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sabato 30 novembre 2013

Ue-Ucraina-Russia: i niet di Mosca e le lusinghe di Bruxelles

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2013 e pubblicato sul blog

E’ finita come tutti sapevano da giorni, e forse da sempre, che sarebbe finita: l’Ucraina e l’Armenia non firmano l’accordo di associazione con l’Ue. Su Kiev e Erevan, i niet di Mosca pesano più delle lusinghe, neppur troppo insistite, di Bruxelles. Invece, la Georgia, dimezzata nella propria sovranità dalla guerra del 2008, e la Moldavia firmano.

Ma il pesce grosso del Vertice a Vilnius tra l’Ue e i suoi vicini dell’Europa orientale era l’Ucraina, gigante economicamente fragile per i suoi bisogni energetici e democraticamente incerto, che dopo lo smembramento dell’Urss nel 1991 oscilla come un pendolo tra l’Ue e la Russia.

Così, quello che, nelle parole di un alto diplomatico ucraino a Roma, doveva essere il giorno più importante per l’Ucraina dall’Indipendenza, resta una tacca in più nella teoria dei giorni della soggezione a Mosca. E il presidente della Commissione di Bruxelles Manuel Barroso sceglie l’occasione sbagliata per annunciare la fine in Europa “della sovranità limitata”.

Certo, le porte non sono chiuse: l’accordo si può ancora firmare, magari nei prossimi mesi, o chi sa quando, ma solo dopo essersi seduti al tavolo in tre, Ue, Ucraina e Russia, a valutare pro e contro. E il presidente ucraino Yanukovich, più amico di Putin che di Barroso, pone condizioni: “Vogliamo firmare, ma con un pacchetto d’aiuti”.

Che il Vertice di Vilnius non sarebbe stato un successo, lo si era capito senza ombra di dubbio una settimana fa. E la visita in Italia del presidente russo Putin aveva solo portato conferme in tal senso: la Russia è di nuovo il grande orso della politica internazionale e cerca di tenersi stretto il barattolo di miele di quei brandelli d’Impero sovietico che ancora le restano attaccati, se non altro perché dipendono dalle sue forniture di gas e petrolio.

Eppure l’Ue per blandire Ucraina aveva calcolato un po’ generosamente in punti di pil i vantaggi dell’accordo. Non è bastato. Il balletto di richieste e rifiuti sulla sorte della Tymoshenko, che sconta in carcere una condanna dai contorni politici, è diventato una foglia di fico ‘double face’, la difesa dei diritti dell’uomo contro la difesa della sovranità.

I Grandi dell’Ue erano giunti a Ue già rassegnati: la Merkel, che ci tiene, e Hollande e Cameron, cui in fondo non importa molto. Il premier italiano Enrico Letta sarebbe quello più preoccupato, se non ci fossero le beghe interne a turbarlo molto di più: adesso, c’è il rischio che il triangolo irregolare delle relazioni Bruxelles–Kiev–Mosca complichi la presidenza italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dal 1.o luglio 2014, se la Grecia non riuscirà, ammesso che ci provi, a mettere insieme prima i cocci di Vilnius.

Per il momento, il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy dà appuntamento a gennaio, quando ci sarà l’incontro Ue-Russia: anche per l’Unione la vita e dura senza il gas della Gazprom, anche se "l'Ue continuerà a dire che l'influenza della Russia contrasta col diritto internazionale".

Letta è circospetto. Parla di un Vertice in chiaroscuro e snocciola considerazioni ovvie e corrette: l’Ucraina "deve avere la possibilità di scegliere"; l'Ue "non vuole minimamente forzare la mano”, ma neppure la Russia deve farlo; la contrapposizione tra Bruxelles e Mosca “non aiuta nessuno”; bisogna evitare “l’errore storico” di tenere fuori dall’Ue una fetta d’Europa; la battuta d’arresto “è figlia dei sospetti” della Russia. Ma i Baltici, che Mosca e pure Kiev le conoscono bene e non le amano, dicono che le pressioni di Mosca sono una scusa: Kiev segue l’istinto e fiuta un affare più grande.

In Piazza, in Ucraina, la gente manifesta: non per protestare, ma per sostenere il presidente. Il mix di nazionalismo e opportunismo paga sempre.

venerdì 29 novembre 2013

Usa 2016: il racconto dei mille giorni, una corsa senza pronostico

Intervista a Media Duemila online raccolta da Matteo Colombo e pubblicata il 27/11/2013

Lo scorso 8 novembre, a tre anni esatte dalle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America previste per l’8 novembre 2016, è nato il portale www.gpnewsusa2016.eu, diretto da Giampiero Gramaglia, il quale racconta questa neonata realtà editoriale che dal 10 febbraio 2014 farà partire il conto alla rovescia dei mille giorni. 

Perché ha deciso di aprire “Usa2016”?

“L’idea è realizzare un sito che racconti queste elezioni: dalle regole alle curiosità, dalla personalità dei candidati agli eventi successivi. Spero che diversi corrispondenti che hanno vissuto o lavorato negli Stati Uniti collaboreranno a questa iniziativa e alcuni l’hanno già fatto con le loro previsioni. Anche i lettori potranno indicare i loro candidati. Il 10 febbraio, quando mancheranno 1000 giorni alle elezioni presidenziali Usa 2016, inizieremo il conto alla rovescia vivendo le tappe d’avvicinamento: il voto di Mid-Term a novembre 2014, i test nell’estate 2015, le primarie dall’inizio del 2016”.

Quale il motivo che l’ha spinta ad immaginare e a creare questo sito?

“Le elezioni americane sono uno degli eventi giornalistici più divertenti da raccontare, soprattutto perché la politica degli Stati Uniti è estremamente coinvolgente. L’informazione non manca, certo, ma succede che gli italiani capiscano in ritardo i personaggi che riescono a raccogliere consensi e s’infiammino, invece, per ‘fuochi di paglia’ che non hanno possibilità di successo”.

Quanto è difficile per un corrispondente raccontare un territorio così vasto e vario come quello degli Stati Uniti?

“È vero che esistono differenze negli Stati Uniti, ma in fondo non più di quante ve ne siano in Italia. New York e Salt Lake City sono forse più simili tra di loro di Trento e Brindisi. Inoltre alcuni aspetti della vita quotidiana sono esattamente gli stessi in tutti gli Usa, senza volere negare sensibilità e opinioni diverse da Stato a Stato. È necessario attraversare tutto il Paese per conoscerlo e poterlo poi spiegare al pubblico italiano”.

Fra i pronostici d’apertura di “Usa2016”, tutti i giornalisti che si sono espressi concordano nell’indicare Hillary Clinton come il candidato democratico più probabile. Perché?

“C’è un’apertura di credito affettiva e ci sono motivazioni concrete. Sono previsioni di colleghi che hanno vissuto a lungo o tuttora vivono negli Stati Uniti e che hanno raccontato l’America fin dall’epoca di Clinton. Tanti avrebbero scommesso su Hillary anche nel 2008 e molti, me compreso, s’aspettavano che gli Usa avrebbero avuto prima un presidente donna e poi un presidente nero. il fatto che il primo Presidente nero abbia preceduto la prima donna ad occupare questa carica è stata una sorpresa. E al momento l’avversario più qualificato di Hillary Clinton è un’altra donna: Elizabeth Warren”.

Tra i repubblicani non sembra esserci invece un candidato forte. Perché?

“Il partito è diviso, il Tea Party ha subito una doppia batosta con la vicenda dello shutdown a ottobre e la tornata elettorale di novembre, che ha dato forza a Chris Christie, un moderato, confermato governatore del New Jersey. Ci sarà più chiarezza dopo il rinnovo fra un anno della Camera e di un terzo del Senato”.

Quali sono gli Stati che decideranno le elezioni?

“Gli Stati cruciali sono sicuramente l’Ohio e la Florida. Ma molto dipenderà dai candidati: in genere, gli Stati dove ci si dà davvero battaglia non sono più di una dozzina”.

mercoledì 27 novembre 2013

Visti dagli Altri: Mr B il Cristo della politica, attenti che risorge!

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 27/11/2013

Ne hanno parlato tanto anche loro, l’hanno aspettata tanto anche loro, che, alla fine, la notizia della decadenza di Berlusconi esplode quasi all’unisono sulle agenzie di stampa italiane e straniere, con una breaking news che, parola più parola meno, suona "L'ex premier italiano Silvio Berlusconi espulso dal Senato".

In pochi minuti, il flash è ovunque: le agenzie di stampa in lingua tedesca sono fra le più rapide; l’Afp fa meglio della più compassata, in questo caso, Reuters; il titolo conquista la home page sui siti della Bbc e della Cnn,  del Wall Street Journal e della Faz, di El Pais , di Le Figaro e di Die Welt.

Il New York Times colloca la notizia nella fascia rossa delle ‘ultim’ora’:  "Berlusconi espulso dal Senato in seguito alla condanna per frode fiscale”. Der Spiegel, che con The Economist è uno dei media tradizionalmente meno teneri con Mr B, scrive un po’ brutalmente: “Il Senato butta fuori Berlusconi”, con un’enorme foto in primo piano del Cavaliere, di cui poche ore prima denunciava “trucchi legali e pressioni politiche” per farla franca un’ennesima volta.

