesce a sbarazzarsi delle sue rovinose province"; e lo spagnolo Abc presenta il premier alla "prova del fuoco" dell'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Il Financial Times, che ha spesso lo sguardo d’insieme, scrive che le potenti lobby impediscono al paese di diventare "normale" e minano gli sforzi perché l’Italia sia più efficiente e attraente per gli investitori esteri.

Come se non bastassero le mine interne, ecco i tiri d’avvertimento internazionali, oltre il caso Ablyazov. L’Italia è toccata nell’immagine dal Datagate e dalla ricerca di asilo di Edward Snowden ed è pure colpita dall’arresto a Panama di Robert Seldom Lady, subito restituito agli Stati Uniti piuttosto che estradato qui da noi, dove l’ex capo centro Cia a Milano deve scontare una condanna definitiva a 9 anni per il sequestro dell’imam Abu Omar.

Il giudizio quasi costante della stampa estera è che ogni vicenda “indebolisce il Governo Letta”, che, però, è talmente debole del suo che indebolirlo ulteriormente è persino difficile. Prendiamo l’esempio che fa il Guardian, la strombazzata lotta all’evasione fiscale: l'Italia ha uno dei tassi più alti al mondo d’evasione, ma il premier si ritrova azzoppato nella sua credibilità da un ministro, Josefa idem, dimessosi per irregolarità fiscali e dal suo ‘grande elettore’, Silvio Berlusconi, sotto schiaffo per la sentenza definitiva sull’accusa di concorso in frode fiscale nel processo Mediaset.  E il Cavaliere è pure una presenza ingombrante nel caso Ablyazov, su cui –secondo The Indipendent- pesano “le discutibili relazioni internazionali” dell’ex premier.

Eppure, c’è pure chi s’immagina che la tattica lettiana del “tirare avanti”, che non ha nulla a vedere con l’eroico “tiremm innanz” di Amatore Sciesa, possa funzionare per l’Ue e l’eurozona, che, a forza di piccoli passi, starebbe lasciandosi alle spalle la crisi. E’ la tesi shock del Wall Street Journal, che, un po’ a sorpresa, scrive: chi critica l’Unione “sottovaluta gli aggiustamenti appena realizzati”. Se dice il WSJ, vuol dire che rigore e sacrifici ne abbiamo davvero fatti un sacco. Persino più di quanti non ci sembra e non c’immaginiamo. 

martedì 23 luglio 2013

Caso Ablyazov: Bonino, "punti oscuri di altre Istituzioni"; Farnesina, "nostri"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/07/2013

Emma Bonino si presenta a Bruxelles con la grinta dei giorni belli: il ministro degli Esteri annuncia che sarà domani in Parlamento, per spiegare "punti ancora oscuri" sulla vicenda Ablyazov, “che altre istituzioni devono chiarire”. La dichiarazione, fatta prima dell’inizio del Consiglio dei Ministri dell’Ue, pare l’annuncio che la Bonino, criticata da più parti per la sua inazione nel caso Ablyazov, rompe finalmente gli indugi e dissotterra l’ascia di guerra in seno al governo.

Una fiammata, subito spenta. Più tardi, infatti, la Farnesina puntualizzava che i “punti oscuri” sono “di competenza” degli Esteri: un ritorno nei ranghi, insomma. Eppure, la Bonino se l’era proprio presa con “le istituzioni che continuavano a ripetere che tutto era regolare” nell'espulsione di Alma e di sua figlia Alua, mentre lei, “da sola” si preoccupava delle sorti della donna e della bimba.

L’incongruenza tra le parole del ministro e la precisazione del ministero resta tutta, alimentando l’impressione che l’irruenza della Bonino trovi, in questa vicenda, un doppio freno: da una parte, ci sono le sue preoccupazioni umanitarie; dall'altra, la vocazione diplomatica insita nella struttura, impersonata dal segretario generale Michele Valenzise, a stemperare e calmierare.

Il timore di nuocere ad Alma e Alua, di spezzare il filo dei contatti – due volte diplomatici italiani le hanno già incontrate ad Astana -, avrebbe finora suggerito prudenza al ministro, che non ha ancora deciso se cacciare dall'Italia l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov: è “un’opzione aperta”, dice. Ma la priorità resta “non indebolire per contro-reazione la presenza italiana ad Astana”, perché i kazaki potrebbero reagire all'espulsione del loro diplomatico con analogo provvedimento contro l’ambasciatore italiano.

La tesi della Bonino è che Yelemessov è ormai bruciato: “Da quando è stata provata la superattività dell’ambasciatore kazako, abbiamo preso una serie di iniziative per risolvere la questione”, avendo però cura di evitare d’indebolire la “capacità di assistenza” in loco ad Alma e Alua. “Non vorrei che, alla fine, restassimo, con una presenza indebolita all'avvicinarsi del Generale Agosto. E’ indubbio che l’attuale ambasciatore kazako, se tornerà dalle sue vacanze, non sarà più una persona molto utile a Roma nemmeno per i kazaki, dopo quanto è avvenuto”.

La Bonino non s’aspetta neppure una mano dall’Ue, che, infatti, non arriva: non una parola sul caso nel Consiglio di ieri, almeno ufficialmente. Ai giornalisti, il ministro ricorda di avere già avvertito “la presidenza di turno del Consiglio, lituana, che ha garantito tutto il sostegno e il supporto possibile” e la Commissione europea. Insomma, dall'Unione arrivano belle –e poche- parole. Ma l’Italia, in fondo, non chiede di più: magari, teme complicazioni, come se non bastassero i pasticci finora combinati in assoluta autonomia. O, forse, nessuno ha voglia di attaccar briga con i kazaki, che hanno gas e petrolio per mezza Europa.

