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sabato 31 agosto 2013

Siria: Obama a un tiro di dadi dall'attacco

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 31/08/2013

Nel gioco dell’oca tragico dell’attacco alla Siria, Obama è a un tiro di dadi dalla casella d’arrivo: difficile che torni alla casella di partenza, ora che s’è spinto tanto avanti. Il presidente s’è troppo esposto a dire che al-Assad non resterà impunito dopo avere varcato la linea rossa del ricorso alle armi chimiche contro il proprio popolo.

Gli ispettori dell’Onu, che dall’alba di oggi sono fuori dalla Siria, faranno conoscere i risultati dell’inchiesta fra due settimane e, comunque, difficilmente attribuiranno responsabilità, un po’ perché le Nazioni Unite hanno uno spirito pilatesco e un po’ perché davvero non sanno..

Obama non può aspettare così a lungo. Gli Stati Uniti pensano di avere le prove delle responsabilità del regime di Damasco e ieri le hanno sciorinate. La Bbc mostra altre immagini di un attacco shock: napalm contro una scuola –quello degli americani in Vietnam, tanto per capirci: un’altra storia-.

Così, il presidente dice che al-Assad sfida il Mondo e denuncia l’impotenza dell’Onu, pur cercando di non agire da solo, di mettere insieme una coalizione internazionale. Il segretario di Stato Kerry parla di circa 1400 vittime, oltre 400 bambini, nell’attacco del 21 agosto; bolla al-Assad come “criminale” e “assassino”; fissa i contorni dell’azione limitata e senza interventi sul terreno; afferma che c’è in gioco la sicurezza e la credibilità degli Stati Uniti.

In realtà, Obama mostrerebbe una credibilità da Nobel per la Pace se non premesse il grilletto ora: amici e nemici lo avvertono che è in gioco la sicurezza mondiale, che c’è il rischio d’incendiare tutto un Medio Oriente già rovente, che la soluzione da cercare è politica e non militare.

Sconfitto giovedì ai Comuni, Cameron si defila. Ma Hollande resta in campo, determinato ad agire; l’Assemblea nazionale l’ha convocata per mercoledì prossimo, per informarla a cose probabilmente fatte. Perché, se si fa, bisogna farlo subito, tra ora e lunedì: poi, la finestra per l’attacco si chiuderà. Tutto deve essere finito il 5, quando il Vertice del G20 si riunirà a San Pietroburgo, sotto presidenza del padrone di casa Putin. Mica si può arrivare dallo ‘zar’, ospiti suoi, con i missili ancora in volo e il fragore dei botti che disturba l’incontro.

Sono due anni e mezzo (e decine di migliaia di vittime) che la crisi siriana va risolta. E, a volerla leggere in positivo, questo passaggio scabroso, l’uso dei gas e la punizione occidentale, potrebbe essere la svolta. Subito dopo, magari proprio già a San Pietroburgo, potrebbe iniziare la ricerca d’una soluzione condivisa tra Washington e Mosca: via il presidente e fuori dalla stanza del bottoni pure gli inaffidabili ribelli.

Però, bisogna disinnescare il rischio di reazioni fuori misura, iraniane o di milizie vicine all’Iran. E bisogna tenere fuori da tutto ciò Israele, dove il barometro del timore sono le vendite di maschere anti-gas.

L’intrecciarsi di preparativi nel Mediterraneo non agevola la diplomazia: 6 unità navali americane incrociano ora a distanza di tiro utile; la Francia fa salpare una fregata; la Gran Bretagna dispiega comunque caccia ad Akrotiri, sua base cipriota. E la Russia compie un avvicendamento “di routine” di navi da guerra nel Mediterraneo orientale, dislocandovi unità lanciamissili e anti-sottomarini

Il regime siriano s’impegna a difendere il proprio Paese da ogni aggressione. Le forze armate si posizionano per ridurre al minimo l’effetto della gragnola di missili che potrebbe colpirle: gli Usa e i loro alleati avrebbero limitato a una cinquantina i potenziali obiettivi, ma rischiano di trovarne molti vuoti. Il che potrebbe fare comodo a tutti: il WSJ sospetta che l’azione, decisa per “fare qualcosa”, venga deliberatamente calibrata per “fare molto poco”. Ma, allora, perché farlo?, solo per un puntiglio -ti avevo detto ‘niente armi chimiche’ e tu mi hai sfidato?-. ...

Linea rossa Usa-Urss: i 50 anni del telefono caldo della Guerra Fredda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/08/2013
All'inizio era un telex: la linea rossa tra Washington e Mosca –in inglese, 'hotline', che oggi ci suona più allusivamente erotico che seriosamente drammatico-. Poi divenne un telefono: il telefono rosso. Una linea diretta che collegava la Casa Bianca e il Cremlino: figlia del connubio tra Guerra Fredda e terrore dell’Olocausto nucleare, concepita  nell'ottobre del 1962 quando la crisi dei missili a Cuba portò il Mondo sulla soglia del conflitto.  Evitata la tragedia, Kennedy e Kruscev vollero almeno migliorare le comunicazioni tra Usa e Urss: se scontro avesse mai dovuto essere, che non lo fosse per un errore o un’incomprensione.
E guerra non fu, anche grazie a quella ‘hotline’. Il Mondo è oggi cambiato, i contatti fra leader sono diretti e continui. Ma l’ansia per la crisi siriana, che ancora una volta vede contrapporsi Washington e Mosca, conferma l’importanza essenziale d’una comunicazione immediata .
La linea fu usata la prima volta nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni, tra Egitto e Israele: schierate a sostegno dei fronti opposti, Usa e Urss si scambiavano informazioni sui reciproci movimenti militari, per evitare pericolosi malintesi con la Quinta Flotta di stanza nel Mediterraneo e unità sovietiche che uscivano dal Mar Nero.
Ma il cinema se n’era già impossessato, dandone interpretazioni esilaranti –il Dottor Stranamore, con Peter Sellers- o eccezionalmente cariche di tensione -Sette Giorni a Maggio, con Henry Fonda-. A Guerra Fredda ormai conclusa, ricomparve, in versione film d’azione in AirForceOne, nelle mani di Harrison Ford.

La linea più chiacchierata e meno usata del Pianeta Terra, compiva ieri 50 anni. Il numero di volte che è stata effettivamente utilizzata è ammantato dal segreto. Krusciex, che ne fu il padrino con Kennedy, apparentemente non la usò mai. Nel 1967, la inaugurarono Johnson e Breznev. Carter nel 1979 alzò la cornetta per protestare contro l’invasione dell'Afghanistan: all'altro capo del filo, c’era ancora l’incartapecorito Breznev.
Il sistema fu originariamente sviluppato dalla Harris Corporation: speciali cavi transatlantici vennero posati a tempo di record sul fondo dell'Atlantico, collegando Washington a Mosca via Londra, Copenhagen, Stoccolma e Helsinki. Un circuito radio di riserva Washington-Tangeri-Mosca faceva da ‘back-up’ in caso di guasto. Entrambi i percorsi erano vulnerabili a interruzioni: incidenti più che sabotaggi, come quando un bulldozer danese tagliò il cavo vicino a Copenaghen, o un contadino finlandese gli diede fuoco, o un tombino andò in fiamme a Baltimora, provocando un blackout.
Identici terminali vennero installati ai due estremi, presidiati 24 ore su 24 da esperti e da interpreti: scritti nelle rispettive lingue madri, i messaggi venivano criptati e poi decodificati e tradotti da chi li riceveva. “Il telefono arrivò negli Anni 70'', racconta Viktor Sudhorev, interprete del Cremlino: allora, il sistema fu integrato da due linee di comunicazione satellitare, con due satelliti americani Intelsat e due sovietici Molniya.

Negli Anni 80, con Reagan e Gorbacev, arrivò l’ora dei fax ultra-veloci: così, Mosca e Washington si scambiarono informazioni durante la Guerra del Golfo nel 1991, quando il telefono rosso, ormai chiusa la Guerra Fredda ed esorcizzato lo spettro dell'Olocausto nucleare, si trasformò in strumento di costruzione della fiducia tra due nazioni abituiate a diffidare l’una dell’altra.

Conosciuta al Pentagono con la sigla Molink, Moscow link, la linea rossa sarebbe stata usata, secondo alcune fonti, oltre 15 volte prima del 1990. La dissoluzione dell'Urss e l'emergere degli Usa come Super-Potenza Unica hanno di fatto tolto importanza al telefono rosso, ormai obsoleto anche tecnologicamente.