Nei brandelli di commenti a caldo, pochi credono che l’uscita di scena sia definitiva e tutti s’interrogano sul quel che sarà dell’Italia alle prese coi problemi di sempre ed orba di Mr B, quasi che questo sia un 5 Maggio più che un 25 Aprile. The Guardian preconizza per Berlusconi un futuro alla Grillo, fuori dal Parlamento, ma leader di partito.

Nessuno è colto di sorpresa. Molti giornali stranieri annunciavano nelle loro edizioni del mattino quanto stava per accadere, “l'ultimo atto di una discesa agli inferi” iniziata due anni fa, con le dimissioni di Berlusconi da capo del governo –l’espressione è di Le Figaro-.

La coincidenza tra l’uscita dalla maggioranza di Forza Italia e il voto sulla decadenza suggeriva battute e ammiccamenti, ma anche dubbi e interrogativi sulle prospettive di un personaggio che The Telegraph definiva “il Gesù Cristo della politica” per la sua capacità di risorgere, complice una certa tendenza dell’elettore nostrano di credere alle promesse di miracoli.

E, infatti, l’ipotesi risurrezione affiora in molti articoli: “Berlusconi esce indebolito –osserva Le Figaro, in genere non aspro con Silvio-, ma è difficile credere che si lascerà abbattere. Ci si può aspettare che riparta all'assalto con Forza Italia nell’ottobre 2014” –chissà poi perché allora-. E Philippe Ridet, suosuo blog se Le Monde, non esclude che Mr B le vinca, le prossime elezioni.

Qualcuno anticipava una sorta di necrologio, con ricostruzioni a volte smaccatamente ironiche delle ascesa e cadute del Cavaliere, che – scriveva El Mundo – “aveva i capelli in testa quando, nel 1994, entrò nel Parlamento". Da allora, vi ha sempre occupato un seggio, sino a oggi, quando smette di essere parlamentare “in modo ignominioso e umiliante”.

Se The Telegraph si divertiva a invitare i lettori a condividere le citazioni e i momenti migliori della carriera dello "showman politico più amato di sempre", ma forse pure più odiato, la Bbc, che non esclude l’arresto del Caimano, paventa che gli sviluppi politici possano "gettare un'ulteriore ombra sulla difficile situazione economica italiana".

Il Financial Times la legge in positivo: “nonostante il dramma che si svolge a Roma, i mercati hanno reagito con calma”, considerando un Berlusconi meno potente la nuova normalità. Così, “i timori di elezioni anticipate” avrebbero lasciato il passo “alle speranze che Letta sopravviva fino al 2015".

Il timore della Bbc, condiviso da autorevoli testate anglosassoni e tedesche –la Cnn propone tale e quale lo stesso discorso-, è, invece, che "le tensioni politiche ostacolino ancora di più gli sforzi per fare le riforme necessarie per risolvere i problemi economici dell'Italia, fra cui debito, recessione e disoccupazione giovanile".

Perché questo non accada, appunto, c’è o ci dovrebbe essere il Governo Letta. Ma che il governo del dire possa diventare, una volta uscito Berlusconi dalla maggioranza e dal Parlamento, un governo del fare, molti media stranieri –FT a parte- e moltissimi cittadini italiani ne dubitano.

Il lavoro fa male alla carriera: uno studio avverte i 'workaholic'


Scritto per Media Duemila online il 27/11/2013

Ecco uno studio di quelli che dimostrano “scientificamente” ciò che tutti per esperienza sanno o intuitivamente sospettano: eppure, i risultati fanno colpo lo stesso. Anche se – sia messo a verbale - io sono convinto, e voglio restarlo, che non sia vero quasi niente di quel che i ricercatori dell’Università di Padova affermano.

L’asserto è che lavorare troppo può danneggiare la carriera. Non lo dice una congrega di furbetti o pelandroni, ma uno studio che ha preso in esame 322 lavoratori di un'azienda privata per un periodo di 15 mesi: un campione molto limitato –quell’azienda può essere un caso a sé e il pubblico impiego non è sondato-, ma non facciamo i pignoli.

A renderne conto giorni fa è stato il tabloid britannico Daily Mail, senza approfittarne per infierire sullo stereotipo degli italiani sfaticati. Ripresa dalla stampa italiana, la notizia è stata molto ‘cliccata’, ad esempio, sul sito del Sole24Ore, da dove ne ricaviamo lo spunto.

L'allarme dovrebbe mettere in guardia gli stakanovisti: chi lavora senza tregua, fa straordinari a oltranza e rimane fino a tardi in ufficio non si illuda di avere più successo e promozioni. Ma in realtà un conto è lavorare molto e bene da buon stakanovista e un conto è essere “workaholic”, lavorare tanto e produrre poco (e quel poco magari male).

I ricercatori di Padova notano che il "workaholism" è dannoso alla salute del lavoratore ed anche alla performance in ufficio.  Oltre ad aumentare lo stress psicologico e fisico, lavorare in modo "compulsivo" riduce l’efficienza e aumenta pure le assenze per malattia.

E' definito "workaholic" chi lavora sia ossessivamente che compulsivamente, con entrambe le caratteristiche presenti ad alto grado. Il "workaholic" fa troppe ore straordinarie, si porta il lavoro a casa e dedica troppo spazio e attaccamento emotivo al proprio lavoro, così che ha troppo poco tempo per recuperare energie fisiche e mentali.

Gli sforzi dedicati al lavoro devono essere seguiti –ricorda lo studio- da un’adeguata fase di "distensione" o "ripresa" per assicurare un ottimo stato di salute e di funzionalità. Il che, detto per inciso, vale pure per gli sforzi nello sport o in qualsiasi altro ambito, anche il più piacevole.

Il team dell'Ateneo di Padova ha seguito i lavoratori di un'azienda di ingegneria meccanica del Nord Est nell'arco di 15 mesi (dal dicembre 2010 al febbraio 2012). Ciascun lavoratore ha compilato questionari che hanno permesso di stabilire fino a che grado avesse comportamenti "workaholici". Lo stress psicofisico è stato misurato con rapporti medici, valutazioni delle performance da parte di un supervisore, numero di assenze per malattia

Conclusioni: il "workaholism" induce a lavorare magari più duramente dei colleghi e per molte più ore, ma lo stress auto-inflitto alla fine riduce la performance e costringe ad assentarsi più spesso dal lavoro. Non ne vale la pena: fa male alla salute e non fa bene alla carriera.

Ma di qui a rovesciare l’asserto, affermando che lavorare meno fa stare meglio e fa prendere i galloni più in fretta, c’è un passo di qualunquismo che non voglio fare (e che neppure i ricercatori di Padova fanno). E se tutti noi abbiamo esperienza di un collega che non fa nulla e diventa capo, sappiamo bene che non sempre sul lavoro (e nella società) le logiche sono quelle del merito. E lì essere stakanovisti o ‘workaholic’ c’entra poco.

E poi ciascuno di noi ha pure l’esperienza di un collega bravo, che s’impegna e che fa carriera, senza che nessuno possa fargli le pulci. Eccheddiavolo!, spezziamola una lancia per gli stakanovisti. O questo è già un segno che siamo sulla via dei ‘workaholic’?

Gazprom: Putin, Prodi e la corte del di nuovo zar

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/11/2013, con la collaborazione di Giovanna De Maio

"Tutti sono capaci di parlare con san Francesco. E’ parlare con il lupo che è un problema. Poi, bisogna dire che Vladimir Putin negli ultimi mesi ha sbloccato molti problemi internazionali". L’immagine è di Romano Prodi, uno che col lupo Putin ha una bella consuetudine d’incontri e d’accordi. Come ce l’hanno vari altri politici italiani, a cominciare da Silvio Berlusconi. Ed ora anche Enrico Letta e Papa Francesco.

Con Putin; e con la sua ‘arma energetica’, quella Gazprom capace di fornire, in un solo giorno, oltre 500 milioni di mc di gas ai clienti europei –è accaduto il 12 novembre: con una parte di quel gas, l’Italia ha coperto il blocco temporaneo delle forniture libiche-: dei grandi esportatori di gas all’Ue, la Gazprom è l’unico che, quest’anno, ha aumentato le erogazioni (e ben del 15,6%).

Il Putin in Italia non è più una sorta di paria della politica internazionale, com’era diventato durante la presidenza ‘per procura’ di Dmitry Medvedev. E’ di nuovo un protagonista, per molti osservatori l’uomo più influente in questo momento sulla scena mondiale. Prodi ricorda come abbia “spiazzato la diplomazia internazionale, aiutando” gli Usa a uscire dall’imbuto dell’intervento in Siria: “Obama si era impegnato per un’azione militare, ma gli Stati Uniti non volevano un’altra guerra. Con grande intelligenza politica, Putin ha offerto una via d’uscita ottima”, che è sfociata nell’accordo sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano.