Venerdì, il ministro ne aveva parlato in un contesto informale con alcuni colleghi  a Maiorca, dove s’era riunito il gruppo Westerwelle –ne fanno parte 17 ministri Ue-. E funzionari dell'Esecutivo Ue hanno pure preso contatto ad Astana con le autorità kazake, per accertare le condizioni di Alma e della sua bimba, ma il presidente José Manuel Barroso non è intervenuto in prima persona, nonostante gli s’accreditino buoni rapporti con il despota kazako Nursultan Nazarbayev –o, forse, proprio per quello-.

Sel accusa la Bonino di comportarsi come “Alice nel Paese delle meraviglie”. Ma il ministro insiste sulla necessità di essere vicini alla moglie e alla figlia di Ablyazov e di fornirle assistenza legale. E la Farnesina smentisce che il ministero degli esteri kazako abbia “convocato” l’ambasciatore d’Italia Alberto Pieri, dopo il passo fatto dalla Bonino con l’ambasciatore kazako –al colloquio, andò l’incaricato d’affari-. Pieri s’è più volte recato al ministero degli esteri kazako per avere informazioni e chiarimenti, ma sempre –viene specificato- di sua volontà.

domenica 21 luglio 2013

Politica estera: caso Ablyazov, Mister Bob, Snowden; Farnesina!, batti un colpo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2013

Farnesina, batti un colpo. Anzi, batti un pugno sul tavolo. Dei kazaki. Ma anche del governo, ché, su questa brutta storia di Alma e della sua bambina t’hanno detto ‘buona’ e tu ‘stai a cuccia’. Non che serva a qualcosa, ché, adesso che le abbiamo espulse, o le abbiamo consegnate che dir si voglia, mica le fanno tornare. Ma, almeno, ti fai sentire; e, magari, rispettare un po’ di più.

Sul caso Ablyazov, che cosa potevano fare Emma Bonino e il Ministero? Nulla di decisivo, almeno per riportare in Italia Alma Shalabayeva e la figlia Alua. Ma qualche gesto forte si poteva provare: convocare prima l’ambasciatore kazako a Roma, senza aspettare che fosse in vacanza; richiamare per consultazioni l’ambasciatore d’Italia ad Astana, che pure avrebbe forse potuto riferire dell’agitazione che si stava creando - ammesso che non se ne sia accorto -; dichiarare persona non grata l’ambasciatore Yelemessov, gesto quasi estremo nelle ritualità diplomatiche; e, da ultimo, di sicuro impatto almeno mediatico, andare ad Astana, come, giovedì, nel dibattito in Parlamento, Arturo Scotto, capogruppo Sel in commissione Esteri, ha suggerito alla Bonino.

Invece, da Alma il ministro ha mandato un funzionario dell’ambasciata in Kazakhstan, facendo poi sapere –è un comunicato di venerdì, quasi surreale- che la donna “sta bene” e ringrazia l'Italia “per il suo sostegno”: “con la figlia, ha piena libertà di movimento in città e ha accesso a internet”.

Emma Bonino è una donna energica, che di solito vuole fare la cosa giusta e la fa. Da commissaria dell’Ue, non esitò, appena insediata, ad affrontare con fermezza una guerra della pesca col Canada; e non si fece intimidire dai talebani andando a difendere i diritti delle donne in Afghanistan. Però, da quando è ministro degli esteri, sembra contagiata dalla “letargia” che la stampa estera rimprovera al Governo Letta nel suo insieme. Commentando il caso Ablyazov giovedì sera, alla Festa dell’Unità di Roma, Massimo D’Alema, un ex ministro degli esteri, teneva ben distinta la Bonino da Alfano, ma diceva: “Alla Bonino vogliamo bene, ma mi domando in quale letargo si trovasse la Farnesina" quando i diplomatici kazaki dettavano legge al Ministero dell’Interno.

Perché, sul caso Ablyazov, il Ministero degli Esteri e lo stesso ministro sono stati a lungo assenti, o molto discreti. Quando la bufera era già scoppiata, la Bonino è parsa a tratti più concentrata sull’ordinaria amministrazione del suo ruolo che sulla vicenda kazaka, che ha pesanti implicazioni diplomatiche ed umanitarie. Com’è stata poco incisiva su altri casi caldi di questi giorni, il destino di Edward Snowden, la talpa del Datagate, o il ritorno da Panama negli Stati Uniti, senza neppure valutare il fondamento della richiesta d’estradizione dell’Italia, di Robert Seldon Lady, Mister Bob, il capo centro Cia a Milano ai tempi del sequestro dell’imam Abu Omar, condannato a nove anni e in via definitiva dalla Cassazione.

Viene da pensare che, su questi temi, la Bonino sarebbe stata più combattiva e in prima linea se non fosse stata ministro, quasi che avverta le pastoie del ruolo e delle larghe intese. In diplomazia, è vero, si opera meglio in silenzio e nell’ombra che parlando e alla luce del sole. Però, vediamo i fatti. Su Snowden, l’Italia ha negato come altri l’asilo –legittimamente, perché la talpa del Datagate non rispetta le procedure- e ha chiuso come altri lo spazio aereo al velivolo dell’ambasciatore boliviano Evo Morales, perché gli Usa pensavano ci fosse a bordo l’ex analista dell’Nsa. E, su ‘Mister Bob’, la Farnesina ha subito “preso atto” e dichiarato “rispetto” della decisione di Panama di farlo ripartire per gli Usa. Intendiamoci, non c’era probabilmente modo di cambiare le cose, ma non c’era neppure bisogno di mostrare tanta rassegnazione.