L’importanza d’una comunicazione diretta corretta e affidabile resta però intatta: i leader si chiamano spesso al telefono, si vedono più volte ogni anno, comunicano sui social media; e le possibilità di malinteso sono ridotte. Ma l’11 Settembre, le crisi regionali, momenti di ritorno d’un clima da Guerra Fredda tra Usa e Russia stanno  a ricordare che, senza una ‘hotline’, il rischio d’una catastrofe militare globale è sempre immanente.

venerdì 30 agosto 2013

Siria: il traccheggio prima della tempesta

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/08/2013

Adesso, Obama, Cameron, Hollande traccheggeranno per qualche giorno: devono farlo, l’Onu ha bisogno di tempo per fare rientrare – domani - gli ispettori dalla Siria, i parlamenti nazionali rumoreggiano, bisogna convincere alleati e, soprattutto, nemici che l’azione sarà limitata.

Ma, poi, la finestra per l’attacco ‘punitivo’ al presidente al-Assad, dopo l’uso dei gas il 21 agosto, sarà ristretta: l’1 o il 2 settembre al massimo. Tutto dev’essere finito il 5, quando il Vertice del G20 si riunirà a San Pietroburgo, sotto la presidenza del padrone di casa, Putin. Mica si può arrivare dallo ‘zar’, ospiti suoi, con i missili ancora in volo e il fragore dei botti che disturba l’incontro.

La giornata di ieri è stata interlocutoria, come previsto. In serata, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu s’è riunito al Palazzo di Vetro, ma non c’era da attendersi un’intesa. Obama ha di nuovo assicurato che l’attacco, se ci sarà, sarà limitato nel tempo e negli obiettivi e ha spedito emissari al Congresso (“non sarà un nuovo Iraq”, l’assicurazione data a deputati e senatori). Cameron trova ai Comuni forte opposizione e smorza i toni e smussa gli angoli. Hollande rilancia: castigare al-Assad non basta, bisogna risolvere la crisi. E il papa, ricevendo il re di Giordania Abdallah, insiste sul dialogo.

In realtà, sono due anni e mezzo che la crisi siriana va risolta. Forse, questo passaggio scabroso, l’uso dei gas e la ‘punizione’ occidentale, potrebbe essere la svolta. Subito dopo, magari proprio già a San Pietroburgo, potrebbe iniziare la ricerca comune d’una soluzione condivisa tra Washington e Mosca: via il presidente, ma fuori dalla stanza del bottoni anche gli inaffidabili ribelli.

Però, bisogna disinnescare il rischio di reazioni fuori misura, iraniane o di milizie vicine all’Iran, che, intanto, rivela l’Aiea, amplia i programmi d’arricchimento dell’uranio nell’impianto di Natanz. E bisogna tenere fuori da tutto ciò Israele, dove il barometro del timore sono le vendite di maschere anti-gas.

Il regime siriano s’impegna a difendere il proprio Paese da ogni aggressione. Le forze armate si posizionano per ridurre al minimo l’effetto della gragnola di missili che potrebbe colpirle: gli Usa e i loro alleati avrebbero limitato a una cinquantina i potenziali obiettivi, ma rischiano di trovarne molti vuoti. Il che potrebbe fare comodo a tutti: il WSJ sospetta che l’azione, decisa per “fare qualcosa”, venga deliberatamente calibrata per “fare molto poco”.

L’intrecciarsi di preparativi nel Mediterraneo non agevola la diplomazia: 5 unità navali americane incrociano ora a distanza di tiro utile; la Francia fa salpare una fregata; la Gran Bretagna dispiega caccia ad Akrotiti, la sua base cipriota. E la Russia compie un avvicendamento “di routine” di navi da guerra nel Mediterraneo orientale, dislocandovi unità lanciamissili e anti-sottomarini.

La crisi fa salire il prezzo del petrolio, che supera i 115 dollari al barile. E i rincari si ripercuotono subito, senza giustificazione, sulla benzina alla pompa. In guerra, non ci andremo; ma ne paghiamo già i costi, prima che scoppi.

Siria: il tormentone delle basi in Italia, servono?, e gliele diamo?

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/08/2013

E’ il tormentone italiano di questa crisi: le basi, le diamo o meno agli Stati Uniti ed ai loro alleati “volenterosi”, fra cui stavolta non ci arruoliamo, se scatta la punizione contro Damasco per l’uso dei gas? Il ministro degli esteri Emma Bonino, che ieri a Parigi tesseva le fila d’una diplomazia della soluzione alternativa all’intervento militare, ha ripetuto, dopo l’incontro col collega francese Laurent Fabius: “Ad oggi, le basi militari non ce le ha chieste nessuno. I problemi si affrontano quando vengono posti''.

L’Italia condanna l’attacco al sarin in Siria, ma non intende partecipare a un’azione militare, soprattutto se non avallata dall’Onu; è favorevole alla ricerca di una soluzione politica ed al deferimento del presidente al-Assad, se responsabile dell’uso dei gas, a una corte internazionale.

Nelle ultime 72 ore, il linguaggio della Bonino, del ministro della difesa Mauro e del premier Letta, che, dopo la visita al contingente afghano, ama mettersi l’elmetto in testa, non è sempre stato perfettamente consonante. Ma la linea tracciata dalla Farnesina e adottata dal Governo è questa.

C’è la coscienza che la concessione delle basi esporrebbe di per sé l’Italia a ritorsioni. Però, il Paese deve rispettare gli impegni internazionali accettati, aderendo all’Alleanza atlantica. Gli Stati Uniti possono utilizzare le basi italiane per scopi bellici su disposizione della Nato o con intese bilaterali. E, stavolta, è improbabile che la Nato dia l’ordine, se l’Onu non dà l’avallo, viste le riserve diffuse fra gli alleati.

La geografia delle basi americane in Italia è complessa. Le principali sono Camp Ederle a Vicenza ed Aviano nel Friuli, Camp Darby a Livorno, Latina e Gaeta (Lazio), Comiso e Sigonella (Sicilia). Le installazioni militari americane nella Penisola, citate in documenti del Pentagono, sono decine: una dozzina per l’esercito, una ventina per la marina, circa 16 per l’aviazione, depositi di materiali ed armamenti. I militari statunitensi sono parecchie migliaia, l’arsenale a loro disposizione comprenderebbe decine di ordigni nucleari.

Rispetto all’intervento in Libia nel 2011, quando l’Italia mise a disposizione le basi e prese parte alle operazioni, l’azione contro la Siria è significativamente diversa, notano gli esperti. Essa può infatti svolgersi senza il coinvolgimento dell’Italia, come spiega Gianandrea Gaiani sul Sole24Ore: ecco perché l’uso delle basi non sia stato chiesto.

Se i raid saranno limitati nel tempo, con lancio di missili da navi e aerei, potrebbero bastare mezzi americani, britannici e francesi su portaerei o basati in Paesi limitrofi alla Siria pronti a cooperare, Turchia, Cipro, Giordania, gli Emirati del Golfo che sollecitano l’intervento.

Si potrebbe rinunciare alle basi avanzate, rifornendo gli aerei in volo. Ma, a conti fatti, è probabile l’utilizzo della base britannica di Akrotiri a Cipro e di quella americana di Suda Bay, a Creta.

Gli aeroporti italiani più vicini alla Siria, Brindisi, Gioia del Colle, Trapani, distano 2000 km circa da Damasco. Anche le due basi aeree Usa in Italia, Sigonella (UsNavy) e Aviano (UsAf), sono lontane dall’area operativa, ma potrebbero servire come scalo logistico per aerei, droni e mezzi.

giovedì 29 agosto 2013

Siria: pacifismo addio, Italia indifferente e bandiere nei bauli

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/08/2013

“Meglio rossi che morti” scandivano i cortei di giovani che protestavano nelle città d’Europa contro l’installazione degli euromissili: Pershing e Cruise –si temeva- avvicinavano il rischio dell’Olocausto nucleare (invece, si scoprì poi, quelle armi mai usate accelerarono lo sgretolamento del Blocco Comunista, il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda). Ma quelli erano i primi Anni Ottanta, ancora segnati dalle ideologie della contestazione e della partecipazione.

Anche dopo, però, lo spirito pacifista e non violento della nostra società s’è risvegliato, davanti all'incubo d’un conflitto. Bandiere della pace alle finestre negli Anni Novanta, quando, con l’egida dell’Onu,  la comunità internazionale corse a riparare un palese sopruso, l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq; e ancora quando, senza il consenso dell’Onu, la Nato condusse una guerra aerea alla Serbia; e, più di recente, nel XXI Secolo, quando, violando di nuovo la legalità internazionale, gli Stati Uniti con “volenterosi” alleati invasero l’Iraq col pretesto delle armi di distruzione di massa (che non c’erano). Persino la spallata finale a un dittatore come Muammar Gheddafi incontrò resistenze pacifiste, sia pure sporadiche.

Questa volta, invece, l’attacco alla Siria sembra lasciare quasi indifferente l’opinione pubblica, almeno quella italiana; e non commuove la classe politica: qualche appello, poche dichiarazioni, zero cortei, zero campagne. Certo, nessuno ha voglia (e nessuno pensa) di “morire per Damasco”, come nessuno aveva voglia (e nessuno dei nostri lo fece) di “morire per Tripoli”. Ma nessuno ha neppure voglia di fare lo scudo umano per il presidente Assad, come due anni or sono nessuno si sentiva di farlo per il colonnello Gheddafi. Da una parte, regimi responsabili di crimini pesanti contro i loro popoli. Dall'altra, opposizioni composite, magari inquinate da integralisti e terroristi .