Anche per questo, Prodi, inviato dell’Onu per il Sahel, la regione dell’Africa da cui provengono molti dei disperati del Mediterraneo, punta su Putin, presidente di turno del G8, per un vertice  sull'immigrazione: "Putin mi chiede di aiutare la Russia a prepararlo. Non sono un esperto, ma sono disponibile a collaborare, specie se verrà dato un occhio particolare al Mediterraneo".

Fin qui la dimensione internazionale, ma c’è pure quella italiana: “Da un buon rapporto con Mosca dipendono centinaia di migliaia di posti di lavoro". E questo a prescindere dalle magagne interne russe, dall'autoritarismo coi vicini: “L'Europa dipende dalla Russia per l’energia, ma la Russia non può diventare un paese interamente moderno se non ha un legame con l'Europa".

Energia vuol dire Gazprom, un gigante che ama tentare gli ex leader occidentali. Nella primavera 2008, Prodi le oppose un gran rifiuto: dopo la caduta a gennaio del suo governo di centro-sinistra e il suo annuncio di volere abbandonare la vita politica, reclinò l’offerta a guidare South Stream, società di diritto svizzera creata da Eni e Gazprom per fare un gasdotto dal Mar Nero all’Europa.

Pensare al Professore, per Gazprom era quasi un naturale proseguimento dell’esperienza avviata con Gerhard Schroeder, socialdemocratico, cancelliere tedesco dal 1998 al 2005. Dopo essere stato battuto alle elezioni da Angela Merkel, Schroeder accettò la guida di North Stream, il gasdotto che va dalla Russia alla Germania passando sotto il Mar Baltico: il transito dalla cancelleria di Berlino ad una poltrona sotto il Cremlino non rafforzò, però, il prestigio e la credibilità dell’ex cancelliere.

Regista del rapporto con Schroeder, come dei contatti con Prodi, e degli struscii con Tony Blair, Alexei Miller, l’amministratore delegato di Gazprom. Con lui e con la Gazprom, Prodi ha sempre mantenuto buone relazioni: quando, a Mosca, il 21 febbraio, Gazprom ha festeggiato i suoi primi vent’anni al Gran Palazzo del Cremlino, cioè il Palazzo dei Congressi del Pcus, l’ex premier c’era.

Non era solo : 6000 gli ospiti di quel gala. A Prodi toccò solo la 14a fila, accanto all’ambasciatore d’Italia Antonio Zanardi Landi, circondato da vip del denaro più che della politica, come il patron dell’Arsenal Alisher Usmanov, stimato l’uomo più ricco di Russia con i suoi 18 miliardi di dollari. Sul palco, ad esibirsi, Bocelli e Sting, in uno spettacolo da quasi due milioni di dollari: un kolossal come la Gazprom che sfida l’Ue –è sotto inchiesta per violazione delle regole di concorrenza-, e fa da collante, tra affari, litigi e ricatti, a quel che resta dell’Impero sovietico, dalla Bielorussia all’Ucraina al Kazakhstan.

Con la Gazprom, fanno affari politici e mafiosi di ogni etnia e, in almeno un caso, politici mafiosi: secondo l’ex presidente della Commissione Antimafia Francesco Forgione, Aldo Micciché, un boss delle cosche calabresi arrestato in Venezuela nell’estate 2012, e Marcelo Dell’Utri erano in affari insieme “per l’acquisto di gas e petrolio per conto di società legate alla Gazprom”.

La sarabanda italiana di Putin coincide con la chiusura, da parte di Eni, dell’avventura siberiana, iniziata con l’acquisizione nel 2007 del secondo lotto di asset Yukos messi all’asta a Mosca dopo l’incarcerazione, nel 2003, di Michail Khodorkovsky per reati fiscali (ma soprattutto per avere foraggiato l’opposizione a Putin). L’Eni se n’è uscita con una plusvalenza di 1,7 miliardi di dollari: Gazprom sa essere generosa con gli amici.

lunedì 25 novembre 2013

Visti dagli Altri: la stabilità cimiteriale del Governo Letta

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/11/2013

A forza di andare in giro per l’Europa e pure in America a ripetere che il vero problema dell’Italia è la stabilità politica, in nome della quale gli italiani e i loro partner hanno da trangugiare Cancellieri e, magari, Berlusconi, cancellazione dell’Imu e aumento dell’Iva –quando l’inverso sarebbe meglio economicamente e più equo socialmente-, nulla di fatto ma tante chiacchiere sui fronti delle riforme istituzionali e competitive, il premier a qualcuno il sospetto l’ha fatto venire: ma la stabilità dell’Italia di Letta Enrico non sarà quella –tombale- di un cimitero? Vialetti ben ordinati, ma in giro neppure un’anima viva.

Simon Nixon, in un articolo sul Wall Street Journal, di cui è ‘chief european commentator’, si pone l’interrogativo, basato sulla tesi che “molti imprenditori italiani  considerano la prospettiva di altri 18 mesi di governo Letta seriamente allarmante” –e non solo molti imprenditori, possiamo assicurargli noi: anche molti lavoratori e molti pensionati-.

Fare l’elogio della stabilità è un mantra del Quirinale, del Governo e di fette della maggioranza –e, fin qui, siamo alla tautologia-, ma pure degli analisti e dei commentatori di casa nostra –e, qui, siamo magari alla piaggeria-. Letta, che già ne aveva parlato a Washington, dove aveva incontrato Barack Obama, lo ha ripetuto a Roma giovedì, il giorno dell’incontro con Francois Hollande, e poi a Berlino venerdì, al convegno della Suddeutsche Zeitung, mentre il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni lo diceva a Bruxelles all’Eurogruppo.

Stabilità come pegno di ripresa, che verrà nel 2014 –parola di Letta, una sorta d’autocertificazione-, e balzello dell’Europa, con, nel 2014, le elezioni europee a maggio e, poi, il semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue.

Una stabilità del fare, che produce crescita e innesca cambiamenti nell’Ue, ci starebbe magari bene, a noi e ai partner. Ma il fatto è che la stabilità di Letta –scrive Nixon, citando le sue fonti italiane- si bassa sul provare a fare poco e sul realizzare ancora meno”.

Al governo in carica da aprile, l’analista del WSJ riconosce che è durato più di quanto molti s’aspettavano e che oggi appare più forte che mai. Ma al prezzo di un immobilismo cimiteriale: grazie al quale, parecchi ministri “ora parlano con fiducia di un governo che duri fino a quando Roma avrà completato il turno di presidenza europea, il che significherebbe che non ci saranno elezioni fino all'inizio del 2015”.

Un anno da zombi? The Economist non ci crede e, applicando all’Italia con qualche ironia il calcolo delle probabilità, dà agli azzurri una chance su cinque di vincere i Mondiali e prevede una crescita “forse dello 0,2%” ed elezioni magari abbinate alle europee. Ma il pronostico più sicuro riguarda Berlusconi: al 99%, i suoi problemi giudiziari continueranno a pesare sulla vita pubblica italiana, lì non ci si sbaglia.


Iran: accordo sul nucleare, crepa Usa/Israele, chance per Siria

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/11/2013

Un accordo solido, perché tutte le parti vi hanno un loro tornaconto, ma provvisorio. Un’intesa che può prefigurare nuovi equilibri nel Medio Oriente, ma che vale sei mesi. In questo periodo, chi ci tiene, ai nuovi equilibri, farà di tutto per consolidarlo; e chi invece li teme farà di tutto per mandarlo all'aria. Su un punto, gli esperti concordano: il patto di Ginevra, che prevede limitazioni e verifiche sui programmi nucleari iraniani maggiori di quanto finora ipotizzato, è “un passo avanti”. Ma il più duro “resta da fare”.

L’accordo fra l’Iran e i Paesi del 5 + 1 –i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, cioè le potenze nucleari ‘storiche’, più la Germania- prevede che Teheran accetti vincoli ai suoi piani atomici, conservando, però, il diritto ad arricchire l’uranio, sia pure sotto la soglia del potenziale utilizzo militare, in cambio di un alleggerimento delle sanzioni economiche adottate nei suoi confronti. Nei prossimi sei mesi, le parti continueranno a negoziare per definire un’intesa stabile.

La relativa malleabilità di Teheran in questa fase conferma che l’economia iraniana ha davvero cominciato ad accusare il peso delle sanzioni. Ma basta leggere le reazioni a caldo degli interessati per capire che l’accordo di Ginevra apre crepe in alleanze consolidate, senza per altro poterne cementare di nuove, là dove c’è di mezzo una generazione di diffidenze, tensioni, vere e proprie ostilità.

Ovviamente, tutti positivi i commenti dei protagonisti della trattativa, anche della Francia, che pure s’è assunta il ruolo nuovo di Paese più vicino a Israele. L’Onu e l’Ue suggeriscono ovvia prudenza, ma esprimono speranza e soddisfazione. Il presidente Usa Barak Obama dice all’America che l’intesa di Ginevra rende il Mondo “più sicuro”, mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu la definisce “un errore storico”.

Israele non si fida dell’Iran e ne teme la bomba, che altererebbe i rapporti di forza nella Regione; e, oggi, si fida un po’ meno degli Stati Uniti. Obama e Netanyahu, poi, non sono mai stati in sintonia, per i successivi ammiccamenti dell’Amministrazione democratica al Mondo islamico, alle Primavere arabe e, adesso, in Iran, al presidente Hassan Rohani.