Sul caso Ablyazov, la Bonino non ha preso nessuna iniziativa forte,  a parte la convocazione – solo mercoledì 17 luglio – dell'incaricato d'affari Manaliyev, in assenza dell'ambasciatore Yelemessov. Lì, le parole sono state chiare: il ministro ha manifestato “sorpresa e disappunto” per “l’irrituale azione” ambasciatore kazako, perché, in una vicenda così delicata, “anche sotto il profilo internazionale”, "i rappresentanti diplomatici kazaki non hanno mai interessato la Farnesina". Irrituale, ma, dal loro punto di vista, efficace: al Viminale, ottenevano tutto quel che volevano; perché complicarsi le cose chiamando in causa la Farnesina?

Magari, a tu per tu con Letta e con Alfano, la Bonino le avrà pure cantate chiare, ma il silenzio, dopo il colloquio sul palco della sfilata del 2 giugno, non è da lei. Non che sia rimasta inattiva, però: le cronache riferiscono che la Bonino ha offerto un Iftar, cioè una cena di Ramadan, ai capi delegazione a Roma di 42 Paesi musulmani; che è stata in Ungheria –ma soprattutto per incontrarvi il ministro degli esteri indiano e parlargli dei marò, altra nota dolente-; che ha ricevuto il premier eletto albanese Edi Rama; e che, ieri e oggi, a Palma di Maiorca, è stata al Gruppo Westerwelle, club informale dei ministri degli esteri di 17 Paesi Ue, dove si discutono gli sviluppi dell’Unione.

Attività tutte pertinenti. Ma non incisive là dove ci s’aspettava. Poco aiuto all’Italia è finora venuto anche dall’Ue. Funzionari della Commissione europea hanno preso contatti con le autorità kazake, ma il presidente Barroso non è intervenuto di persona. E la Bonino ha pure coinvolto il presidente di turno del Consiglio dell'Unione, il lituano Linas Linkevicius.

sabato 20 luglio 2013

Abu Omar: Panama fa partire capo Cia Milano, ma per Usa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/07/2013

Panama ci provò, una volta, a rifiutarsi di consegnare agli Stati Uniti qualcuno cui loro tenevano. Era il 1989: arrivarono i marines e gli elicotteri - nome dell’operazione in codice, Giusta Causa -, per prendersi l’ex presidente Noriega, ricercato per traffico di droga e violazione dei diritti umani. ‘Faccia d’Ananas’ si rifugiò nella Nunziatura, dove i marines non entrarono. Ma, due anni dopo, si consegnò: processato, condannato a 40 anni, è tornato a casa solo vent’anni dopo, quasi 80enne.

Stavolta, le autorità panamensi non hanno voluto rischiare. Due giorni dopo il suo arresto, Robert Seldon Lady ha già potuto ripartire per gli Stati Uniti. Su Mister Bob, 59 anni,  ex capo centro Cia di Milano, pesa una condanna della Cassazione in via definitiva a 9 anni per il sequestro dell’imam Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003, ai tempi della guerra al terrorismo dei tandem B & B, Bush e Blair, ma pure Bush e Berlusconi.

Difficile, adesso, prendersela con Panama, che s’è comportata con gli Stati Uniti più o meno come noi ci siamo comportati con il Kazakhstan nella vicenda d’Alma e Alua: sudditanza e acquiescenza. Con l’attenuante, per il Paese del Canale, che gli Stati Uniti non sono una dittatura che viola sistematicamente i diritti dell’uomo.

E, del resto, che Panama ci estradasse Mister Bob non ci credeva nessuno. Ferdinando Pomarici, che, da procuratore aggiunto di Milano, coordinò con Armando Spataro le indagini sul rapimento dell’Imam, era stato facile profeta: "Le autorità statunitensi si opporranno in tutti i modi all'estradizione di Lady e faranno pressioni in tutti i sensi affinché ciò non avvenga". Così è stato.

Tutto s’è risolto persino più rapidamente di quanto  Pomarici pensava. Anche perché Panama sarà pure il cortile dietro casa degli americani, ma, lì, noi ci abbiamo amici fidati: il presidente è quel Ricardo Alberto Martinelli Berrocal, d’origini italiane, tutto pappa e ciccia con il premier nostro Silvio Berlusconi, tramite il faccendiere intrigante Valter Lavitola.

Forse, la telefonata di Lavitola non è arrivata. Forse, n’è arrivata una più convincente. Fatto sta che, a metà giornata, il Dipartimento di Stato Usa faceva sapere che Lady aveva lasciato Panama e stava tornando negli Stati Uniti. Il ministero della Giustizia italiano non ha manco avuto il tempo d’inoltrare la richiesta d’estradizione. Secondo il Washington Post, i panamensi si sarebbero affrettati a rimettere in libertà l’ex capocentro Cia proprio per evitarsi la grana di dovere poi decidere sull’estradizione – tra l’altro, tra Italia e Panama non c’è un trattato in merito -. 

L’arresto di Lady era avvenuto quasi per caso mercoled’: entrato in Panama dal Costa Rica, Mister Bob, che viaggiava con una donna colombiana e un regolare visto, sarebbe stato fermato all’uscita dal Paese per il mancato pagamento di una tassa turistica. Dopo l’arresto, l’uomo, su cui pendeva un mandato di cattura internazionale dell’Italia, sarebbe stato consegnato all’Interpol.

Gli Italiani sono abituati a restare a mani vuote, quando ci sono di mezzo cittadini americani e crimini compiuti sul territorio italiano o contro cittadini italiani. Due casi su tutti: la tragedia del Cermis nel 1998, 20 morti, e l’uccisione a Baghdad nel 2005 di Nicola Calipari, l’agente del Sismi che ottenne la liberazione della giornalista rapita Giuliana Sgrena. Il pilota dell’aereo che tranciò i cavi del Cermis, Richard Ashby, fu processato in patria e assolto per tutti quei morti. Il marine che sparò a Calipari, Mario Lozano, venne prosciolto nel dicembre 2007.