E allora?, lasciare carta bianca ai monatti delle ‘bombe intelligenti’ e delle ‘operazioni chirurgiche’, che riducono al minimo i ‘danni collaterali’ –cioè le vittime civili, uomini, donne, bambini, quelli che l’ ‘intervento umanitario’ vorrebbe proteggere-? Nei briefing ‘off the record’, o nei ‘talk shows’ televisivi, ci raccontano la solita favola della guerra lampo: una gragnola di missili “di precisione” contro “obiettivi strategici”, aeroporti, basi, depositi; 72 ore ed è finita. Tutti discorsi che servono solo a mettere la sordina alle coscienze.

Noi, però, stiamo a pensare all’Imu e al Cav. Mica stiamo a chiederci perché intervenire e con quale legittimità internazionale, se l’Onu non dà l’avallo. Chi invoca l’emergenza umanitaria, dice che bisogna proteggere i civili -uccidendone un po’ di più?, magari pochi?- . Ma i morti ammazzati dalle armi convenzionali sono meno morti ammazzati di quelli del gas sarin, al di là dell’orrore delle armi chimiche?, e migliaia di vittime, milioni di sfollati non erano già emergenza umanitaria?

Dedichiamo uno spazio dei tg al dramma siriano e al conflitto imminente. Certo, non ci riguarda, perché noi italiani stavolta ne stiamo fuori, almeno così abbiamo capito. Però, le cronache recenti del nostro Paese –si direbbe- hanno ottuso le nostre coscienze, ci hanno reso indifferenti e incapaci d’indignazione. Evasori impuniti, politici corrotti, industriali inquinatori: scrolliamo le spalle, manco protestiamo. Bimbi ‘gasati’, missili, bombe: voltiamo le spalle, manco guardiamo. Ormai stinte, le bandiere della pace restano nei bauli.

Siria: l'Onu in panne, il blitz slitta (e magari salta)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/08/2013

All’Onu, è scontro aperto tra sostenitori ed oppositori d’un intervento armato nel conflitto siriano: non c’è intesa su un progetto di risoluzione britannico, che aprirebbe la strada al ricorso alla forza contro il regime di Damasco, accusato d’una strage di civili con il sarin. Visto lo stallo, Londra rinuncia a una riunione del Consiglio di Sicurezza.

Meno contrasti, invece, alla Nato, dove il Consiglio atlantico trova l’intesa su una formula secondo cui l’attacco chimico del 21 agosto non può “restare senza risposta”: centinaia le vittime nei pressi di Damasco. Secondo fonti dell’opposizione, l’azione sarebbe stata condotta dai lealisti al regime e ordinata da Maher, fratello del presidente al-Assad –altri, però, lo danno per morto-.

I tempi di un intervento, che parevano imminenti –l’azione potrebbe partire già oggi-, paiono un po’ rallentati dopo la giornata di ieri. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon dice che gli esperti, che hanno fatto un secondo sopralluogo su un sito attaccato, hanno ancora bisogno di quattro giorni per concludere la loro missione, prima di compiere le analisi e presentare il rapporto.

C’è chi rileva l’opportunità di attendere il Vertice del G20 in Russia la prossima settimana. L’Assemblea nazionale francese è stata convocata il 5 settembre; i Comuni s’esprimeranno oggi; e il Congresso Usa s’aspetta d’essere consultato.

Washington, Londra e Parigi sono già convinte della responsabilità del presidente al-Assad e dicono d’essere pronte ad agire, non per rovesciare il presidente, ma per dissuaderlo dal fare ancora ricorso ai gas nel conflitto che infuria da due anni. Australia, Turchia e alcuni altri Paesi condividono tale approccio. La tensione internazionale induce al ribasso le borse e spinge in alto i prezzi del petrolio, ai massimi da due anni, sopra i 112 dollari al barile.

L’Europa è divisa. La cancelliera tedesca Merkel sollecita una soluzione politica. L’Italia pensa che la decisione spetti all’Onu –ministro Bonino- e non vede spazi per una partecipazione diretta all’azione militare –ministro Mauro-. Se vi fosse l’avallo del Consiglio di Sicurezza, dice il ministro degli Esteri, il Parlamento ne discuterà: “L’orrore degli attacchi non riduce l’esigenza di rispettare la legalità”. Palazzo Chigi suggerisce che i responsabili siano deferiti a una corte internazionale.

Damasco respinge le accuse e le ritorce contro gli insorti –“terroristi sono in possesso dei gas e li useranno in Europa”-; e avverte che la Siria diventerà “il cimitero degli invasori”. Le forze lealiste hanno cominciato a riposizionarsi, per rendersi meno vulnerabili, spostando i comandi.

Per il ministro degli esteri russo Lavrov, un atto di forza innescherà un’ulteriore destabilizzazione. E l’Iran giudica un attacco “un disastro per la Regione”. La prospettiva allarma Israele, che richiama riservisti e schiera batterie anti-missili alla frontiera con la Siria. L’Oci, l’organizzazione della cooperazione islamica, chiede, in un comunicato, “un’azione decisiva” contro Damasco.

I ‘falchi’ sono determinati a non rinunciare all'intervento, che durerà “più di un giorno”, anche senza l’avallo dell’Onu. L'intelligence Usa avrebbe le prove della responsabilità del regime, in conversazioni telefoniche intercettate. Se scatterà, l’azione sarà condotta con missili Tomahawk lanciati da navi nel Mediterraneo, già in loco, o da caccia bombardieri che non entreranno, però, nello spazio aereo siriano: colpiranno aeroporti, basi e depositi, senza però annientarne le capacità militari siriane né dare un vantaggio decisivo ai ribelli, nelle cui fila militano integralisti e terroristi e di cui molti diffidano.

Il progetto di risoluzione britannico, discusso a porte chiuse dai cinque ‘grandi’ Onu, autorizza “tutte le misure necessarie … per proteggere i civili contro le armi chimiche” in Siria. Ma il testo nasce morto, perché la Russia, che ha diritto di veto e che lo ha già usato a tutela di al-Assad, vuole attendere, per pronunciarsi, i risultati dell’inchiesta degli esperti dell’Onu. Anche per Washington, Londra e Parigi sarà difficile giocare d’anticipo.

mercoledì 28 agosto 2013

Siria: morire ammazzati da gas stupidi o bombe intelligenti

Scritto per il blog de Il Fatto il 28/08/2013

Eccoci, ci risiamo! Lugubri come i monatti, già li risento, i cultori delle ‘bombe intelligenti’, gli specialisti delle ‘operazioni chirurgiche’, che riducono al minimo i ‘danni collaterali’ –leggasi, vittime civili, uomini, donne, bambini, quelli che l’ ‘intervento umanitario’ vorrebbe proteggere-. Che vorrete mai che sia?, ci raccontano nei briefing ‘off the record’, o nei ‘talk shows’ televisivi: una gragnola di missili “di precisione” contro “obiettivi strategici”, aeroporti, basi, depositi, 72 ore ed è tutto finito.

A parte che alle ‘guerre lampo’ non crede più nessuno –anche le più brevi, come quella del Golfo nel 1991, durano sempre una cinquantina di giorni, quando i conflitti non s’incancreniscono e si trascinano per anni-, uno può pure essere convinto che sia tutto vero o fingere di esserlo, se ciò gli serve a tacitare la propria coscienza: 72 ore, bombe intelligenti, operazioni chirurgiche…

Ma per fare che cosa? Rovesciare, e men che meno uccidere, il presidente al-Assad, no, perché – sono tutti d’accordo - non è questo l’obiettivo. Aiutare gli insorti ad avere la meglio sul regime, neppure, perché nessuno si fida di quel coacervo dell’opposizione siriana, dove ci stanno integralisti e terroristi. E il ‘refrain’ del ristabilire la democrazia –a parte che lì non c’è mai stata-, manco ci si prova a intonarlo, dopo l’Iraq e l’Afghanistan e visto come stanno finendo le Primavere arabe.

E con quale legittimità internazionale, se l’Onu non dà l’avallo? Uno dice: è emergenza umanitaria, bisogna proteggere i civili –ammazzandone?, magari pochi?-; e un altro denuncia l’uso intollerabile di strumenti di distruzione di massa –ed ha ragione, intendiamoci-.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e chi starà con loro pretendono d’andare alla ‘guerra ad ore’ proprio per marcare il superamento della ‘linea rossa delle armi chimiche’ –una linea tracciata , circa un anno fa, dalla Casa Bianca-. Ma i morti ammazzati dalle armi convenzionali sono meno morti ammazzati di quelli del gas sarin?, e migliaia di vittime e milioni di sfollati non giustificavano già l’emergenza umanitaria?, e i rischi di allargamento del conflitto sono stati tutti calcolati?