Gli ottimisti ritengono che il passo avanti fatto sia in qualche modo irreversibile e possa avvicinare, per l’influenza dell’Iran in Siria sul regime di al-Assad e in Libano sugli Hezbollah, la conferenza di pace di Ginevra e la soluzione politica del conflitto siriano. Susanne Maloney, specialista di Iran alla Brookings, prestigioso ‘thing tank’ di Washington, pensa che l’accordo possa tenere perché vincola “Teheran a un processo diplomatico le cui ricompense principali  non saranno ottenute fin quando l’intesa definitiva non sarà stata raggiunta”.

L’ennesima versione del gioco del bastone e della carota. Vi partecipano i falchi del Congresso Usa, che già minacciano nuove più pesanti sanzioni, se l’Iran dovesse ‘sgarrare’. In un tweet, il ministro degli Esteri Emma Bonino, fra i primi ad aprire un credito a Rohani, parla di "un passo importante per la pace in Medio Oriente" ed esprime "fiducia" per la Siria, "Ginevra 2 e i corridori umanitari”.

Partiti dalla lettera a giugno del presidente Obama al neoeletto Rohani, avviati da un primo incontro tra il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif, i piccoli passi tra Usa e Iran hanno portato un risultato concreto dopo tre round di negoziati a Ginevra. Ora ci sono sei mesi per consolidarlo o sabotarlo.

sabato 23 novembre 2013

Italia/Ue: Letta, più lucciole che lanterne

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano e, in altra versione, EurActiv il 23/11/2013

Viste da Roma, le elezioni europee del maggio 2014 non sono lontane sei mesi, ma anni luce. Né le avvicina la retorica europeistica del premier Enrico Letta, che viaggia sul doppio binario del voto e del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue. E l’attesa di segnali di ripresa ingigantisce il rischio di scambiare lucciole per lanterne, mentre la formula ripetuta ‘Europa dei popoli’ ha un accento più gollista che federalista.

Ieri, Letta s’è esibito sull’Europa a due riprese: con la FederCasse, al mattino; a Berlino, la sera; e ha sempre battuto sui tasti dei conti in ordine –“nel 2014, debito e deficit saranno per la prima volta in calo insieme da anni”-, sulla ripresa alle porte e sulla scelta della crescita.

Un mantra, quello della crescita, declinato in chiave europea (legislatura della crescita, aveva già affermato giovedì, dopo il Vertice a Roma con il presidente francese François Hollande, riferendosi alla prossima legislatura del Parlamento europeo) e in chiave nazionale: "Solo Italia e Germania riusciranno a restare sotto il 3% di deficit nel 2014 … Dobbiamo uscire dalla crisi passo per passo ... L'anno prossimo sarà il primo anno di crescita per l'Italia dal 2008, noi ci attendiamo l'1%, la Ue si attende lo 0,7%".

Dati, e Letta lo sa bene, tutti da verificare: il deficit di bilancio sarà funzione della Legge di Stabilità e del rispetto delle previsioni di spesa e di introiti; e, per la crescita, l’Italia, per il momento, ha solo un lungo filotto di trimestri negativi e non è certo che l’ultimo del 2013 passi dal meno al più.

Parlando a una conferenza organizzata dalla Suddeutsche Zeitung, il premier ha collegato il tema della crescita all’esito delle elezioni europee: "Se mettiamo sul piatto solo più tasse e meno spese, Grillo avrà la maggioranza, supererà il 50% … Dobbiamo dire ai cittadini che dopo i sacrifici si raccoglieranno i frutti, altrimenti gli anti-europeisti andranno al 50%: succederà in Italia, ma anche in altri Paesi, basta guardare la Francia con Marie Le Pen … Dobbiamo combattere contro populisti e anti-europeisti, per dare un futuro al nostro continente, ai nostri figli ".

E Letta ha ricordato: “Se guardiamo al ranking del G8, tra dieci anni non ci sarà più nessun Paese Ue”, neppure la Germania: “Il G8 ci vedrà assenti: l'unico modo per essere influenti sarà di essere uniti ". Giusto. Ma, prima di tutto, bisogna decidere che cosa fare uniti. Con i tedeschi, il premier può scherzare sui difficili negoziati per la nuova coalizione (“Credevo di trovare un governo e, invece, a due mesi dal voto, si discute ancora”). Ma è più difficile convincerli che “l’Unione deve essere più solidale” e che “l’Italia ha fatto i compiti a casa” e non merita la diffidenza che la circonda.

Prima di andare a Berlino, Letta aveva scandito "No agli ayatollah del rigore": "L'Italia ha le carte in regole" per dirlo e per puntare su politiche di crescita, perché "abbiamo i conti in ordine”.

Discorsi tra realismo e retorica. Bene Draghi, che, alla guida della Bce "ha calmato la crisi”; ma crescita e investimenti sono affare della Bei; e tornano gli eurobond, che non sono nel programma di governo, così come si delinea, della Germania. L’Unione bancaria va completata entro l’anno, però i Vertici europei sono “a volte suq incomprensibili” –e lì bisognerà decidere a dicembre-. E poi all’Ue “serve un leader eletto, come il presidente Usa”: sì, ma per fare che?, e con che poteri?

venerdì 22 novembre 2013

JFK 50 anni dopo: 'Kennedy è morto', una storia di giornalismo

Scritto per La Voce della CRI e come appunti per interventi radiofonici il 22/11/2013

50 anni fa, il 22 novembre 1963, venne ucciso a Dallas il presidente Kennedy: l’evento è stato rievocato da tutti i media,  in questi giorni.  L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, destinato a conservare un alone di mistero, sui moventi, gli autori, le circostanze, segnò un’epoca: tutti lo sanno. Ma non tutti sanno che fu pure un momento topico per l’etica giornalistica.

Al seguito del presidente e della  first lady Jacqueline Bouvier, c’era –quel 22 novembre- un pool di tre giornalisti: uno dell’Associated Press, la Ap, uno della United Press International, la Upi, all’epoca antagonista della Ap, e un cronista della Npr, la radio pubblica Usa.

La sequenza delle immagini, pur tremula, è ben fissa nella memoria: dopo gli spari, l’auto presidenziale parte a tutta velocità, seguita dall’auto immediatamente dietro del Secret Service, la polizia che assicura la protezione del presidente. L’auto ancora dietro è quella del pool: a bordo, con il collega della radio, Jack Bell, Ap, e Merriman Smith, Upi.

Smith è il decano dei corrispondenti dalla Casa Bianca: segue il presidente per la Upi da oltre vent’anni, sin dai tempi di Franklin Delano Roosevelt. Un giornalista da cui guardarsi, grintoso, che quando s’accaparra una notizia lo fa in modo deciso e senza troppi riguardi. E se c’è un collega che Smith non può sopportare è proprio Bell, l’uomo della concorrenza (tra Upi e Ap è corsa a dare per primi la notizia sul filo dei secondi).  La loro inimicizia è solida: data dal 1948.

Sulla loro auto nel corteo presidenziale, c’è un –rarissimo, per l’epoca- radio telefono: Smith e Bell hanno un accordo che prevede l’alternanza delle chiamate. Il telefono in quel momento tocca a Smith, che chiama subito la Upi per dettare la notizia: al passaggio del presidente, sono stati uditi dei colpi che parevano di arma da fuoco e l’auto di Kennedy s’è allontanata a tutta velocità. Smith non dà la notizia che Kennedy è stato ferito e che c’è stato un attentato perché non sa che cos’è successo. La stessa telefonata con informazioni analoghe la fa Bell.

I giornalisti arrivano all’ospedale nel momento in cui il presidente è già stato soccorso: un agente del Secret Service riferisce che Kennedy è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco ed è morto. Smith non si fida e trasmette alla Upi la notizia che il presidente è stato ferito in modo grave, forse letale. Subito dopo, invece di lasciare il telefono a Bell, lo sradica letteralmente dalla postazione in cui è alloggiato. A quel punto, Bell, imprecando, si precipita fuori dall’auto e cerca di dare a sua volta la stessa notizia, mentre Smith resta sul posto, trova un’altra fonte, che gli conferma la morte di Kennedy, e riesce a trasmettere un dispaccio che, nella sua sinteticità, è entrato nella storia del giornalismo: “Kennedy è morto”.

La Upi lo trasmette subito, facendolo precedere da 17 scampanellii, il numero massimo, utilizzato fino ad allora solo per l’attacco di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Allora, le telescriventi erano molto rumorose e i giornalisti non le volevano nella stanza in cui lavoravano: le tenevano in un locale accanto e, perché sentissero quando arrivava una notizia importante, le agenzia la facevano precedere da uno scampanellio.

Quel 22 novembre, fu un giorno triste per l’America e per l’Umanità. Ma fu un gran giorno per la Upi, che annichilì la concorrenza. L’anno dopo, Smith vinse il Pulitzer, il massimo premio  per i giornalisti americani; tre anni dopo, ricevette la medaglia della libertà, la massima onorificenza civile degli Stati Uniti. Bell venne, invece, licenziato dalla Ap, nonostante fosse un giornalista di lunga esperienza e di buon valore.

