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venerdì 31 luglio 2015

Usa 2016: repubblicani, Trump e la tentazione da indipendente

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net  il 31/07/2015

Si rincorrono le voci su una possibile candidatura come indipendente del miliardario americano Donald Trump, deluso dalla tiepida accoglienza del Comitato nazionale repubblicano (Rnc) alla sua discesa in campo, accanto ad altri 15 candidati, nonostante molti sondaggi lo vedano in testa fra i 15, però con un capitale di preferenze poco elastico –che non lo sceglie, non lo voterebbe mai-. In un'intervista al quotidiano The Hill, Trump ha accusato l'Rnc di essergli stato "poco di sostegno", diversamente da quanto accadeva quando era "un donatore" dei repubblicani. Sull’ipotesi di correre da outsider, Trump dice: "Dovrò vedere come mi trattato i repubblicani. Se non sono corretti, la prenderò in considerazione". Una sua candidatura indipendente dividerebbe il campo conservatore, tutto a vantaggio dei democratici.

Che i rapporti di Trump con il partito siano tesi non stupisce visti gli attacchi lanciati non solo contro gli altri candidati, ma anche contro icone repubblicane, come il senatore John McCain, candidato alla Casa Bianca nel 2008. "Non è un eroe di guerra", ha detto di lui Trump parlando nello Iowa: lo si considera tale solo "perché venne catturato" e tenuto prigioniero anni dai Vietcong. Anche la Casa Bianca è intervenuta per tutelare McCain.

E così Donald ‘il rosso’, solo per via dei capelli, s’è messo di traverso con i reduci, dopo essersi inimicato i ‘latinos’ sostenendo che gli immigrati clandestini in arrivo dal Messico sono “stupratori”. Un suo ‘sopralluogo’ a Laredo, sul confine, è stato contestato dal sindacato degli agenti di frontiera, che lo aveva inizialmente invitato.

Eppure, Trump nei sondaggi tiene: secondo un rilevamento Cnn/Orc, ha il 18% dei consensi nell’elettorato repubblicano, seguito da Jeb Bush al 15% e da Scott Walker al 10%. E il 22% ritiene che il miliardario possa ottenere la nomination, secondo solo a Bush. Ma la popolarità di Trump non s’estende all'intero elettorato: il miliardario esce perdente in un confronto con un democratico. Dove Hillary Clinton resta battistrada per la nomination con il 56% delle preferenze, mentre il senatore liberal del Vermont Bernie Sanders è in crescita dal 15 al 19%  e Martin O’Malley non decolla. (fonti varie – gp)

giovedì 30 luglio 2015

Germania. dall'unificazione a oggi, da Kohl alla Merkel, il ruolo nell'Ue

Intervento a www.radiocusanocampus.it il 29/07/2015

Intervento nel programma di Fabio Camillacci 'La storia oscura'

http://www.radiocusanocampus.it/podcast/?prog=483&dl=4067

mercoledì 29 luglio 2015

Italia/Ue: amb. Sannino, prossimo cantiere è Unione fiscale

Scritto per La Presse il 29/07/2015 

Il prossimo cantiere dell’Unione europea è l’Unione fiscale: lo prevede, senza esitazione alcuna, l’ambasciatore Stefano Sannino, rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue, secondo cui “c’è”, a Bruxelles e nelle capitali, un gradiente positivo della percezione dell’Italia in Europa.

La Presse ha incontrato l’ambasciatore Sannino a margine della Conferenza degli ambasciatori d’Italia nel Mondo, la cui 11° edizione s’è svolta a Roma lunedì e martedì: un appuntamento tradizionale e importante per la diplomazia italiana, che ha potuto ricevervi priorità ed indicazioni dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal presidente del Consiglio Matteo Renzi e dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.

L’ambasciatore Sannino, 55 anni, da due anni rappresentante permanente, è diplomatico di grandi e sicure esperienza e affidabilità. È stato a Palazzo Chigi, ha fatto lo sherpa per i G8 ed è stato direttore generale per l’allargamento alla Commissione europea. E’ uno degli italiani più ascoltati e stimati a Bruxelles.

D - L’accordo sulla Grecia per evitare il Grexit segna uno spartiacque, per l’Unione europea?

R – Non so se si può parlare di uno spartiacque, di un prima e un dopo l'intesa. Ma è vero che, in qualche modo, con la crisi greca, la questione istituzionale del governo dell'euro è arrivata al suo limite. Occorre completare l'Unione monetaria e l'Unione bancaria. E affrontare la questione della politica fiscale a livello europeo diventa ormai ineludibile. Cosi come affrontare le implicazioni sull'occupazione delle scelte di politica economica dell'Unione.

D – Che avviene, se non lo si decide?

R -  C'è una mancanza di chiarezza sugli obiettivi che vogliamo perseguire. Come ha sottolineato il presidente Renzi, l'Europa è sempre più percepita come una matrigna piuttosto che il luogo in grado di assicurare stabilità e prosperità. Se l'Europa non torna a svolgere questo ruolo, il rischio è che si sfarini il tessuto istituzionale dell'Unione europea: non è un caso che stiamo assistendo al risorgere di nazionalismi e inter-governativismi.

D – E in che direzione dovremmo muoverci?

R - Dobbiamo superare la visione di un'Europa che guarda solo alla disciplina di bilancio, senza sviluppare politiche che favoriscano la crescita e l'occupazione. Intendiamoci, mettere i conti in ordine, razionalizzare le spese, armonizzare le politiche economiche sono tutti obiettivi imprescindibili che vanno realizzati. Ma questo deve essere fatto senza mettere a rischio la crescita. E' questa la vera sfida dei prossimi mesi: i leader devono ragionare su quale strada intendono imboccare e percorrere

D – Pressoché completata l’Unione bancaria, quale è il prossimo cantiere dell’integrazione?