Viene il dubbio che, al fondo di tutto, ci sia l’orgoglio ferito di qualche leader che s’è sentito sfidato dal regime siriano. E che, tirando un po’ di missili, pensa di riscattarsi dall’accusa d’inazione presso la propria opinione pubblica. Cattivi pensieri, che il presidente Obama, Nobel per la Pace nel 2009, può fare svanire decidendo di non lanciare l’attacco.

Siria: la 'guerra lampo' sta per scattare, Obama deve dare l'ordine d'attacco

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/08/2013

L’attacco ‘limitato’ alla Siria sarebbe imminente, potrebbe scattare già domani: durerà pochi giorni, due o tre, e consisterà essenzialmente in una gragnola di missili. Il presidente Usa Barack Obama, un Nobel per la Pace, reinventa la ‘Blitz Krieg’, la ‘guerra lampo’ d’infausta memoria, pur sapendo che non servirà a nulla. Anzi, l’intenzione è proprio quella: agire senza incidere, perché Obama non vuole rovesciare al-Assad e non vuole rafforzare l’opposizione, di cui non si fida.

Si tratta di battere un pugno sul tavolo per fare pagare a Damasco l’avere varcato la linea rossa dell’uso delle armi chimiche. Un pugno sul tavolo che farà qualche manciata di morti in più. Ma chi li conta?, nel carnaio siriano… Del resto, di quanto avviene sul terreno in queste ore non importa nulla a nessuno.

Anche se Obama non ha ancora deciso, e se continua il valzer dei contatti fra i potenziali partner dell’intervento militare, le fonti di stampa Usa sono concordi e insistenti: la rappresaglia giungerà dal cielo e dal mare, con o  senza l’avallo dell’Onu, i cui ispettori continuano a provare ad accertare in loco le responsabilità dell’attacco al sarin della scorsa settimana.

Per il WP, la decisione sarà matura una volta raccolte tutte le informazioni di intelligence sull’uso dei gas, completate le consultazioni con gli alleati e con il Congresso e trovata una base giuridica che giustifichi l'intervento armato politicamente e legalmente. Il presidente francese Hollande e il premier britannico Cameron, come pure la Turchia, non hanno riserve sulla risposta militare. Invece, due tedeschi su tre lo bocciano: dei grandi partiti in campagna elettorale, nessuno lo avalla.

Con la Russia, la frattura è netta: Washington rinvia l’incontro bilaterale in programma per oggi; Mosca esprime rammarico. La Siria si dice pronta a difendersi se attaccata, l’Iran costituisce l’incognita maggiore in questa situazione. E le borse cadono un po’ ovunque: incertezza e preoccupazione condizionano gli affari, anche se Cameron ostenta sicurezza, l’attacco –afferma- non incendierà tutto il Medio Oriente. Risale pure lo spread, ma quello è tutta un’altra storia.

L’Italia si barcamena. Il ministro degli Esteri Bonino è netta: “Non c’è una soluzione militare”, dice in Parlamento. Il premier Letta, parlando con Cameron, giudica “intollerabili” i crimini d’al-Assad. Poi, fonti del Governo precisano che l’Italia non è favorevole all’intervento e non intende concedere l’uso delle proprie basi militari per operazioni in Siria condotte senza l'avallo Onu –e, comunque, finora nessuno ce le ha chieste-: "La priorità è una soluzione politica, per cui l'Italia e' attivamente impegnata”. Oggi, ci sarà un consulto alla Nato; il 4 settembre, ma cose forse fatte, una riunione degli Amici della Siria.

I piani all’esame degli Usa escludono l’impiego di truppe di terra e la creazione d’una ‘no fly zone’: l’attacco sarà “chirurgico”, con missili tirati da unità di superficie o sottomarini e da bombardieri. Nel mirino, obiettivi militari (non solo gli stock chimici) e infrastrutture strategiche, non la persona di al-Assad. L’opposizione siriana è stata sentita in Turchia su cosa colpire, aeroporti, basi e depositi. 

martedì 27 agosto 2013

Siria: l'intervento è incerto, la pace esclusa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/08/2013

Che scatti un intervento militare degli Stati Uniti e dei loro alleati, non è affatto sicuro. Che scoppi la pace, è escluso al 100 per cento: Ginevra 2, la conferenza che doveva preparare una via d’uscita  negoziata dal conflitto siriano, è definitivamente saltata, dopo mesi di rinvii. Non la vuole il regime del presidente al-Assad, che, con l’aiuto degli hezbollah, sta riguadagnando terreno. E non la vuole più l’opposizione. Da Istanbul, gli insorti legano il loro no all'attacco al gas nervino del 21 agosto, che avrebbe fatto 1300 morti –il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino parla di 700 vittime-.

Il grado di reazione della comunità internazionale è subordinato alla prova che l’eccidio chimico è stato davvero compiuto dal regime siriano. Finora, la ‘pistola fumante’ non c’è: gli ispettori dell’Onu hanno ieri avuto accesso ai luoghi della strage, accolti da tiri di cecchini –regime e insorti se ne rimpallano la responsabilità-. Ma Washington e Londra obiettano che, dopo tanti giorni, è ben difficile trovare tracce dell’uso di gas. E il segretario di Stato Usa Kerry parla di “attacco chimico su larga scala”, che “ha sconvolto la coscienza del Mondo”, mentre il regime “nasconde la verità”: chi è responsabile “deve risponderne”.

Dopo un colloquio –domenica, a tarda sera- tra il presidente Usa Obama e il premier britannico Cameron, che interrompe le vacanze, la stampa inglese dava l’attacco per imminente: poteva addirittura essere immediato. La Casa Bianca smentisce: l’azione militare, se ci sarà, non scatterà nei prossimi giorni e partirà solo di concerto con la comunità internazionale.

La mancanza di riferimento a un avallo dell’Onu lascia la porta aperta a un’azione tipo Kosovo 1999, condotta dalla Nato. Londra considera “possibile” un intervento anche senza il sì del Palazzo di Vetro. Il Cremlino s’irrigidisce: un’azione senza mandato dell’Onu sarebbe una grave violazione della legalità internazionale e avrebbe “conseguenze gravissime”. E il vescovo d’Aleppo prospetta lo scoppio d’una guerra mondiale.

Sul terreno, la litania delle vittime s’allunga, con l’uccisione da parte di “terroristi”, di un leader religioso alauita. E crescono i timori per padre Dall’Oglio: il gesuita, scomparso da settimane, è, dice l’opposizione siriana, “in grave pericolo”.

La geografia della diplomazia sulla Siria è complessa è frastagliata. La Francia guida il partito dell’intervento, ma non può scendere in campo da sola, come fece in Malì. Così Parigi annuncia “una risposta concordata” a giorni. Obama è riluttante, il Pentagono prudente: non è chiaro dove stia l’interesse nazionale degli Stati Uniti, in un conflitto dove nessuno sa bene chi siano i ‘buoni’, ammesso che ci siano. La chiave di volta può essere l’esito delle indagini dell’Onu.

In Europa, chi tira il freno è soprattutto la Germania: la questione siriana è ormai diventata tema della campagna elettorale. Ieri, una qualche apertura interventista della cancelliera Merkel ha immediatamente destato l’eco contraria dell’opposizione socialdemocratica. Per l’Italia, è “impensabile” un intervento senza l’avallo dell’Onu: la Bonino invita a pensarci “mille volte” e ipotizza alternative, come deferire al-Assad alla Corte penale internazionale; ma il Governo dice che “è stato superato il punto di non ritorno”. L’Ue si rimette all’Onu.

Chi è pronto a mettere il veto è la Russia, che ammonisce “a non ripetere gli errori dell’Iraq”, denuncia “l’isteria” anti al-Assad e bolla come “accuse senza prove” quelle a Damasco. La Cina resta discreta e s’affida all’ “obiettività” dell’indagine dell’Onu.

La mappa è più intricata nel Mondo arabo e islamico. L’Iran e le comunità sciite sono vicine agli alauiti siriani, cui appartiene la famiglia al-Assad, mentre l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo finanziano ed armano l’insurrezione sunnita, nonostante essa sia stata infiltrata da formazioni terroriste integraliste. La Turchia è pronta all'intervento anche senza l’avallo dell’Onu. Con toni alla Saddam Hussein, il presidente siriano afferma che l’attacco internazionale sarebbe un flop. E l’Iran prospetta agli Usa un altro Afghanistan. Ma nessuno ha davvero voglia di andare a vedere se è tutto un bluff.

domenica 25 agosto 2013

Siria: intervento mai così vicino, Usa lo studiano 'tipo Kosovo'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/08/2013

La possibilità d’un intervento militare della comunità internazionale in Siria non è mai stata così vicina come in queste ore, dopo il cruento attacco con armi chimiche di mercoledì scorso, che neppure il regime di Damasco e l’Iran suo alleato ormai negano, attribuendone la responsabilità, però, a elementi dell’opposizione e chiamando in causa Berlino, Riad e Doha.