Quando m’interrogo sull’etica del giornalismo, rievoco sempre il trionfo di Smith, cattivo e scorretto, ma che dà per primo la notizia giusta e grossa. Anche se, poi, la storia farà giustizia di quel torto: l’Ap è sopravvissuta a quell’episodio ed è oggi la maggiore e la migliore agenzia di stampa mondiale, mentre la Upi ha conosciuto un viale del tramonto tristissimo.

Certo, oggi il mondo dell’informazione è ben diverso da quello di Smith e Bell: la televisione, internet, i social media, le ‘rivoluzioni’ si sono succedute e accelerate, tecnologiche e,  a seguire, professionali. E pure il Mondo è cambiato: multipolare e non più bipolare, globale e non più nazionale, assai più multietnico e multiculturale.

Ma l’essenza dell’etica del giornalismo, ridotta all’osso e semplificata al massimo, resta quella di non raccontare frottole e di farlo nel modo più tempestivo, più completo e più accurato possibile. Tutte regole che Smith osservò, in quella successione di dispacci entrata nelle scuole di giornalismo: fu odioso e umanamente abietto, ma fu un buon giornalista ...

giovedì 21 novembre 2013

JFK 50 anni dopo: il solco e le vie (d’Italia)

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 21/11/2013 e come appunto per interventi radiofonici

Ci sono uomini, scienziati, filosofi, artisti, filantropi, statisti, politici, santi, che lasciano un solco, nella storia dell’umanità. Ve ne sono che aprono una via. John Fitzgerald Kennedy, 35.o presidente degli Stati Uniti, ucciso a Dallas 50 anni fa esatti, il 22 novembre 1963, ha certo lasciato un solco nella mia generazione e forse nella storia – ma i tempi della storia sono troppo lunghi per poterlo dire con certezza fin da oggi -, ma ha sicuramente aperto una via. Anzi, molte, centinaia di vie: solo in Italia, almeno 1.327. Vuol dire che un comune italiano ogni sei circa ha una via, o una piazza, intitolata al presidente della ‘crisi dei missili’ a Cuba con l’Urss nel 1962 e dell’avvio della fine della segregazione.

Kennedy è il nome straniero più diffuso nella toponomastica italiana: ci sono più vie, e piazze, Kennedy che non Napoleone, o Washington, o Lincoln, o Roosevelt, limitandosi a personaggi il cui solco nella storia è riconoscibile e la cui grandezza, magari controversa, è innegabile. Meglio fanno praticamente solo i ‘quattro del Risorgimento’, Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II – l’ordine è alfabetico -.

E Kennedy non è solo nome da strade, o da piazze: molte scuole italiane –una cinquantina- e pure esercizi pubblici e negozi sono intitolati al presidente ucciso. Il fenomeno acquista più rilevanza se si considerano le 96 vie o piazze ‘Fratelli Kennedy’, dove Robert –ucciso a Los Angeles nel 1968- è associato nella memoria a Jack, e le cinque dedicate al solo Robert.

I dati vengono da una pubblicazione dell’Anci e della Fondazione Italia-Usa presentata a Roma oggi. La Lombardia è la regione dalla toponomastica più devota a Kennedy con 302 aree, il doppio della Puglia (151). Terza la Sicilia (132). JFK batte tre a uno il presidente cileno Salvator Allende, mentre la ‘top ten’ dei nomi stranieri delle nostre vie o piazze comprende poi Martin Luther King –la fine tragica è un buon viatico-, Carlo Marx, Anna Franck, Thomas Edison, Alessandro Fleming, Gandhi, Albert Einstein e Pablo Picasso.

Una testimonianza, e una conferma, se ve ne fosse bisogno, di come la parabola politica ed umana della meteora Kennedy abbia colpito gli italiani e, in particolare, la generazione del dopoguerra, quegli adolescenti degli Anni Sessanta –i Beatles e le minigonne, prima del Vietnam e del ’68- che vissero come una speranza e un modello quel presidente giovane e carismatico, con una moglie bella ed elegante. E l’alone di mistero intorno alle circostanze tragiche della sua uccisione contribuì al suo mito: Roma gli dedicò una piazza all’Eur appena cinque mesi dopo la sua morte, senza attendere, come vuole la legge, che trascorressero dieci anni.

Inutile misurare l’infatuazione kennedyana di quegli anni con le rivisitazioni storiche successive, con i ridimensionamenti veri o presunti del personaggio e dell’uomo, con le rivelazioni di scandali, amicizie compromettenti e tradimenti coniugali. Capita quasi a ogni generazione italiana d’entusiasmarsi per un presidente americano: dopo Kennedy, fu –in misura minore- Clinton e poi Obama. Clinton e Obama nel loro percorso hanno stemperato le passioni ed gli entusiasmi; gli spari di Dallas consegnarono Kennedy al mito. Nell'empireo della toponomastica.

mercoledì 20 novembre 2013

Italia/Francia: Ue, una legislatura di crescita contro i populismi

Scritto per EurActiv il 20/11/2013, compilato su dispacci d'agenzia

Italia e Francia vogliono che la prossima legislatura europea sia “di crescita” e temono che nasca “dominata dai populismi”: è quanto emerso dal Vertice italo-francese oggi a Roma, segnato, nei dintorni di Palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia, da manifestazioni e tafferugli.

L’auspicio che la prossima legislatura europea, che uscirà dalle elezioni di maggio, "sia una legislatura della crescita" è stato espresso dal presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, nella conferenza stampa congiunta con il presidente francese Francois Hollande, al termine dell’incontro. Occorre, ha aggiunto Letta, "lasciarci alle spalle la legislatura dell' austerità”.

Hollande, dal canto suo, ha affermato che la crescita, l'occupazione e la stabilità della zona euro saranno il "cuore" del prossimo Consiglio europeo di metà dicembre. Su questo, "Italia e Francia hanno la stessa attenzione". 

Per il presidente francese, i due Paesi decisero qui a Roma, dove nacque la Comunità, di "fare l'Europa” e hanno ora deciso “di farla avanzare": "Se l'Unione si ferma, cade. E questa e' una responsabilità” dei paesi fondatori, fra cui Italia e Francia.

Crescita e Unione bancaria - Il premier italiano si aspetta che a dicembre ”venga applicato definitivamente tutto ciò che stato deciso sull'Unione bancaria, perché vedo un eccesso di timidezza in giro per l'Europa”. E progetta che “la crescita sia un mantra e il titolo del semestre di presidenza italiano” del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dal 1.o luglio 2014.

Una legislatura della crescita significa un'intesa sulla governante economica della zona euro e un accordo perché, accanto alla moneta unica, vi siano politiche che consentano sviluppi positivi dell’economia europea, e non solo quelli che i cittadini vivono come sviluppi negativi.

Sull'Unione bancaria, Roma e Parigi sono decise ad "andare fino in fondo". Realizzarla, vuole dire per Hollande "conferire capacità alla zona euro di impedire le difficoltà che potrebbero presentarsi alle banche e all'erogazione del credito" e prevenire un’altra "crisi finanziaria" come quella che l'Ue sta vivendo.

Il timore dell’avanzata populista – Letta e Hollande temono temono che il Parlamento europeo che uscirà dal voto di maggio sia dominato dai partiti populisti. "Le prossime elezioni europee – avverte il premier - non vedranno probabilmente un confronto tra destra e sinistra come in passato, ma tra chi vuole l'Europa dei popoli e chi vuole l'Europa dei populisti. Francia e Italia vivono una dinamica simile, che deve vederci impegnati nell'avvio di una missione per la crescita e che sia percepita dai cittadini diversamente da come l'hanno percepita in anni recenti". Il rischio, per Letta, è che, anziché l’economia, "crescano i populismi".

Evocando, ma solo per negarlo, un asse franco-italiano, il premier afferma che Roma e Parigi lavoreranno "insieme per trascinare il maggior numero di Paesi europei per centrare l’obiettivo", aggiunge il premier: "Vale la pena prendere il vessillo, lo stendardo di una battaglia che non è tecnica, ma politica a favore dell'Europa dei popoli".

Italia e Francia devono cercare di fare in modo che quando le elezioni arrivino l'Europa sia capace d’impostare “una missione della crescita", osserva Letta: "Altrimenti vinceranno i populisti”. E già il prossimo Consiglio europeo “deve mandare messaggi importanti".

Torino-Lione, Alitalia e Mondiali - Al vertice italo-francese hanno partecipato 11 ministri. Sul tavolo, tra l'altro, i temi bilaterali, ma pure d’interesse europeo, per la loro portata, della Tav e dell'Alitalia. Per Hollande, "l'inizio dei lavori della Torino-Lione potrà avvenire a fine 2014, inizio 2015". Mentre su Alitalia il presidente dice: "Non spetta a me parlarne perché non sono il presidente di Air France. Ci sono discussioni in corso che devono continuare nell'interesse delle due aziende"; e a chi gli chiede se le trattative tra le due compagnie possano definirsi chiuse, risponde: "Auspico la prosecuzione delle trattative".