Si capisce, dunque, che le reazioni siano caute, quasi rassegnate. La Farnesina "rispetta la decisione delle autorita' panamensi" sul rilascio di Lady. C’era stata subito la sensazione che l’arresto di Mister Bob fosse, per l’Italia, più un fastidio che un elemento di soddisfazione. Se il premier Letta avesse potuto scegliere quali timbri ‘fatto’ potere finalmente stampigliare sul registro vuoto del suo governo, certo non avrebbe puntato sul ‘caso Ablyazov’ e neppure sul ‘caso Lady’. L’espulsione di Alma ed Alua vale all’esecutivo tremolii nella maggioranza e scossoni nell’opinione pubblica; l’arresto di Lady creava imbarazzi con gli Usa e non emozionava per nulla la gente. W Panama, allora: vuoi vedere che l’hanno fatto perché ci sono amici? 

venerdì 19 luglio 2013

Dopo Alma, ‘Mister Bob’: povero Enrico!

Scritto per il blog de Il Fatto il 19/07/2013

Ma allora ditelo, che ce l’avete con le larghe intese, il governo Letta, Alfano e la Cancellieri. No, non parlo del Pd, ché quelli non ce l’hanno con nessuno, al massimo con i loro elettori. Ne dei ‘grillini’, ché quelli ce l’hanno con tutti. Parlo di quegli apparati dello Stato, la polizia, i servizi, solerti come non mai nell'espellere, a un cenno del capo –chi?, Nursultan?, o un suo agente locale?- Alma ed Alua, la sua bimba, ed efficienti come non mai a scovare a Panama ed a fare arrestare ‘Mister Bob’, cioè Robert Seldon Lady, 59 anni, l’ex capocentro della Cia a Milano.

Non c’era un solo italiano che si svegliasse la mattina chiedendosi che cosa ci facessero a Casal Palocco Alma ed Alua, anche perché nessuno sapeva che ci fossero. E credo che nessuno, uscendo ieri di casa, pensasse: “Speriamo che oggi prendano ‘Mister Bob’”, nonostante su Lady pesi una condanna definitiva della Cassazione a 9 anni di carcere per il sequestro dell’imam Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003, ai tempi della guerra al terrorismo dei tandem B & B, Bush e Blair, ma pure Bush e Berlusconi.

Ora, i due episodi sono diversissimi –uno appare il trionfo dell’arbitrio, l’altro della legalità- e non voglio assolutamente metterli sullo stesso piano. Che abbiamo espulso una mamma e la sua bimba, moglie e figlia d’un oppositore del despota nelle cui mani le abbiamo messe, siamo tutti scandalizzati. E che abbiamo arrestato un latitante sottrattosi alla nostra giustizia e ne sollecitiamo l’estradizione siamo tutti contenti: basta leggere le dichiarazioni di soddisfazione che piovono da ogni dove e i propositi del ministro Cancellieri di chiedere l’estradizione nei tempi giusti.

Ma siamo proprio sicuri che l’arresto di ‘Mister Bob’ sia stato accolto nei palazzi del potere con tutta ‘sta soddisfazione dichiarata? Se il premier Letta avesse potuto scegliere quali timbri ‘fatto’ potere finalmente stampigliare sul registro vuoto del suo governo, di sicuro non avrebbe puntato sul ‘caso Ablyazov’ e neppure sul ‘caso Lady’. L’espulsione di Alma ed Alua vale all'esecutivo tremolii nella sua maggioranza e scossoni nell'opinione pubblica; l’arresto di Lady crea imbarazzi con gli Stati Uniti e non emoziona per nulla l’opinione pubblica. Senza poi contare che l’ex agente della Cia stava proprio a Panama, Paese degli inciuci del Cavaliere e del faccendiere Lavitola con il presidente Martinelli e il suo staff.

C’è di che farsi venire qualche rovello. C’è un governo che non riesce a prendere le decisioni che considera prioritarie, perché la sua maggioranza glielo impedisce, ma fa, quasi a sua insaputa, cose di cui farebbe volentieri a meno. Ci va bene così?, o a chi va bene così? Forse, se lo chiede pure Enrico a Palazzo Chigi: ci vorrebbe proprio il quinto senso e mezzo di Dylan Dog.

Caso Ablyazov: Kazakhstan-Israele, armi, spie e interessi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/07/2013
Per l’Italia, Israele e Kazakhstan hanno un punto in comune: sono buoni clienti in fatto di armi, come risulta dal rapporto della Presidenza del Consiglio sull’export militare (fonte: UniMondo). Nel 2012, le autorizzazioni all’export raggiungono i 2.725.556.508 euro, le consegne sfiorano i tre miliardi. Israele guida la classifica con acquisti per quasi 473 milioni; il Kazakhstan è fuori dalla ‘top ten’, ma compra in Italia fucili d’assalto e pistole Beretta, oltre a 40 lanciagranate cal. 40mm con 1000 granate. Il regime di Nazarbayev acquista pure armi direttamente in Israele: ad esempio, un sistema di artiglieria del valore di 192 milioni di dollari. La pista israeliana nel ‘caso Ablyazov’ si spiega: l’agenzia Sira investigazioni di Ro­ma ebbe dall’israeliano Amir Forlit della Gadot information services, con sede a Tel Aviv, il compito di individuare il dissidente a Casal Palocco. S’ignora se la Gadot cercasse Ablyazov per conto proprio, o per conto terzi. Ma il Kazakhstan, paese musulmano, ha una politica estera pragmatica: buon vicinato con la Russia, intese con Usa e Cina, accordi militari con Mosca e Washington. E Israele cerca ‘amici’ fra i Paesi musulmani non arabi: incrinatosi il rapporto con la Turchia, guarda all’Asia centrale.