Ieri, alla Casa Bianca, c’è stato un consulto di crisi convocato dal presidente Barack Obama, presenti i consiglieri per la sicurezza nazionale: una riunione interlocutoria, al termine della quale “tutte le opzioni restano in tavola”, mentre l'intelligence sta ancora valutando fatti e prove.

Prende corpo l’ipotesi di un intervento “tipo Kosovo 1999”, mentre i partner europei degli Usa hanno pareri contraddittori: la Germania è recisamente contraria a passare all'azione, la Francia, certa del “massacro chimico”, giudica una reazione “necessaria”. Medici senza Frontiere testimoniano di avere assistito a 355 decessi in Siria con sintomi neurotossici.

"Abbiamo una vasta gamma di opzioni disponibili, che stiamo valutando in modo ponderato”, dice a Washington una fonte dell’Amministrazione. Per il presidente, è giunto “il momento delle scelte”, anche se, fino a venerdì, pareva escluso un intervento militare senza un chiaro mandato dell’Onu. E gli ispettori delle Nazioni Unite devono ancora riferire le loro conclusioni sulla strage chimica, mentre il conflitto continua a fare vittime: ieri, 54 morti in un bombardamento ad Aleppo.

A illustrare a Obama le opzioni militari è stato il generale Martin Dempsey, capo di Stato Maggiore delle Forze armate. Per la Cbs, Dempsey non cela le proprie perplessità su un eventuale intervento, che potrebbe essere dal cielo e/o dal mare, non sul terreno: il generale pensa che sostenere i ribelli, fra cui operano elementi integralisti e terroristi, non tuteli gli interessi americani.

E c’è pure il rischio che un intervento militare possa avere conseguenze non volute'', come destabilizzare i paesi vicini –in Libano, la tensione resta altissima, con al Qaida contro gli Hezbollah- e ingigantire i flussi di profughi.

Gli Stati Uniti hanno comunque già rinforzato la presenza nel Mediterraneo, con la nave da guerra USS Mahan. La marina non ha tuttavia ricevuto l’ordine di prepararsi a intervenire. In viaggio verso la Malaysia, il segretario alla Difesa Chuck Hagel ha spiegato che le forze devono essere pronte ad attuare le decisioni del presidente, quali che esse siano.

Ad evocare il precedente della guerra della Nato in Kosovo, solo aerea,  è il NYT: sarebbe un piano ''per un'azione senza mandato dell’Onu'', dove un veto di Mosca è scontato. Il Kosovo offre spunti di similarità evidenti: i legami tra Russia e Serbia –come tra Russia e Siria- e le molte vittime civili. I 78 giorni di incursioni aeree non causarono perdite alleate.

sabato 24 agosto 2013

MO: Obama scopre che Egitto, Siria, Libano sono nel caos

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/08/2013

Il presidente Usa Barack Obama prova, ancora una volta, a spegnere gli incendi del Medio Oriente con una pioggia di parole. E mentre lui parla d’Egitto e Siria, due micidiali deflagrazioni a Tripoli del Libano, davanti a due moschee sunnite, ricordano quanto siano intricate le questioni mediorientali: autobombe fanno almeno 42 morti e 500 feriti -fonti ufficiali-. Sono gli attentati più gravi nel Paese dalla fine della guerra civile.

Le esplosioni non paiono riconducibili al conflitto israeliano-palestinese, anche se, giovedì, c’erano stati tiri di razzi dal Libano su Israele, seguiti, nella notte, da raid israeliani contro Na’meh, base di un gruppo che combatte per il regime siriano. Gli attacchi sono, piuttosto, l’ennesimo capitolo dello scontro in atto nel Mondo arabo, non solo tra sciiti e sunniti, ma all'interno della comunità sunnita.

In un’intervista alla Cnn, Obama, da poco rientrato alla Casa Bianca da vacanze in famiglia, dice che su Egitto e Siria è arrivata l'ora di “cambiare registro” e di “prendere decisioni chiave”: “Gli Usa –afferma- faranno scelte a breve”. Ma il NYT riferisce di divisioni nell'Amministrazione sull'atteggiamento da tenere, specie verso la Siria.

Sulla presunta strage di ribelli e civili col gas nervino, il presidente esprime “preoccupazione” e parla di “evento grave”. Ma la cautela è evidente: un anno fa - giorno più, giorno meno -, Obama tracciava la linea rossa dell’uso di armi di distruzione di massa come limite invalicabile dal presidente al-Assad, pena l’intervento militare degli Stati Uniti.

Però, d’intervenire, in una guerra dove i cattivi sono ovunque, mentre non è facile dire chi siano i buoni, Washington non ha nessuna voglia. Obama non agirà senza avallo internazionale ed è più prudente del capo dell'Onu Ban Ky-moon: se accertato, il ricorso al gas è “un crimine contro l’umanità” e avrà “gravi conseguenze per chi lo ha perpetrato”. Mentre Francia e Svezia si sbilanciano a considerare “probabile” la responsabilità del regime, anticipando l’esito delle inchieste.

Un rapporto di Save the Children segnala un milione di bambini siriani sfollati (su un totale di quasi 5 milioni di rifugiati, un quarto della popolazione) e almeno 7000 minori uccisi. Cifre labili, fra di loro contraddittorie, come tutte quelle di questa tragedia.

Gli attentati in Libano e l’allarme chimico siriano lasciano in secondo piano gli sviluppi in Egitto, nel ‘venerdì dei martiri’, le vittime della repressione. La bozza di Costituzione presentata dal governo insediatosi dopo la deposizione del presidente legittimo Mohamed Morsi, prevede il bando dei partiti religiosi e la fine dell’interdizione per gli esponenti del partito di Mubarak, il ‘satrapo’ rovesciato nel 2011 e appena uscito dal carcere.

Obama non esclude uno stop agli aiuti all'Egitto, se il governo ‘ad interim’ calpesterà “i nostri valori”. Ma che cosa deve accadere ancora?, se, nonostante la giornata relativamente ‘tranquilla’, rispetto ai timori, le cronache riferiscono di 80 “terroristi uccisi” nel Sinai –come i militari chiamano ora i Fratelli musulmani-, di scontri e vittime in varie città durante manifestazioni ‘pro Morsi’ e di decine di arresti.

Eppure, da noi c’è chi sposta l’accento sulla tutela della libertà religiosa dei cristiani copti. E chi alza lai per l’arrivo sulle nostre coste di esseri umani che sfuggono alla guerra, alla persecuzione, alla violazione di tutti i diritti.

venerdì 23 agosto 2013

Siria: armi chimiche; vittime, bugie e balletti diplomatici

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/08/2013

Questa storia delle armi chimiche in Siria viene da mesi riproposta, con dati e immagini ogni volta angoscianti, tra denunce e smentite sempre dubbie. Di certo, ci sono solo  le vittime: la verità, che non emerge mai certa; e i civili, che sotto le bombe restano, chimiche o convenzionali che siano, sparate per cinismo da un regime che si sente sicuro dell’impunità o per calcolo da ribelli che, in difficoltà, cercano d’esporre il presidente al-Assad alla reazione internazionale.

Anche stavolta, la denuncia fatta mercoledì da attivisti anti-regime di un attacco al gas nervino, che avrebbe fatto centinaia di morti, fino a 1600, anche donne e bambini, a Est del centro di Damasco, sbatte contro gli atteggiamenti preconcetti della diplomazia internazionale. Eppure, le testimonianze sono numerose e drammatiche: ad Arbin, “l’odore di putrefazione” emana dalle case di centinaia di famiglie “morte nel sonno”; e c’è chi racconta di vittime spentesi “in silenzio”, gli occhi bruciati, un rivolo di sangue raggrumato sotto le narici.

La Francia, che è la più ostile ad al-Assad, è già pronta a rispondere con la forza –ma senza l’invio di uomini sul campo-, se l’uso di armi chimiche è provato. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno già conferme dell’impiego del gas letale, scrive il Washington Post, ma evitano di varcare la linea dell’intervento tracciata proprio dal presidente Obama, se il regime facesse ricorso ad armi di distruzione di massa.

L’altra notte, all’Onu, il Consiglio di Sicurezza, convocato d’urgenza –una riunione straordinaria non si nega mai- s’è limitato ad affermare una lapalissiana ovvietà: sui presunti attacchi chimici compiuti in Siria ci vuole “la massima chiarezza". Ma i 15 Paesi del governo mondiale non trovano neppure l’intesa per lanciare formalmente un’inchiesta, nonostante gli ispettori dell’Onu siano giù sul posto: Russia e Cina, due dei cinque con diritto di veto fra i 15, vicini ad al-Assad e sempre poco inclini a dare credito a oppositori e ribelli, non ne vogliono sapere. All’estremo opposto, Israele denuncia l’inazione della comunità internazionale contro il regime siriano e vede in quanto avviene a Damasco un “banco di prova” dell’aggressività dell’Iran.