Sui temi di politica internazionale. Italia e Francia esprimono “grande preoccupazione per la Libia, mentre sull'Iran alle aperture di credito da parte italiana al nuovo presidente si contrappone un “vogliamo risposte, non provocazioni” da parte francese.

Infine, una nota leggera e di speranza, probabilmente di ottimismo. Commentando la qualificazione della Francia ai Mondiali in Brasile l’anno prossimo, raggiunta solo ieri sera, Letta ha pronosticato: “Ci ritroveremo in Finale”. Non sarebbe la prima volta e il precedente ai Mondiali, Germania 2006, è tutto italiano.

Internet e letteratura: fantasia, ardire e ingenuità tra burla e truffa

Scritto per gli Appunti di Media Duemila online il 20/11/2013

Internet, il 2.0, i social media sono forvieri di nuovi generi letterari o potenziali tali. Ormai accettati come fonti ed espressioni giornalistiche e –presto, appena ne avranno l’anzianità- come documenti di riferimento storici, possono diventare territori di nuova cultura: nessuno più si stupisce, o si stupirebbe, di un epistolario di mail, di una biografia di post su Facebook o di un Nobel assegnato per una raccolta di tweets, anziché di versi.

E ogni nuovo genere letterario si diversifica in sotto-generi e nicchie, per l’attenzione dei letterati e le polemiche degli eruditi. Così, Sergio Zatti, italianista, docente di ‘Storia della critica letteraria’ all’Università di Pisa, amico mio da quasi cinquant’anni ormai, è affascinato dalla fantasia, dall’ardire e, nel contempo, dall’ingenuità di chi s’inventa via mail burle, tentazioni, truffe.

La casistica del genere è già ampia, anche solo ad attingere all’esperienza personale: c’è la persona, magari un conoscente alla lontana, che lancia un SOS da qualche località neppure troppo sperduta, spesso in Scozia, o nel Nord dell’Inghilterra, dove qualcuno gli ha rubato tutto, documenti, soldi e carte di credito, e solo voi, proprio voi, potete trarlo d’impaccio –ovviamente, inviandogli subito soldi cash via Western Union-. C’è la vedova di uno sconosciuto leader politico, in genere africano, ovviamente oppositore di un qualche inumano regime, che vuole recuperare l’eredita del marito, lasciatale per precauzione in un conto svizzero a lei inaccessibile e voi, proprio voi, dovete aiutarla –ne otterrete un guiderdone, ma naturalmente qualcosa dovrete anticipare di tasca vostra-. C’è chi ha per la mani l’affare della vita ed è disposto a condividerlo proprio con voi, purché voi inneschiate la miccia anticipandogli quanto serve a registrare il brevetto. E, infine, ma solo per non farla troppo lunga, ci sono falangi di Natascie e di Irine che, senza avervi mai conosciuto, sono certe che voi siate l’uomo giusto per loro (e loro, indubbiamente, a giudicare dalle foto allegate, se lo meritano, un uomo giusto).

In genere, tutti questi messaggi hanno due caratteristiche: una li rende particolarmente infidi; l’altra, però, aiuta a smascherarne la falsità. Sono scritti in un italiano approssimativo, che, se è comprensibile nella vedova africana e nella Natascia di turno, lo è meno nel conoscente che lancia l’SOS –va bene lo stress dell’essere stato derubato, ma l’ho senz’acca o la consecutio claudicante, anzi peggio, possono mettere sull’avviso-; e possono essere latori di virus o fare da testa di ponte –come accadde a me- ad attacchi di hacker…

Dunque, la cosa migliore da fare è non aprire del tutto le mail, nonostante l’ansia per il conoscente e la tentazione per Natascia, e, anzi, ‘killarle’ subito… Ma se qualcuno, invece, rischiasse l’apertura, o per curiosità, o per errore, allora potrebbe contribuire ad arricchire la mini-antologia di contenuti tra la burla e la truffa. Magari, Sergio Zatti, quando avrà finito di lavorare al suo volume su forme e modelli storici della scrittura autobiografica, dedicherà uno studio –minore- a questi poveri esercizi di letteratura sopravvissuta al ‘delete’.

lunedì 18 novembre 2013

Mozambico: Abdul, 13 anni, ucciso e i bimbi rapiti

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 18/11/2013

Abdul, 13 anni, è stato rapito e ucciso in Mozambico: i genitori s’erano rivolti alla polizia, che, invece di agire, l’ha subito fatto sapere ai sequestratori. La notizia, come molte altre simili che arrivano da quel Paese, e più in generale dall’Africa australe, mi sarebbe scivolata addosso: chi mai s’interessa del Mozambico, se non c’è l’Eni di mezzo, solo perché laggiù s’è riaccesa la guerra e ci s’ammazza ogni giorno, o perché una cinquantina di persone sono state ferite negli scontri scoppiati a un meeting dell’opposizione a Beira, nel centro del Paese, o perché fra qualche giorno ci saranno elezioni locali.

Poi, una sera, a cena con amici, tutti a parlare della campagna di Renzi, o della risata di Vendola, o delle telefonate della Cancellieri, scopri l’angoscia di due di loro perché i nipotini vivono laggiù, con i genitori impegnati in missione umanitaria. E improvvisamente quel ragazzino di 13 anni, Abdul Raxid, rapito e ucciso a Beira –sempre lì- diventa quasi una storia di famiglia: la sua come quella degli altri bambini e adulti sequestrati, qualche occidentale, molti uomini d’affari esponenti della comunità musulmana.

Per ottenere la liberazione di Abdul, la famiglia aveva venduto e ipotecato tutti i suoi beni e aveva così raccolto un milione di meticais, l’equivalente di 30 mila dollari, dopo che i rapitori erano partiti da una richiesta di 30 milioni.

Trovato l’accordo con la gang, i genitori dissero alla polizia che stava per consegnare il riscatto. Passano pochi minuti e arriva una telefonata dei sequestratori: avevano saputo della telefonata e avrebbero ucciso Abdul. Dopo 48 ore, il corpo del ragazzino è stato trovato a Dondo, lì vicino.

Non è un caso isolato di connivenza tra agenti e criminali. E non accade certo solo in Mozambico. Ad andare a scorrere le cronache locali, si scopre che bancari forniscono informazioni ai rapitori, per aiutarli a scovare i bersagli migliori; che ci sono anche 10 rapimenti la settimana –denunciati- e che il capo della polizia di Maputo è stato recentemente sostituito nel pieno dell’ondata di sequestri. Giorni fa, due agenti e una guardia d’élite del presidente sono stati condannati per avere rapito, tra il 2011 e il 2012, sei persone.

L’emergenza sequestri è talmente forte che imprese private subodorano il buon affare: americani e francesi si sono offerti di aiutare la polizia a combattere i delitti. Quando i rapiti sono occidentali, un po’ se ne parla, come nel caso di due portoghesi che sono riusciti a sottrarsi ai loro sequestratori a Matola, città satellite della capitale Maputo; se sono mozambicani, non ci interessa proprio.

Eppure, in quel Paese abbiamo, dovremmo avere, una responsabilità speciale, a parte gli interessi dell'Eni. La guerra civile, che, tra il 1977 e il ’92, fece circa un milione di morti, si chiuse anche grazie alla diplomazia italiana e, soprattutto, della Comunità di Sant'Egidio. Ora, le vittime sono relativamente poche, ma l’insicurezza nel Paese è crescente. E l’Italia s’è, fin qui limitata, almeno pubblicamente, a chiedere che cessino le azioni militari.

A fine ottobre, decine di migliaia di mozambicani hanno partecipato in varie località a una marcia per la pace nazionale. Vent’anni e più dopo la fine della guerra civile, tornano a combattersi le sigle mai sparite della decolonizzazione: il governo, controllato dal Frelimo, riprende l’offensiva contro la Renamo, che rivendica una condivisione dei guadagni derivanti dalle ricchezze minerarie, denuncia irruzioni militari nelle sue basi e minaccia di stracciare l’accordo di pace.

Ai tavoli della diplomazia internazionale, il Mozambico cerca di convincere i suoi interlocutori che non sta acquistando armi –magari, gli stessi che, sotto banco, gliele stanno vendendo-, per evitare l’interruzione degli aiuti, mentre sequestri e scontri frenano il turismo , proprio durante la stagione delle vacanze australe.

Mondi lontani, storie lontane: Abdul è stato ucciso, altri bimbi sono tornati a casa perché i genitori hanno pagato (e non hanno avvertito la polizia); e Frelimo e Renamo tornano a combattersi… Noi, fin quando un amico in ansia non ce lo racconta, viviamo senza manco il disagio di saperlo: la crisi, Renzi, Vendola, la Cancellieri, i media hanno ben altro da scrivere.

domenica 17 novembre 2013

Commissione europea: elezione diretta, pro e contro

Scritto per EurActiv il 17/11/2013 -ha collaborato Giovanna De Maio-

Fa discutere e divide anche il campo degli europeisti la proposta di affidare ai cittadini la scelta del presidente della Commissione europea e, per cominciare, di dare loro la possibilità di esprimersi, l’anno prossimo, sui candidati all’incarico delle maggiori famiglie politiche europee. L’ipotesi, già avanzata, ma non ancora acquisita, è al centro di convegni, da cui scaturiscono indicazioni contrastanti.