giovedì 18 luglio 2013

Caso Ablyazov: Onu, il Kazakstan fa le pulci all'Italia sulla corruzione

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/07/2013

A volte, il caso fa proprio le cose apposta per divertire e magari imbarazzare. Sapete quali sono i Paesi che, per estrazione a sorte, hanno il compito di ‘rivedere’ il comportamento dell’Italia, cioè, in pratica, di farci le pulci, all’interno del Gruppo di implementazione della Convenzione dell’Onu sulla corruzione? Bene, uno è il Liechtenstein, un Lussemburgo in miniatura –se possibile-, esperto di finanza e di traffici; e l’altro è - tenetevi forte - il Kazakhstan, sì -avete capito bene- proprio quello del ‘caso Ablyazov’ e della Alma espulsa con sua figlia. Adesso, state pensando che me lo sia inventato. Nossignore: sta tutto scritto nella relazione del Ministero sull’Amministrazione della Giustizia nel 2012, Ufficio coordinamento attività internazionale. Il sorteggio di Kazakhstan e Liechtenstein è avvenuto nel giugno 2012, un anno fa, in occasione della riunione del Gruppo presso la sede dell’Onu a Vienna. Magari, il ‘caso Ablyazov’ ci varrà un voto benevolo da parte del revisore kazako. Ma se la vicenda era un test sulla sudditanza alle lusinghe del potere e/o dell’energia, ne siamo proprio usciti male.

mercoledì 17 luglio 2013

Politica estera: caso kazako e altre magre, bestiario italiano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/07/2013

La politica estera, non solo quella italiana, segue sovente percorsi tortuosi. Tutto sta, però, a sapere dove si vuole arrivare. Prendete una notizia di ieri, apparentemente anodina: il ministro degli Esteri Emma Bonino va a Budapest, nella capitale dello Stato meno presentabile dell’Ue, il cui governo ha scarso rispetto per i principi democratici fondamentali, e vede il collega ungherese Janos Martonyi, “nella prospettiva – recita un comunicato della Farnesina - di definire le priorità” della presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue nel secondo semestre 2014.

Uno pensa: “Ma c’era proprio tanta fretta di andare a sentire gli ungheresi, mentre a Roma la casa brucia?”. Poi, andando avanti nel comunicato, si scopre che lì a Budapest c’era pure il ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid, ospite della Conferenza degli Ambasciatori ungheresi. E, lì, la Bonino l’ha incontrato: evocando “il rinnovato clima di cooperazione” fra Roma e New Delhi sulla vicenda dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, Emma “ribadisce il forte auspicio di una rapida conclusione delle indagini e del processo”, sottolineando “la volontà di continuare a perseguire l’obiettivo del rientro in Italia in tempi rapidi dei due militari”.

Insomma, dai kazhaki siamo certi che Alma Shalabayeva e sua figlia non le avremo mai indietro. Ma Latorre e Girone ci speriamo e ci proviamo, perché -non sai mai che tornino- la festa per loro attenuerebbe le polemiche per la moglie e la figlia del dissidente espulse.

Alla politica estera italiana, in realtà, non mancano le idee chiare sulle linee guida: una volta, dicevi atlantismo ed europeismo –ma potevi anche invertire l’ordine dei fattori- ed avevi detto (quasi) tutto, perché un po’ di attenzione al Medio Oriente, se non altro per la vicinanza, l’abbiamo sempre avuta. Adesso la Bonino declina così i suoi tre filoni principali: Diplomazia della Crescita, Europa e crisi del Mediterraneo; e, più o meno, ci siamo.

Il problema non sono le pentole: quelle sono a posto. Sono i coperchi che ci vengono male: quando si tratta di calare principi e linee guida nei singoli episodi, inanelliamo incidenti di percorso, particolarismo invece di visione generale, episodicità invece di costanza, quantità invece di qualità, i difetti italici li ritroviamo tutti nella nostra politica estera.

Non c’è neppure bisogno di andare indietro nel tempo, alle scelte sciagurate del sodalizio B & B, Bush e Berlusconi, negli anni più bui della guerra al terrorismo. Gli incidenti di percorso si vanno infittendo: Cesare Battisti, con il governo brasiliano dell' 'amico Lula’ che si fa beffe della richiesta di estradizione di un terrorista pluri-condannato in via definitiva per concorso in omicidio; i marò, ‘me li tengo, te li do’, mi rimangio la parola e me la rimangio di nuovo, sullo sfondo dei rapporti con l’India inquinati da affari non esemplari dell’industria delle armi nostrana; il caso Snowden, con lo spazio aereo italiano chiuso, come quello francese ed altri europei, al presidente boliviano Evo Morales perché gli Usa sospettavano che sul suo velivolo ci fosse la ‘talpa del Datagate’ – e non era vero -; infine, la macchia peggiore, la consegna kazhaka, che trasuda timore di dispiacere a un despota post-sovietico, Nazarbayev, e la disponibilità a barattare diritti dell’uomo con petrolio.

Di pari passo, gli amici impresentabili: il Cavaliere li collezionava con cura, Putin il russo, Lukashenko il bielorusso, lo stesso Nazarbayev. Il contagio arriva al governo delle larghe intese: Letta strizza l’occhio ad Aliyev l’azero, dopo la scelta del gasdotto Tap. E capita pure che, a trattare con gli impresentabili, si mandino faccendieri ancor più impresentabili, come Lavitola, plenipotenziario di Mr B a Panama e altrove.
Infine, c’è il problema del personale politico, che agli Esteri non è sempre stato di prim’ordine. Dall’interim di Berlusconi, di cui resta la foto mentre fa le corna ai colleghi dell’Ue, a Frattini, che cablo Usa impietosamente diffusi da Wikileaks definivano “fattorino”, all’ambasciatore promosso ministro al merito tecnico Giulio Terzi di Sant’Agata che, della grande tradizione diplomatica italiana aveva solo il nome nobile.