Forte del sostegno dell’Ue, che vuole un'"inchiesta immediata e approfondita'', la Francia ha ieri insistito: il presidente Hollande chiama il segretario generale dell’Onu Ban Ky-moon, che condivide l’esigenza di investigare “senza indugio" sul possibile utilizzo di armi chimiche in Siria. Ban invia ad al-Assad una richiesta formale perché il team di ispettori già' sul posto possa accedere ai luoghi della strage denunciata e si aspetta una risposta positiva "senza indugi". Una posizione condivisa dal ministro degli Esteri italiano: per Emma Bonino, ''bisogna premere affinché gli ispettori in loco siano autorizzati a fare una valutazione terza e neutra; poi vedremo''.

L’asserito attacco al gas nervino riporta in primo piano il conflitto siriano, da settimane offuscato sulla stampa internazionale dalle vicende egiziane. Più che gli scontri, le vittime, i profughi, avevano fatto notizia, negli ultimi giorni, gli attacchi di presunti hackers ‘lealisti’ ai siti di NYT e WP e, in Italia, la sorte tuttora incerta di padre Dall’Oglio.

giovedì 22 agosto 2013

Egitto: Ue, una risposta alla crisi da minimo sindacale

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/08/2013

La risposta dell’Ue al dramma dell’Egitto è da minimo sindacale. L’Europa blocca le forniture d’armi al nuovo regime, ma i singoli Paesi decideranno ciascuno per conto proprio come e quando procedere all'embargo. E l’Ue non chiude il rubinetto degli aiuti, anche se, naturalmente, s’impegna e elaborare un nuovo approccio al mondo arabo: tempi lunghi, mentre la tragedia incombe.

Catherine Ashton, l’impalpabile ‘ministro degli esteri’ europeo, esprime la forte condanna di “tutti gli atti di violenza" e denuncia come “sproporzionate” le azioni del regime. I Ventotto – afferma - "sono d'accordo a sospendere le licenze di esportazione di qualsiasi equipaggiamento che possa essere utilizzato per la repressione e a rivedere la loro assistenza al settore della sicurezza egiziano".

I ministri degli Esteri dei 28 si riuniscono a Bruxelles mentre dal Cairo arrivano notizie paradossali: agli arresti, c’è il presidente democraticamente eletto Morsi; e a giudizio, addirittura per tradimento, finisce l’ex vice-premier El Baradei, un amico dell’Occidente fattosi da parte dopo le stragi della scorsa settimana; mentre sta per uscire di prigione il ‘faraone’ Mubarak, il cui rovesciamento nel 2011 aveva segnato il culmine delle Primavere arabe.

Le sanzioni di natura economica non scattano perché, viene spiegato, l’Ue dal 2012 non dà più sussidi all’Egitto in modo diretto e vuole continuare a finanziare "il settore socioeconomico e la società civile", riservandosi "aggiustamenti" in linea con l'evolversi della situazione. Ma il segno che i 28 non sono uniti è che non c’è intesa neppure sulle indicazioni da dare ai turisti in partenza per l’Egitto: fonti italiane parlano della necessità “d’una riflessione di natura giuridico-legale”.

La sostanza è che l'Ue non vuole precludersi il dialogo con l'Egitto del generale al-Sisi, in attesa, magari, di capire come evolvono i rapporti di forza nel Paese arabo e nel Mondo musulmano; ee anche per evitare di vedere la propria influenza, già modesta, azzerata, a favore in particolare dell’Arabia saudita.

Emma Bonino, fautrice del blocco delle forniture d’armi –già attuato dall’Italia-, afferma che l’Ue  non ha a disposizione "la leva economica” e vuole che “i canali di dialogo restino aperti", in vista "di un riposizionamento e di un ripensamento" europei “indispensabili”, "alla luce dello scontro nella famiglia sunnita, che si aggiunge agli scontri tra sciiti e sunniti".

Per il ministro italiano, bisogna premere sul Cairo perché il regime rispetti i diritti civili. L'inchiesta sui massacri contro i Fratelli musulmani "va fatta con organismi internazionali", mentre le accuse ad el Baradei sono "poco motivate" e frutto di una "ritorsione". "Bisognerebbe basarsi sullo stato di diritto e sulle leggi, ovunque nel mondo: in Italia e altrove", dice e ribadisce la Bonino.

Sul dibattito egiziano s’è innestata, ieri a Bruxelles, la denuncia d’un nuovo episodio d’utilizzo d’armi chimiche da parte del regime siriano contro civili inermi: l’Ue, come gli Usa, condannano l’uso delle armi chimiche, ma attendono l’esito dell’inchiesta dell’Onu in corso per pronunciarsi.

martedì 20 agosto 2013

Egitto: ue, la tentazione di un colpo al cerchio e uno alla botte

Scritto per EurActiv il 20/08/2013

“La celerità della riunione di domani e i contatti a tutti i livelli che ci sono stati in questi giorni dimostrano che l'Europa non ha perso tempo" sulla crisi egiziana. Parole del viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, ospite oggi a Radio Anch'io su Radio1 Rai, nell’imminenza della riunione, domani, dei ministri degli Esteri dei 28.

In realtà, c’è l’impressione che, sulla crisi egiziana, l’Unione europea abbia dato un colpo di freno, dopo le prese di posizione della scorsa settimana, al culmine dell’emozione per la sanguinosa repressione compiuta dal governo ‘ad interim’ al potere dopo la destituzione del presidente eletto Mohamed Morsi e la sospensione della Costituzione.

Ministri degli Esteri, fra cui l’italiana Emma Bonino, avevano sollecitato una riunione d’emergenza ‘ad horas’ del Consiglio dell’Ue; e premier, fra cui l’italiano Enrico Letta, avevano pure prospettato un Vertice. Tutto s’è poi ridotto a un consulto preliminare, ieri, a Bruxelles, degli ambasciatori, che hanno preparato l’incontro dei ministri, senza ovviamente prendere decisioni.

Resta il rischio, in realtà, che l’Ue sciorini, domani, la propria impotenza e le proprie divisioni, anche se - dice Pistelli - il congelamento della vendita di armi e il blocco degli aiuti finanziari europei "restano ipotesi sul tavolo" della riunione dei ministri.

Dopo il consulto fra ambasciatori, l'inviato speciale della diplomazia europea per il Mediterraneo del Sud Bernardino Leon aveva ieri affermato che l'Ue vuole essere un "interlocutore chiave" e che prenderà decisioni "con l'obiettivo di trovare una soluzione politica" alla crisi egiziana. Ma c’è pure la tentazione di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, partendo dall’asserto che la violenza viene da tutte e due le parti, sia dal governo sostenuto dai militari che dai Fratelli Musulmani

Gli ambasciatori, ha spiegato Leon, hanno chiesto all’alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, di presentare un documento con le opzioni a disposizione per rispondere alla crisi. Tra queste, vi sono, effettivamente, la possibilità di porre un embargo alla vendita di armi al Paese e la sospensione degli aiuti economici.

A novembre l'Unione aveva presentato un pacchetto finanziario di cinque miliardi di euro destinato ad accompagnare la transizione politica ed economica egiziana. Per l’Ue, secondo Leon, il governo ad interim egiziano così come le forze armate hanno responsabilità importanti nella tragedia in atto, che ha già fatto centinaia e forse migliaia di morti tra gli oppositori. 

La Bonino intende battersi per una posizione unitaria favorevole all’embargo (la fornitura di armi all’esercito egiziano è già stata sospesa dall’Italia a giugno, prima della deposizione di Morsi). E, per la Bonino, ʺl’utilizzo brutale della forza da parte dell’esercito contro il popolo è inaccettabile e va deplorata senza mezzi terminiʺ.

Per il ministro, inoltre, il pugno di ferro contro i Fratelli Musulmani, annunciato dal comandante delle Forze armate Abdel-Fatah al-Sisi, potrebbe essere controproducente per la stabilità politica dell’Egitto:  sebbene esistano ʺprecise responsabilità dei Fratelli Musulmani’’, metterli al bando significherebbe "mandarli in clandestinità, rischiando di potenziarne l’estremismo’’.

lunedì 19 agosto 2013

Italia/Ue: Napolitano e Letta, discorsi tondi e vuoti di fine estate

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 19/08/2013 

La fine dell’estate - chè, dopo Ferragosto, non c’è niente da fare: ricomincia il campionato e finisce l’estate – ha come corollario il Meeting di Rimini e le feste dei partiti, che sono occasione e palestra di discorsi politici a tutto campo, tondi e vuoti, di quelli zeppi d’imperativi all’infinito, che poi tanto nessuno te ne chiede conto quando si tratta di passare dal dire al fare.