Ne hanno dibattuto, recentemente, a Roma, politici e federalisti, in un convegno promosso dalla Gfe romana e da Alternativa europea; e  responsabili e ricercatori dello Iai, in quello che doveva essere un confronto a botta e risposta.

Un sindaco per l’Europa

Il dibattito di Gfe e Alternativa europea partiva da una proposta autonoma di Alternativa Europea, intitolata ‘Un sindaco per l’Europa’, sostanzialmente coincidente con l’idea che i partiti designino, prima di lanciare la campagna elettorale, un candidato alla presidenza della Commissione e ne dichiarino il programma.

Al di là della generica approssimazione degli interventi introduttivi, fra cui quello del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, la proposta ha incontrato un favore di massima, ma ha anche suscitato messe in guardia e controindicazioni da parte della vicepresidente del Parlamento europeo Roberta Angelilli, deputata Pdl –il Ppe non si è ancora pronunciato sul proprio candidato e si riserva di sceglierlo solo nel marzo prossimo-, del vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio, Sel, e di due convinti federalisti, il presidente del Comitato italiano del Movimento europeo Pier Virgilio Dastoli e il segretario del Movimento federalista europeo romano Ugo Ferruta.

Tutti sostanzialmente d’accordo sul fatto che la proposta, di per sé, non è una panacea ai problemi e alle prospettive dell’integrazione europea e che, per essere efficace, l’elezione diretta del presidente della Commissione europea –un passo comunque successivo, rispetto alla situazione attuale- dovrebbe coincidere con il trasferimento di maggiori poteri al presidente stesso, integrando ad esempio le figure di presidente della Commissione e del Consiglio europeo.

Un’idea dello IAI datata 2009

La discussione allo IAI, su un piano più teorico, ha preso le mosse da un documento di due ricercatori della Carnegie Europe, Stephan Lehne e Heather Grabbe, “Why a partisan Commission president would be bad for the EU”. A favore di un presidente indicato dalla volontà popolare, il direttore dello I’stituto Ettore Greco; contro, il presidente, l’ambasciatore Nelli Feroci. Sono stati loro i ‘campioni’ dei due campi, anche se, alla fine, tutti concorderanno sul fatto che rinunciare a quest’iniziativa, ormai avanzata, avrebbe notevoli costi politici.

Greco ha ricordato la proposta avanzata nel 2009 dall’Istituto Affari Internazionali in collaborazione con altri ‘think tank’ e firmata da personalità come l’ex presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi e l’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors, tesa a incoraggiare il coinvolgimento dei cittadini e a promuovere un ruolo ben più incisivo del Parlamento europeo.

Per Greco, una maggiore politicizzazione delle Istituzioni comunitarie e un presidente eletto, seppur indirettamente, favorirebbero la possibilità dell’elettorato di riconoscersi in un leader e nel progetto d’integrazione. Mentre, l’imparzialità della Commissione, che è da considerarsi rivolta agli Stati, non ai movimenti politici, resterebbe inalterata.

A criticare il punto di vista del paper di Lehne e Grabbe è pure Gianni Bonvicini che rimprovera ai due analisti l’incapacità di inquadrare il ruolo del Parlamento europeo in prospettiva futura. Bonvicini, inoltre, osserva che Lehne e Grabbe spogliano la Commissione del suo potere politicamente più importante, quello d’iniziativa.

Diversa è l’opinione dell’ambasciatore Nelli Feroci, condivisa dal vice-direttore dello Iai Nathalie Tocci. Il presidente, pur riconoscendo che la proposta di designazione, da parte delle famiglie politiche europee, di un candidato alla presidenza della Commissione è in una fase avanzata, , esprime perplessità per una pratica che rischia di favorire candidati estremamente profilati dal punto di vista politico, erodendo ulteriormente la fiducia nelle Istituzioni ed il senso di legittimità delle stesse. Il presidente della Commissione sarebbe così impossibilitato a garantire la neutralità e vedrebbe il suo peso ridotto all’interno dello stesso Esecutivo.

Cesare Merlini sottolinea che non accettare la leadership di un presidente della  Commissione maggiormente politicizzato significherebbe mettere in discussione l’intero assunto democratico, cioè che chi ha la maggioranza ha il diritto di governare. 

giovedì 14 novembre 2013

Afghanistan: 12 anni dopo, culture di oppio mai così estese

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/11/2013

Afghanistan: 12 anni dopo il rovesciamento del regime dei talebani  la superficie coltivata a oppio ha raggiunto livelli record. Iraq: 10 anni dopo l’invasione, il numero dei civili vittime d’attentati non è mai stato così alto. Si vede proprio che, in quei Paesi, abbiamo saputo esportare con successo i nostri valori: avrà modo di rendersene conto, a breve, la presidente della Camera Laura Boldrini, attesa in visita al contingente italiano.

Dati da cui la popolarità delle missioni all'estero non esce rafforzata. Sel proprone di ‘barattare’ l’uscita di scena anticipata dall'Afghanistan (600 milioni di euro annui circa) con il rifinanziamento della Cig in deroga (350 milioni di euro). I radicali vogliono portare il boom dell’oppio nel dibattito sulla legge quadro per le missioni internazionali.

Secondo un rapporto annuale dell’ufficio Onu contro droga e crimine, le superfici coltivate a oppio in Afghanistan sono salite da 154 mila ettari nel 2012 a 209 mila nel 2013 (+36%), più che nel 2007 anno finora record. L’impennata potrebbe rispecchiare la volontà dei produttori di mettersi al riparo da "un futuro incerto", dopo il ritiro l’anno prossimo delle truppe internazionali –proprio ieri è stato annunciato che 500 militari italiani rientreranno già a fine anno-.

La produzione di oppio, da cui deriva l'eroina, ha raggiunto la quota di 5500 tonnellate nel 2013 (+49% rispetto al 2012, ma meno del 2007, quando furono addirittura 8.200): ci sono state –spiega l'Onu- "condizioni meteorologiche sfavorevoli, specie nel Sud e all'Ovest".

L'aumento della coltivazione dell’oppio "costituisce una minaccia per la salute pubblica, la stabilità e lo sviluppo dell'Afghanistan". I consumatori siamo essenzialmente noi, l’Occidente. I beneficiari sono principalmente i talebani, che ne ricavano ogni anno tra i 100 e i 400 milioni di dollari, ma pure qualche ‘signore della guerra’ magari alleato degli Usa e la criminalità organizzata.

Nonostante alcuni dati positivi, come l’aumento della scolarizzazione, specie femminile, il bilancio di 12 anni di presenza militare internazionale non è soddisfacente: gli Stati Uniti e i loro alleati hanno dedicato molte più risorse a provare a vincere (senza riuscirci a pieno) la guerra guerreggiata che a provare a vincere la “battaglia delle menti e dei cuori”, pace, democrazia, tolleranza, sviluppo.

Una cifra lo dice: dal 2001, il mondo ha speso per aiutare gli afghani meno di quanto gli Stati Uniti hanno speso in un solo anno per fare la guerra in Afghanistan (50 miliardi di dollari d’aiuti in tutto contro 55 miliardi di dollari di spese belliche nel solo 2009). Ogni dollaro per la pace, almeno 10 per la guerra.

la Loya Jirga si riunirà il 21 novembre: i quasi 3.000 delegati che, minacciati dai talebani, raggiungeranno Kabul da ogni parte del Paese dovranno esaminare l'accordo sulla sicurezza da concludere con Washington prima del ritiro delle truppe.

mercoledì 13 novembre 2013

Elezioni europee: toto nomine per la lotteria Ue

Pubblicato da Affari Internazionali il 13/11/2013

I concorrenti sono sui blocchi di partenza. Tutti tranne uno. Ma la corsa potrebbe non scattare mai, se il Partito popolare europeo (Ppe) non manda in pista il proprio campione. E la grande novità delle elezioni europee 2014, concepita pure per stimolare la partecipazione e contrastare l’euro-scetticismo, potrebbe restare incompiuta.

La designazione, da parte delle grandi famiglie politiche europee, di un candidato alla presidenza della Commissione europea non equivale a un’elezione diretta, ma è destinata a condizionare pesantemente le scelte dei leader dei 28, cui spetterà decidere - l’anno prossimo - quale successore di Manuel Barroso proporre all'investitura del Parlamento europeo.

Ricco bottino

Nei criteri di valutazione dei leader, i fattori politici e quelli nazionali s’intrecciano. E conta pure l’equilibrio degli incarichi. La posta in palio nel 2014 è ricca con i posti di presidente del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europei, oltre che di ‘ministro degli esteri’, cioè, a dirla tutta burocraticamente, l’alto responsabile per la politica estera e di sicurezza comune. Senza contare, nell'orto vicino dell’Alleanza atlantica, l’incarico di segretario generale.

Per l’Italia, che ha già Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea sarà difficile partecipare alla spartizione del bottino, anche se Mario Monti ed Enrico Letta hanno profilo e titoli per puntare a succedere al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy.  Nessun italiano ha poi mai guidato il Parlamento eletto a suffragio universale. Sul fronte Nato, è in lizza l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini.