Certo, non ci aiuta, a noi che Grande Potenza non siamo mai stati,  neppure con la Terza Sponda e dieci milioni di baionette, l’assenza di una politica estera e di sicurezza europea, dentro la quale potremmo talora mimetizzarci. Dal 2008 pure la parvenza di politica estera europea s’è volatizzata: con la crisi, l’Ue pensa solo al proprio ombelico; e nessuno sa essere irrilevante come Lady Ashton.

martedì 16 luglio 2013

Difesa: 120 miliardi di euro l'anno i 'costi della non Europa'

Scritto per EurActiv il 16/07/2013

Se si paragonano le spese e le capacità militari degli Stati europei e degli Stati Uniti, viene fuori che il costo della mancanza d’una difesa continentale integrata s’avvicina ai 120 miliardi di euro l’anno. Uno spreco spaventoso, paragonabile all’intero bilancio annuo dell’Unione europea, che s’aggira sui 140 miliardi di euro. Uno spreco ancora più impressionante, considerando che la spesa globale per la difesa dei Paesi europei ammonta a circa 200 miliardi di euro l’anno: tre euro su cinque, insomma, sono buttati via in duplicazioni e ridondanze che non migliorano l’efficacia complessiva.

Dall’integrazione della difesa europea, l’Italia potrebbe ricavare risparmi per 14/15 miliardi di euro l’anno: roba da coprirci la cancellazione dell’Imu sulla prima casa, la rinuncia all’aumento dell’Iva  e un bel pacchetto di investimenti produttivi, con impatto positivo sulla crescita e l’occupazione.

Cifre e considerazioni che ricaviamo da un articolo di Valerio Briani su AffarInternazionali.it, rivista online dell’Istituto Affari Internazionali, del 23 aprile e da studi dello IAI e di altri think tanks italiani. Sono dati che, spesso, restano al margine del dibattito sulle spese della difesa, tutto avvitato, in questi giorni, sull’acquisto, o meno, degli F35, di cui s’è discusso oggi al Senato, dove la mozione della maggioranza è stata approvata e quelle delle opposizioni sono state bocciate.

Per spostare il dibattito su un terreno più generale e per dargli una prospettiva di medio periodo ed europea,  due convegni si sono svolti a Roma: a fine giugno, ‘I costi della non-Europa della difesa’, organizzato da Istituto Affari Internazionali e Centro Alti Studi per la Difesa a Roma, presso Casd, il cui presidente Rinaldo Vieri ha affermato che il progetto politico europeo può avere un futuro solo con una visione unitaria nei campi della sicurezza e difesa; e oggi, ‘Una difesa sotto attacco: costi e benefici’, organizzato da IAI e Nato a Palazzo Rondinini.

A discutere, in entrambi i casi, politici e militari, esperti e docenti, ricercatori e giornalisti. In Italia, come negli altri Paesi dell’Unione europea, la difesa e la sicurezza hanno subito tagli profondi, negli anni della crisi e in conseguenza della politica di austerità. Tra il 2005 e il 2012, il bilancio della difesa dei 27 s’è già ridotto da 200 à 170 miliardi di euro, un calo del 15%. Eppure, i margini per coniugare risparmio ed efficienza restano notevoli.

L’opinione pubblica e pure quella politica tendono a considerare la sicurezza europea assicurata dalla Nato e a dare per scontato che i Paesi europei, pure le ‘potenze nucleari’, come Gran Bretagna e Francia, non siano in grado di sostenere un conflitto e neppure un’intera missione militare internazionale. Eppure, un rimedio ci sarebbe: unificare, d’intesa e non in contrasto con gli Stati Uniti, le strutture di difesa e di sicurezza europee per ridurre le spese nazionali ed aumentare l’efficacia continentale del dispositivo militare.

Tentativi per ampliare la collaborazione europea nel campo della difesa e della sicurezza sono stati già attuati in quattro direzioni: istituzionale, militare, industriale e scientifico-tecnologica. Ma queste collaborazioni restano insufficienti e mal sfruttate. Eppure, l’unica via perché l’Europa resti una potenza internazionale sul piano militare è quella della condivisione e dell’integrazione. Se ne discuterà a dicembre, a un Consiglio europeo dedicato proprio alla difesa e alla sicurezza, anche se l’approccio rischia di essere più da mercato interno che da politica estera e di sicurezza comuni.

domenica 14 luglio 2013

Usa: Trayvon, quando la giustizia non c’è

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 14/07/2013
                
Quando c’è di mezzo il colore della pelle, o qualche complicazione etnica, la giustizia americana fatica a essere giusta. Spesso, va nel senso che chi ammazza, o pesta, un nero, specie se è un agente di polizia bianco, può cavarsela con poco, o nulla, almeno fin quando una sommossa razziale non induce la magistratura, magari federale, a rivedere i fatti e le carte –è il paradigna Rodney King-. Però, può anche andare che un nero che ammazza la moglie bianca e un di lei amico viene assolto perché il suo avvocato convince la giuria che la condanna sarebbe frutto di un pregiudizio etnico –è il paradigma OJ Simpson-. E le cose si complicano ulteriormente, quando le etnie s’intrecciano, ispanici, asiatici, neri, bianchi.

L’assoluzione di George Zimmerman, 29 anni, origini ispaniche, dall’accusa di essere penalmente responsabile della morte di Trayvon Martin, 17 anni, afroamericano, pare confermare quanto sia difficile essere giusti, in casi del genere: il verdetto ‘non colpevole’ è stato emesso dai giurati –sei, tutte donne- dopo 16 ore di camera di consiglio.

La notte del 26 febbraio 2012 a Sanford, in Florida, George, una guardia volontaria, cioè una sorta di agente di ronda, uccise con un colpo di pistola Trayvon, che, disarmato, usciva da un negozio: aveva in mano una bibita e un pacchetto di caramelle e andava a casa del padre. La sua ‘colpa’: avere il cappuccio di una felpa in testa, come milioni di adolescenti americani.