Ora, quest’anno per le cose italiane potrebbe essere un po’ diverso, visto che il governo ha infoltito la sua agenda di scadenze anticipare rispetto al solito trantran: su Imu ed Iva, ad esempio, tutto deve –pardon, dovrebbe- essere deciso entro il 31 agosto; e, subito dopo, si farà (forse) la legge elettorale. Bene: stiamo a vedere…

Sulle cose europee, invece, il momento è giusto per spararle grosse. Tanto, fino al 22 settembre, cioè fino alle elezioni politiche tedesche, l’Ue è ferma: non accadrà nulla. E, dopo il 22 settembre, sarà tutta un’altra Unione – o, magari, sarà la stessa -. Così, al Meeting dell’Amicizia, il premier Enrico Letta dice che “il 2014 può essere l’anno del nuovo inizio per l'Europa” –perché?, perché ci sono le elezioni europee e cambiano i Vertici delle Istituzioni?, o perché l’Italia avrà la presidenza di turno del Consiglio dei Ministri dell’Ue nel secondo semestre, quando le nomine in corso provocheranno una semi-paralisi dell’attività corrente?”-. E Letta aggiunge che l’Unione “deve aiutare a creare lavoro … ed essere diversa da quella che abbiamo osservato in questi anni di crisi”, che “bisogna cambiare le istituzioni”: "Non l'Europa del rigore e basta, ma l'Europa dei popoli, che costruisce risposte concrete ai bisogni e ai problemi veri delle persone”.

E il messaggio al Meeting del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ammonisce l’Unione a essere “unita, o la globalizzazione la sommerge”; vede un’Unione “malata di mancato sviluppo” che rischia di “perdere peso” -ma non l’ha già perso?- se non reagirà “all’impoverimento spirituale".

Sull’Europa, gli esercizi del presidente e del premier appaiono più di maniera che concreti e precisi: formule passepartout, che suonano bene a tutti e non infastidiscono nessuno. Letta, con l’ ‘Europa dei popoli’, ripropone una formula che di fatto non significa nulla, ma evoca l’ ‘Europa delle patrie’ ed è immediatamente gradita al centro-destra. Che, infatti, lo invita subito “a fare saltare il tavolo della retorica europeista”.

Era questo l’effetto voluto?, compiacere Cicchitto e Gasparri?, e lasciare insoddisfatti chi s’aspetta iniziative europee concrete e precise, da parte dell’Italia? Non è neppure trasparente l’insistenza sull’importanza del semestre di presidenza italiano: Napolitano pare evocarlo a riprova dell’esigenza di arrivarci con un governo saldo e sperimentato, cioè questo fra un anno; Letta, invece, alimenta attese di risultati che difficilmente potranno poi essere conseguiti, come se già sapesse che il peso d’eventuali fallimenti rispetto agli obiettivi ora indicati non ricadrà su di lui.

Il tutto sullo sfondo d’un ottimismo a 360 gradi condito di banalità (“Ci sono nuovi protagonisti dell’ordine mondiale”; e ancora “Un G20 sempre più determinante sulle grandi questioni globali”: ai primi di settembre, lo vedremo), imprecisioni (l’Unione bancaria è indicata come tema prioritario del semestre italiano, quando tutte le decisioni politiche dovrebbero essere prese quest’anno) ed esagerazioni. “Mi pare –dice ad esempio Letta- che le conclusioni del Consiglio europeo di giugno, con gli interventi per la lotta contro la disoccupazione dei giovani, segnino un cambio di passo": sei miliardi di euro in sette anni per 28 Paesi sono il “cambio di passo”?

Alla domanda se l’euro sia una sciagura, Letta risponde: "E' una sciocchezza: l'euro non lo è"; anzi, è “un tassello della più ampia e ambiziosa Unione economica e politica”, che, però, non c’è e di cui non si dice come realizzarla. Il premier preferisce volare alto e innescare una retorica europeista d’impronta democristiana: "Dobbiamo batterci per un'Europa che torni ad avere un'anima, che alimenti le speranze di centinaia di milioni di cittadini, che si configuri come la più alta e nobile idealità delle nostre generazioni. Più vicina ai cittadini, più efficiente, più coraggiosa. Un'Europa che non vive di procedure e routine, ma che si dà obiettivi e li realizza con serietà e tempestività".

Benissimo: belle parole e concetti tutti largamente condivisibili nella loro genericità. Un po’ fuffa: discorsi d’estate, appunto. Un giorno d’autunno il premier ci dirà che cosa vuole fare in concreto. Sempre che ne abbia il tempo: di dircelo e di farlo.

domenica 18 agosto 2013

Italia/Ue: Napolitano e Letta portano a Rimini un'Europa di maniera

Scritto per EurActiv il 18/08/2013

“L’Europa sia unita, o la globalizzazione la sommerge”, è il monito del messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Mentre il premier Enrico Letta, intervistato da Sussidiario.net, prima del suo intervento, spiega che ora serve "un'Europa diversa da quella che abbiamo osservato in questi anni di crisi": "Non l'Europa del rigore e basta, ma l'Europa dei popoli, che costruisce risposte concrete ai bisogni e ai problemi veri delle persone”.

Appena dopo Ferragosto, il Meeting dell’Amicizia di Rimini apre la stagione dei convegni politici di fine estate: occasione e palestra di dichiarazioni a tutto campo, spesso destinate a restare senza seguito concreto. Sull’Europa, gli esercizi del presidente e del premier appaiono più di maniera che ispirati a un’agenda precisa.

Napoletano parla di un’Unione “malata di mancato sviluppo”, che rischia di “perdere peso”, se non reagirà “all’impoverimento spirituale". Letta, con l’‘Europa dei popoli’, ripropone una formula molto vicina all’ ‘Europa delle patrie’ e immediatamente gradita al centro-destra. Che, infatti, lo invita “a fare saltare il tavolo della retorica europeista”.

Il premier dice che “per tornare a crescere non serve l'Europa del rigore e basta”; e aggiunge: “Mi pare che le conclusioni del Consiglio europeo dello scorso giugno, con gli interventi per la lotta contro la disoccupazione dei giovani, segnino un cambio di passo. In questa direzione vogliamo e possiamo continuare a insistere".

L’intervista di Letta ha toni ottimisti a 360 gradi: “L'Italia può farcela, questo è il messaggio". E spiega: "Dobbiamo prima di tutto avere maggiore fiducia in noi stessi. Uscire dalla cappa di sottovalutazione, autolesionismo, benaltrismo, che troppo spesso ci toglie ossigeno. Dimostrare all'Europa e al mondo che non c'è più bisogno che ci si dica di 'fare i compiti a casa'. I sacrifici li abbiamo fatti e li stiamo facendo non perché ci sia qualcuno a imporceli, ma perché siamo un Paese adulto che vuole ricominciare a costruire il futuro dei propri figli".

Per il premier, l'Italia puo' tornare a competere solo dentro un'Europa più solida e unita: "Ci sono nuovi protagonisti dell'ordine mondiale, un G20 sempre più determinante sulle grandi questioni globali, paesi emergenti che crescono sistematicamente a tassi a due cifre … L' Italia, da sola, non può semplicemente reggere questa rivoluzione. Può, invece, farcela e tornare a competere solo dentro un'Europa più solida e unita, anche e soprattutto sul piano politico”, “un'Europa diversa da quella che abbiamo osservato in questi anni di crisi".

E alla domanda se l’euro sia una sciagura, Letta risponde: "E' una sciocchezza: l'euro non lo è". E argomenta: "Il punto è che si tratta di un tassello della più ampia e ambiziosa Unione economica e politica. In questa prospettiva tutti gli strumenti adottati devono puntare diritto verso una maggiore integrazione. Penso, ad esempio, all'Unione bancaria. La stiamo sostenendo con grande convinzione e continueremo a farlo nei prossimi Consigli europei, ponendo poi il tema al centro del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Ue, l'anno prossimo".

"Dobbiamo batterci per un'Europa che torni ad avere un'anima, che alimenti le speranze di centinaia di milioni di cittadini - afferma Letta -, che si configuri come la più alta e nobile idealità delle nostre generazioni. Più vicina ai cittadini, più efficiente, più coraggiosa. Un'Europa che non vive di procedure e routine, ma che si dà obiettivi e li realizza con serietà e tempestività". Concetti tutti largamente condivisibili nella loro genericità, ma cui manca il complemento del ‘come’.

Egitto e Siria: vicende parallele, l'effimera Rau e i cruenti conflitti interni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/08/2013

Egitto e Siria, storie (a tratti) parallele di due Paesi chiave del Mondo arabo e del Medio Oriente, uniti per una breve stagione, ancora al tempo della decolonizzazione, dal progetto di quell’utopia panaraba inseguita soprattutto dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, ma pure accomunati, proprio in quegli anni, da un comune disegno anti-israeliano, quando il processo di pace doveva ancora emergere attraverso sanguinosi conflitti e cruente Intifada.