Popolari a carte coperte

Finora, solo il Partito socialista europeo ha già indicato un candidato alla presidenza della Commissione: è Martin Schulz, il tedesco attualmente presidente del Parlamento europeo –la nomination ufficiale avverrà in un congresso a Roma all’inizio del 2014-. Gli altri partiti hanno tracciato un percorso per giungere alla designazione. Tutti tranne i popolari, che nicchiano e per ora giocano a carte coperte: non hanno un candidato e non si sono neppure impegnati a darselo; se lo faranno, sarà non prima di un congresso a marzo.

Le considerazioni che frenano il Ppe sono essenzialmente due. La speranza, fondata, di essere ancora il gruppo più forte nel prossimo Parlamento e la certezza, quasi matematica, che i leader popolari siano maggioranza nel Consiglio che sceglierà il successore di Barroso. A meno che euro-scettici e populisti non spariglino i giochi, almeno nell'Assemblea, sfruttando a maggio la disaffezione verso l’Europa degli elettori.
In attesa del Ppe, l’ultimo nome spuntato nel ‘toto Commissione’ è quello del premier irlandese Enda Kenny, leader del Fine Gael, che potrebbe essere il campione dei conservatori britannici. Per il momento Kenny è più un’indiscrezione che una certezza.

Invece, la candidatura del greco Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale Syriza, è un progetto ben avanzato: i leader dei partiti del gruppo della Sinistra unitaria europea (Gue/Ngl) lo propongono per il post-Barroso, ma la designazione dovrà essere confermata dal congresso in programma a Madrid a metà dicembre.

In una nota del partito, si legge: ''Syriza riunisce il popolo greco contro l'autoritarismo'' della troika, Tsipras sarebbe una voce “di resistenza e speranza contro le politiche ultra-liberiste e contro la minaccia dell'estrema destra''. E nonostante la Gue non creda che la scelta del presidente della Commissione da parte dei partiti aiuti a democratizzare la politica europea, vuole comunque puntare su un proprio campione. Ma gli italiani di Sel si smarcano: loro puntano su Schulz.

Anche il gruppo dei liberal-democratici europei (Alde) è in fase decisionale: momento cruciale, fine novembre, quando il partito terrà una riunione a Londra e discuterà le candidature alla ‘nomination’. In prima fila, ci sono l’ex premier belga Guy Verhofstadt, liberale fiammingo, federalista convinto, e Olli Rehn, finlandese, attuale commissario europeo all'economia e alla finanza. Rehn è una vecchia conoscenza italiana: dal 2009, ci spulcia i conti per mestiere.

Requisito indispensabile per essere un candidato dei liberal-democratici alla poltrona di Barroso è avere l’appoggio di almeno due partiti di due diversi paesi Ue o di almeno il 20% dei deputati del gruppo. Il 19 e 20 dicembre, i leader del partito valuteranno i nomi sul tavolo e chiuderanno il lotto degli aspiranti alla ‘nomination’. Alla scelta del candidato procederà un Congresso straordinario a Bruxelles il 1° febbraio 2014.
I Verdi europei hanno appena lanciato primarie online per scegliere i due finalisti alla nomination, su cui poi si pronuncerà un congresso. Fra quelli in lizza alle primarie, l’italiana Monica Frassoni, co-presidente del Partito verde europeo, e l’eurodeputato José Bové, un agricoltore francese, già leader del movimento anti-globalizzazione.
Schulz in campagna elettorale

Libero da pastoie interne al suo partito, Schulz è da mesi impegnato in una frenetica campagna elettorale personale che l’ha già portato più volte in Italia e pure in Vaticano, ricevuto in udienza dal Papa. L’idea è di avere Francesco a Strasburgo prima della fine della legislatura. Il presidente del Parlamento si batte per la crescita e il lavoro e critica la scelta del rigore, denunciando, specie quando è in Grecia, i “misfatti” della troika. Ma tira il freno a mano, quando si tratta di criticare la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Il nome di Schulz è pure entrato nei negoziati per la formazione della grande coalizione tedesca: i socialisti lo vogliono blindare fin d’ora come commissario tedesco, rendendo più difficile alla Merkel contrastarne poi l’ascesa alla presidenza della Commissione a favore di un popolare non tedesco. Pesa pure il fatto che la Germania non ha più avuto la guida dell’esecutivo comunitario dagli anni 50, quando Walter Hallstein aprì la serie.

martedì 12 novembre 2013

Iraq: 10 anni dopo Nassiriya. la guerra non è finita

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/11/2013

Ieri, in Iraq, è stata una buona giornata. Per vivere, una volta tanto, non per morire: le vittime d’attentati terroristici o di attacchi settari si sono contate sulle dita delle due mani, a quanto, almeno, è dato sapere. Di solito, va peggio, molto peggio. Dall'inizio dell’anno sono state uccise in Iraq quasi 6.000 persone, 964 ad ottobre –30 al giorno in media-, il mese più cruento dall'aprile 2008, quando parevano ormai avviarsi a termine le operazioni militari delle forze internazionali. E ciò nonostante misure di sicurezza rinforzate e operazioni militari su larga scala (ma di scarsa efficacia).

Meglio che le vittime di Nassiriya non sappiano che fine ha fatto, dieci anni dopo, il Paese dove erano andati credendo di costruire la pace facendo la guerra. L’arco del terrore che va dal Pakistan al Nord Africa ha come pilastri i due Stati che dovevano essere bonificati dopo l’11 Settembre, l’Afghanistan e, appunto, l’Iraq.

Non c’è quasi area del Paese indenne dagli attentati: Baghdad e Mosul soprattutto, ma pure Kirkuk, Samara, Ramadi, sono località nelle cronache di sangue di questi giorni. Obiettivi, sedi del potere, stazioni di polizia, moschee e luoghi di riunione. Delle vittime di ottobre, 855 erano civili, il resto militari e poliziotti; migliaia i feriti.

Sul piano politico, l’Iraq guarda alle consultazioni legislative del 30 aprile, per cui il Parlamento ha varato la scorsa settimana una nuova legge elettorale –loro ci sono riusciti!-. Con un presidente, Jalal Talabani, curdo, che da quasi un anno viene curato in Germania dopo un attacco cardiaco, tutto il processo istituzionale è gestito dal vice-presidente Khoudayr al-Khuzaya.

Le elezioni di primavera s’avvicinano in un quadro di contrasti politici, religiosi ed etnici,  in seno al governo d’unità nazionale ancora presieduto da Nuri al-Maliki, leader sciita moderato, insediato alla guida dell’esecutivo ancora all'epoca di George W. Bush –gli era al fianco, quando Bush schivò le scarpe d’un contestatore iracheno-.

L’esito del voto potrebbe sbloccare la paralisi che nasce dalla contrapposizione tra gruppi religiosi ed etnici sciiti, sunniti e, nel nord, curdi: un mix che mina da sempre l’integrità dell’Iraq e che sta alla base dell’insicurezza del Paese.

Nell'attuale legislatura, governo e parlamento non hanno praticamente varato nessuna legge significativa, mentre la gente continua a subire la carenza o l’assenza di servizi di base essenziali, come l’elettricità e l’acqua, e la corruzione resta diffusa. Funzionano, sì, i pozzi di petrolio, che forniscono all'Iraq un gettito indispensabile.

Al-Maliki è stato a Washington all'inizio di ottobre e ha parlato con Barack Obama, soprattutto della lotta al terrorismo e della crisi siriana. Agli Usa, l’Iraq chiede maggiore cooperazione, in linea con il patto strategico firmato prima del ritiro, nel 2011, delle truppe combattenti americane. Washington intende aiutare Baghdad, anche con equipaggiamento militare, a contrastare “efficacemente” al Qaida, che ha recentemente scisso i comandi iracheno e siriano.

Un punto di forza di al-Maliki è di avere buone relazioni sia con gli Usa che con l’Iran. Ma in patria il premier è contestato dai sunniti, che lo accusano di atteggiamenti discriminatori, ed è criticato dagli sciiti, che subiscono più dei sunniti l’insicurezza. E ciò nonostante esibizioni di rigore giudicate “oscene” dall’Onu, come le 42 esecuzioni di condannati a morte nel giro di due giorni, circa un mese fa.

Il conflitto in Siria aggrava l’instabilità dell’Iraq, perché i ribelli siriani, per lo più sunniti, si battono contro il regime del presidente al-Assad, un esponente della minoranza alawita dell’Islam sciita. E ciò rinfocola in tutta la Regione le tensioni etniche e religiose.


Alla ricerca d’aiuti e di stabilità, l’Iraq non guarda solo all'America, ma anche all'Europa. Il sunnita Tariq al-Hashimi, legalmente ancora vice-presidente, ma rifugiato in Turchia dopo essere stato condannato a morte, chiede all’Ue  una mano per “evitare una guerra civile”. E anche il Papa invita a pregare “per la cara nazione irachena colpita quotidianamente da tragici episodi di violenza, perché trovi la strada della riconciliazione, della pace, dell’unità e della stabilità”.