Lo sparatore s’è sempre dichiarato innocente, sostenendo di avere agito per legittima difesa dopo essere stato aggredito, negando ogni movente di tipo razziale. I giurati gli hanno creduto: l’uccisione di Trayvon non è stata omicidio preterintenzionale –George rischiava l'ergastolo- e neppure omicidio colposo -da 10 a 30 anni di carcere-.

All’epoca dei fatti, l’emozione fu grande. Migliaia di giovani andarono a Sanford, con il cappuccio della felpa calato in testa, per manifestare solidarietà alla famiglia della vittima. Il presidente Obama commentò l’episodio, dicendo che se avesse avuto un figlio sarebbe stato come Trayvon e chiedendo chiarezza, perché la polizia locale aveva inizialmente deciso di non arrestare lo sparatore.

Ed ora la sentenza rischia di avere strascichi nell’opinione pubblica, che, per settimane, ha seguito il processo in diretta tv, divisa sulla valenza di quell’uccisione e sul movente razziale: le proteste sono iniziate subito dopo l’assoluzione di George, fuori dal tribunale, dove una folla aspettava la giustizia che non ha avuto. Nella notte, ci sono state manifestazioni a Washington e a Oakland, in California.

Ma, intanto, George è un uomo libero. E Trayvon un ragazzo morto. Ucciso da chi gli ha sparato e pure dalla giustizia.

sabato 13 luglio 2013

Italia/Ue 2014: dibattiti; federalismo leggero, la formula è servita

Scritto per EurActiv il 13/07/2013

Quale Europa, per l’Italia?, e quale Italia, in Europa? Su questi temi, c’è un fervore inconsueto d’incontri e di dibattiti. Movimenti europeisti, centri studi, persino alcuni politici hanno, o prendono, coscienza del profilarsi all’orizzonte dell’ingorgo istituzionale Ue 2014, di cui l’Italia sarà protagonista, perché, nel secondo semestre, avrà la presidenza di turno del Consiglio dei Ministri dell’Unione.

Il ritmo sarà serrato: a fine maggio, le elezioni europee; poi, il rinnovo dei vertici delle Istituzioni dell’Ue e di tutta la Commissione di Bruxelles; e, dopo, la prospettiva –nebulosa, ora- dell’avvio d’una fase d’approfondimento, e di revisione, dell’integrazione. La stagione delle nomine potrebbe anche coincidere con qualche novità procedurale, come la designazione, da parte dei partiti europei, di candidati alla presidenza dell’Esecutivo; e c’è pure chi prospetta, ma è ipotesi più sfumata e incerta, una confluenza dei ruoli di presidente dell’Esecutivo comunitario e del Consiglio europeo.

Senza contare le suggestioni storiche di cui il 2014 è latore, con una coincidenza quasi perfetta - nota il ministro degli Affari europei Enzo Moavero - tra “l’inizio della disgregazione e la fine dell’integrazione”: a cent’anni dall’assassinio di Sarajevo e dalla deflagrazione della Grande Guerra, si starà per completare l’inserimento dei Balcani nell’Unione.

Molte le occasioni per parlarne, nella settimana che si conclude. Solo per citarne alcune: martedì 9, alla Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, la presentazione, un po’ fuori tempo, dell’annuario IAI e ISPI sulla politica estera dell’Italia; mercoledì 10, l’incontro del ministro degli Esteri Emma Bonino con il comitato direttivo dell’Istituto Affari Internazionali; giovedì 11, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, l’East Forum 2013 dedicato al tema ‘Cittadinanza europea, legittimità democratica e unione economica: quale agenda per un’Europa più forte”.

L’East Forum è stata la scena di un vero dibattito tra un vero euroscettico, col senso del marketing, Vaclav Klaus, ex presidente della Repubblica Ceca (“la risposta è meno Europa, non più Europa”), e un vero europeista, Guy Verhofstadt, ex premier belga, eurodeputato, co-presidente del Gruppo Spinelli. Ma pure Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, non ha sfigurato quanto a euro-sfiducia, argomentando che “chi parla di Stati Uniti d’Europa parla contro l’Europa” e che “l’Europa non è la nostra salvezza”.

Uno dei nodi del dibattito europeo è la cessione di sovranità degli Stati all’Unione perché si realizzi, ad esempio, una vera governance europea dell’economia e della finanza, oltre le Unioni monetaria e bancaria, e perché s’avanzi in prospettiva verso l’Unione politica. Verhofstadt spiega che più potere all’Unione non significa perdere sovranità, ma, al contario, riappropriarsi di una sovranità che, nell’attuale contesto internazionale, gli Stati europei hanno già perduto: nel giro di due/tre decenni, il vero G8, dove oggi siedono impropriamente quattro Paesi Ue, non ne vedrà presente neppure uno, perché, accanto a Usa, Cina, India, Giappone, Brasile e Russia, vi saranno Messico e Indonesia.

Nel disegno della Bonino, l’Europa è, con la Diplomazia per la Crescita e le crisi del Mediterraneo, uno dei tre filoni principali della politica estera italiana, con la certezza che, sull’integrazione, “non si torna indietro, ma si va avanti”. Senza riconoscersi in nessuna delle tre posizioni oggi prevalenti nei 27 –non solo a livello di governi, ma anche di opinioni pubbliche-: quelli che puntano tutto e solo sul mercato; quelli che preferiscono stare fermi, aspettando il superamento della crisi (o, magari, a più breve termine, le elezioni tedesche); e quelli che vorrebbero smantellare quel che c’è, a cominciare dall’euro.