Oggi, l’Egitto e la Siria sono protagonisti paralleli di drammatiche vicende interne difficili da leggere, allo snodo tra stabilità ‘dinastiche’ e improbabili democrazie, dopo avere seguito, per mezzo secolo, parabole diverse: tendenzialmente filo-occidentale, e il primo disposto alla pace con Israele, l’Egitto; fredda con l’Occidente, e ancora in guerra con Israele, la Siria.

Nata ufficialmente il 1.o febbraio 1958, la Repubblica Araba Unita (Rau la sua sigla) era un'entità statale senza continuità geografica, creata dall'unione politica dell’Egitto e della Siria. Dopo poco, vi aderì lo Yemen del Nord –allora, il Paese era ancora diviso-, con una formula confederale più elastica (che prevedeva la denominazione di Stati arabi uniti).

Sulla carta, la Rau si proponeva di essere un nucleo che attraesse progressivamente altri Stati arabi. Ma l'esperimento naufragò presto, in capo a pochi anni, nel 1961, quando la Siria se ne staccò causa divergenze politiche con l'Egitto.

Del resto, l’iniziativa aveva traino e impronta egiziani: Nasser, l’uomo faro del Mondo arabo, e anche del movimento dei cosiddetti ‘non allineati’, ne era il presidente; Il Cairo la capitale. Il 10 aprile 1958, la RAU adottò una bandiera basata sul vessillo della liberazione araba, con l'aggiunta di due stelle verdi per rappresentare i due Stati. Curiosamente, la bandiera è tuttora quella nazionale siriana.

L'emblema della Rau riprendeva invece l' ‘aquila ayyubbide’ (l’aquila di Saladino), nel ricordo d’una dinastia che governò congiuntamente i territori egiziani e quelli siriani. 

Anche dopo la defezione della Siria, l'Egitto continuò a chiamarsi Rau e, ad esempio, a partecipare come tale ai Giochi Olimpici –la Repubblica araba unita esordì a Roma 1960-, fino al 31 dicembre 1971.

Il forte afflato panarabo della stagione nasseriana non si spense, tuttavia, con il fallimento della Rau e rimase in qualche modo vivo fino agli Anni Settanta. La Libia e il colonnello Muammar Gheddafi si proposero come continuatori del ruolo dell’Egitto ed epigoni di Nasser: la Tripoli ‘rivoluzionaria’ del primo Gheddafi appoggiava i movimenti di liberazione nazionale, come l’Olp di Yasser Arafat, e propose senza successo duraturo unioni politiche con Tunisia nel 1974, Ciad nel 1981 e Marocco nel 1984. Proprio nel segno e nel ricordo dell’intuizione nasseriana della Repubblica araba unita.

Anche se, a quel punto, il sogno panarabo era già da tempo tramontato, ammesso che l’utopia d’una concordia tra sciiti e sunniti abbia mai avuto fondamento nell’ultimo secolo.

sabato 17 agosto 2013

Egitto: il generale al-Sissi, i tanti volti d'un uomo per tutte le stagioni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/08/2013

Per settimane, è stato l’uomo più presente sui media egiziani e più intervistato da quelli esteri, tanto che i critici gli contestavano un ritorno al culto della personalità “come ai tempi d’Hosni Mubarak”, il ‘faraone’ deposto nel 2011.

Ma dopo che è scattata la repressione della protesta dei Fratelli musulmani contro la deposizione ‘manu militari’ del presidente eletto Mohamed Morsi, il generale Abdel Fattah al-Sissi è quasi sparito dalle cronache. Così come l’esercito non è stato coinvolto nei massacri, compiuti dalle forze di sicurezza del Ministero dell’Interno.

Al-Sisi è ricomparso ieri, dando ordine al Genio militare di ricostruire la moschea e la chiesa copta distrutte negli incidenti: un gesto di riconciliazione, nella carneficina.

Nato al Cairo il 19 novembre 1954, il generale al-Sisi, laureatosi nell'Accademia militare egiziana nel 1967, ha fatto la sua gavetta nella fanteria meccanizzata, senza mai combattere in conflitti. Sotto il regime di Mubarak, fu capo dell'intelligence e della sicurezza al Ministero della Difesa, addetto militare in Arabia Saudita, capo di Stato Maggiore e comandante della regione settentrionale militare, di stanza ad Alessandria, fino a divenire direttore dell'Intelligence militare.

Durante il periodo di transizione dal regime di Mubarak alla elezione di Morsi, il generale al-Sissi, visto da molti come l’uomo dei Fratelli nell’Esercito, è stato il più giovane membro del Consiglio supremo delle Forze armate egiziane. Dopo l'insediamento alla presidenza della Repubblica, Morsi, l’anno scorso, lo chiamò al Ministero della Difesa e lo volle a capo delle Forze armate, dopo avere mandato a casa tutti i più anziani capi militari, legati a Mubarak, compreso il presidente ad interim Mohamed Hussein Tantawi.

Vice-premier, ministro, capo delle Forze armate, è stato proprio il generale al-Sissi ad annunciare il 3 luglio la deposizione di Morsi e la sospensione della Costituzione. Un mese dopo, intervistato dal Washington Post, il nuovo ‘uomo forte’ egiziano negava di volersi candidare alla presidenza: “Non aspiro al potere”. Ma con lui gli americani mantengono il dialogo, sperando di pescare il jolly della stabilità.

Egitto: turisti sul Mar Rosso; i ministeri sorpresi, tardivo tamtam

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/08/2013

Forte, netto, l’allarme ai turisti scatta solo quando la repressione è divenuta carneficina e le vittime in tutto l’Egitto sono centinaia, forse migliaia. Fino alla vigilia di Ferragosto, malgrado la situazione fosse già precipitata, la Farnesina si limitava a consigliare ai turisti italiani di restare nei loro resort, quei villaggi per stranieri sul Mar Rosso fuori dal tempo e dalla realtà, e di evitare d’intraprendere escursioni all’interno del Paese. Dove, in passato, alle Piramidi come a Luxor o sul Nilo o altrove, non erano stati risparmiati attacchi cruenti ai malcapitati visitatori.

Ieri, il giro di vite: c’è stata una lunga riunione alla Farnesina con una task force dedicata, presente anche l’ambasciatore d’Italia in Egitto, Maurizio Massari, ed è emersa l’opportunità di sconsigliare “nuovi viaggi nel paese" insanguinato, dove si trovano circa 19 mila italiani. Il vice-ministro degli Esteri Marta Dassù dice: "Chi è nei resort a nostro avviso non corre pericoli, ma la situazione è sufficientemente grave e complicata per non prevedere nuovi viaggi".

L’ambasciatore Massari aggiunge: c’è “forte instabilità, estrema fluidità e pericolosità" ed è "molto difficile prevedere la durata della crisi". L'Ambasciata d'Italia “ha invitato tutti gli italiani in Egitto, residenti e non, a non muoversi e a rimanere all'interno dei villaggi almeno fin quando la situazione non consenta" di spostarsi.

Il sito della Farnesina Viaggiare sicuri aggiorna le raccomandazioni e sconsiglia i viaggi in Egitto "con destinazioni diverse dai resort situati nelle località turistiche del Mar Rosso", dove, comunque, potrebbero ugualmente "verificarsi dei disagi" (scontri e proteste sono segnalati vicino ad Hurgada, dove sono state rafforzate le misure di sicurezza). Come con un tardivo tamtam, anche i ministeri degli Esteri di Germania e Gran Bretagna e man mano molti altri mettono in allerta i propri cittadini. La Francia non ne esclude l’evacuazione. Gli Stati Uniti, i cui viaggiatori sono già oggetto d’un’allerta anti-terrorismo, invitano gli americani a lasciare l’Egitto e a non recarvisi.

I tour operator britannici contano ora circa 11.800 turisti in Egitto. Quelli tedeschi hanno cancellato tutti i pacchetti vacanza fino al 15 settembre. La Russia, che ha circa 50mila connazionali nel Paese, blocca la vendita di viaggi in quell'area. E c’è da chiedersi chi e perché continui a partire, potendo disporre di clausole di cancellazione delle prenotazioni.

Fra i Paesi europei ed occidentali, l’Italia è forse quello il cui ministro degli Esteri meglio conosce l’Egitto: Emma Bonino vi ha vissuto e possiede contatti e strumenti per anticipare l’evolvere della situazione. Ma Onu, Usa, Ue paiono avere poche frecce al loro arco: riunioni al Palazzo di Vetro del Consiglio di Sicurezza, discorso di Obama, consulto straordinario lunedì fra i leader Ue, ecco sciorinata tutta la panoplia dell’impotenza occidentale.

La reticenza, non solo italiana, a mettere in allarme i turisti ha due ragioni: la sensazione, o almeno la speranza, che i villaggi per stranieri sul Mar Rosso possano restare oasi di pace; e, forse, l’istinto di salvaguardare una delle poche risorse che l’economia egiziana ha in questo momento. Il turismo è un settore vitale per il Paese, con entrate pari all'11% del pil annuo.