Al di là del riconoscimento degli errori e delle latitanze dell’Unione (contro la crisi, o sui fronti della politica estera), la Bonino è pronta a “dare battaglia” verso un’Unione politica caratterizzata da un federalismo leggero e un bilancio più robusto: la formula è servita, bisogna ora darle concretezza e contenuti. E fra gli europeisti c’è chi prepara la battaglia non solo per un approfondimento dell’integrazione, ma anche – nota l’ambasciatore Rocco Cangelosi, ex rappresentante dell’Italia presso l’Ue – per un cambiamento delle regole

Il tutto nel segno di appelli schizofrenici a una maggiore democraticità delle istituzioni europee, dove, da una parte, si vuole più partecipazione alle scelte europee, ma, dall’altra, si teme l’inquinamento populista. Fin quando Giuliano Amato sbotta in un “basta con il demos”, ché, “se fossimo stati ad aspettare il popolo, l’unità d’Italia non si sarebbe ancora fatta”. La legittimazione delle istituzioni europee si fa “dando loro più potere”. Resta il problema del come. Magari, se ne discuterà nella prossima legislatura del Parlamento europeo, se la crisi sfumerà e sarà più facile prendere decisioni non solo contingenti, ma di prospettiva.

venerdì 12 luglio 2013

Iraq: tra la fierezza dei 'Leoni' del calcio e la ferocia dei terroristi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/07/2013

Basta davvero raggiungere le semi-finali del Campionato del Mondo di calcio ‘under 20’ per “ridare la fierezza” al proprio Paese? L’affermazione può suonare eccessiva. E, se il Paese è l’Iraq, può persino apparire macabra, con una teoria di cadaveri nelle strade ogni giorno. Eppure, è vera: chi sta a Baghdad testimonia di centinaia di persone che, sfidando la paura degli attentati, si radunavano nei bar per seguire gli incontri o scendevano in strada per festeggiare le vittorie.

Nel Paese attraversato da un terrorismo ormai endemico, che l’inizio del Ramadan non ha arrestato, i ‘Leoni di Babilonia’ fanno, ancora una volta, meglio dei politici, unendo nel tifo e nell'entusiasmo sciiti, sunniti e curdi.

Eppure, il bollettino degli attentati, dai primi di luglio, cioè da quando è iniziato il torno mondiale ‘under 20’ in Turchia, è impressionante: secondo l’Onu, la violenza inter-confessionale ha fatto, solo negli ultimi tre mesi, in tutto l’Iraq, 2500 morti, in stragrande maggioranza civili, pure donne e bambini. Il bilancio più grave dai tempi dell’invasione americana.

Dall’1 al 3 luglio, raffiche di esplosioni, soprattutto nella capitale, hanno fatto oltre 120 vittime; il 5, un attacco contro una moschea sciita ha provocato 15 morti; il 6, autobombe nel Nord hanno ucciso una decina di persone; l’8 luglio, si sono contati una trentina di morti, fra cui 6 bambini; e l’11, una dozzina.
E il calcio è spesso occasione di violenze letali: una cinquantina le vittime quest’anno, in una decina d’attacchi legati ad eventi sportivi. L’allenatore dell’Erbil, un croato, Rodion Gacanin, se n’è andato, spaventato. E la Fifa impedisce incontri internazionali ufficiali sul territorio iracheno.

Eppure, questo calvario, per gli iracheni, che ci sono abituati, è contato meno della marcia trionfale, fino alle semifinali, dei loro giovani. E l’altra sera, contro l’Uruguay, solo un rigore s’è frapposto tra l’Iraq e la finale, dove i Leoni avrebbero incontrato la Francia dello juventino Pogba. L’Iraq, anzi, era in vantaggio fino a 2’ dal termine dei 90 regolamentari, quando è stato raggiunto sull’1 a 1. E i rigori sono stati una lunga litania: è finita 6 a 5 per la ‘Celeste’.

Domenica scorsa, l’eliminazione della Corea del Nord, 3 a 3 dopo i tempi supplementari, 5 a 4 ancora ai rigori, era stata salutata da manifestazioni di gioia nella capitale e altrove nel Paese, stile Italia 2006.

Non è la prima volta che il calcio rende all’Iraq, 98° nel ranking mondiale, un’effimera fierezza. Era già accaduto –quasi un miracolo, allora- alle Olimpiadi di Atene del 2004,  quando l’Iraq raggiunse le semifinali battendo Portogallo, Costarica ed Australia e perse la finale per il bronzo proprio contro l’Italia (1 a 0, gol di Gilardino), nonostante il Paese fosse letteralmente in macerie. Nel 2007, poi, l’Iraq divenne campione d’Asia (battendo in finale 1 a 0 l’Arabia Saudita). Ai Mondiali, invece, quelli maggiori, l’Iraq è riuscito a qualificarsi una sola volta, nel 1986: in Messico, però, perse tutte le partite, sia pure tutte con il minimo scarto.

Sotto il regime di Saddam Hussein, il Comitato olimpico iracheno e la nazionale di calcio erano sotto l’egida del figlio ‘cattivo’ del dittatore, Uday, che non risparmiava minacce, umiliazioni e torture a giocatori e allenatori, in caso di risultati deludenti. Con il fratello e un nipote di 14 anni, Uday fu ucciso a Mossul, nel 2003, in un conflitto a fuoco con le truppe americane che avevano circondato l’abitazione dove s’era asserragliato.

Per la mancata qualificazione ai Mondiali 1994 negli Usa, i giocatori furono imprigionati e costretti a giocare a piedi nudi con una palla di pietra. E un capitano della nazionale, Abdul Latif, raccontò d’essere stato incarcerato, torturato e rasato anche delle sopracciglia per un cartellino rosso. Eppure, l'angoscia di quei racconti non ha mai spento la voglia di calcio degli iracheni, riaccesa dai successi dei 'Leoni' in Turchia.