R – Il prossimo cantiere è l'Unione fiscale. Ma, prima, bisogna scegliere che tipo di politica fiscale si vuole fare. E qui ritorno al punto che ho appena sviluppato: come coniugare disciplina di bilancio e crescita.

D – Ma l’Unione fiscale non ci lascia ancora in un terreno lontano dalle sensibilità e dagli interessi  della gente comune?

R – Al contrario. Decidere le politiche fiscali significa fare scelte di politica economica e individuare quali leve azionare per raggiungere determinati obiettivi. Forse se  in Grecia ci fosse stata una attenzione maggiore a come fare il risanamento economico, e non solo agli aspetti puramente quantitativi, si sarebbe potuto prendere in considerazione anche l'impatto sociale di alcune misure e forse la situazione non si sarebbe così deteriorata.

D – Il cantiere delle risorse proprie, su cui sta lavorando il senatore Monti, si aprirà?

R – Credo di sì, nella misura in cui vogliamo dare al bilancio Ue una capacità di incidere. Ma bisogna parlare anche di qualità e di modalità della spesa europea, non solo di quali risorse attribuire all’Ue. L'approccio "pragmaticamente ambizioso" del Presidente Monti è intelligente ed è l'unico che può produrre un risultato.

D – C’è un gradiente positivo, nella percezione dell’Italia nell’Unione?

R - Sì. In passato, abbiamo avuto governi stabili, ma con poca spinta riformista; oppure governi con una volontà riformista ma che hanno operato in condizioni politiche particolarmente complesse. L'attuale governo ha una fortissima spinta riformista e la forza politica di attuare le riforme. E questo dà al governo italiano peso e credibilità in Europa.

martedì 28 luglio 2015

Italia/Germania: ambasciatore Benassi, Berlino guarda a Roma con fiducia

Intervista raccolta per La Presse il 28/07/2015

La Germania guarda all'Italia “con fiducia”: lo dice Pietro Benassi, ambasciatore d’Italia a Berlino, ricordando che l’interscambio tra i due Paesi è pari alla somma di quello dell’Italia con la Francia e la Gran Bretagna e che “l’enorme intensità del rapporto economico” italo-tedesco è anche “intessuta di complementarità”.

La Presse incontra l’ambasciatore Benassi a margine della Conferenza degli ambasciatori d’Italia nel Mondo: per la diplomazia italiana, l’evento, giunto all’11a edizione, è “un momento importante di ricarica intellettuale per mettere a fuoco le direttive di un Paese impegnato su molti fronti che non si sottrae alla domanda di politica estera, che ha capacità di presenza sui mercati esteri, che dispone di una forte diplomazia anche economica e culturale e che spesso ha molto da dire e deve trovare gli strumenti per farlo”.

Del rapporto europeo di Italia e Germania, Benassi, 57 anni, a Berlino dal settembre 2014, nota che i due Paesi sono sempre stati “all'avanguardia dell’integrazione europea”, sia sui processi d’approfondimento dell’integrazione che su singole politiche: “L’assonanza tra Italia e Germania è sempre stata forte in molti settori”.

E la complementarità economica fa sì che i successi economici e commerciali d’un Paese si riverberino sull'altro. L’ambasciatore ricorda che gli imprenditori tedeschi considerano oggi più facile investire in Italia, dopo che l’Italia, “un interlocutore storico anche per la consonanza degli interessi economici, ha impresso un indubbio dinamismo” alla propria azione.

Certo, l’Italia è stata vista, negli ultimi anni, come un Paese che s’è messo alla prova, approvando una serie di misure per modernizzarsi. “La Germania è consapevole delle riforme portate avanti”, che hanno ricevuto “pubblico riconoscimento dalla Merkel e da Schaeuble”. Berlino considera l’Italia “un Paese che ha intrapreso il cammino di modernizzazione con una celerità che impressiona positivamente”.

L’intensità dei rapporti conferma la qualità delle relazioni: il premier Renzi è appena stato a Berlino e la cancelliera Merkel sarà all’Expo dopo Ferragosto. Il che non impedisce alla Germania di avere un rapporto speciale con la Francia: “Ci mancherebbe che non fosse così, i primi a dispiacercene saremmo noi”. Una cosa diversa è “privilegiare in ambito europeo incontri a geometria variabile, perché bisogna prendere atto che le decisioni si prendono a 19 o a 28”, a seconda dei contesti.

E proprio sul fronte europeo, la crisi greca dimostra l’opportunità di una riflessione: “sta facendo aprire un dibattito in molti Paesi” e “stimola slancio al processo d’integrazione”, osserva Benassi, secondo cui “l’Europa vincerà se il punto d’atterraggio non sarà il prevalere di un’idea sull'altra”, ma una soluzione poggiata su stabilità e crescita. E l’eurozona può rivelarsi una palestra “per l’esercizio dell’integrazione”.

Per l’ambasciatore, la crisi dell’Ue è “una crisi di crescita”, in un momento di difficoltà “senza precedenti” per l’entità delle difficoltà all'interno e ai confini. Se la necessità di migliorare all'interno “la governance politica” mette in discussione “la tradizionale scelta dei piccoli passi” e impone di ritrovare “la spinta per crescere”, le sfide ai confini sono molteplici: il Mediterraneo e l’immigrazione, il Nord Africa del post Primavere arabe e il Grande Medio Oriente, il terrorismo e l’Ucraina.

Proprio su Ucraina e Russia, tra Italia e Germania c’è “una certa consonanza: noi abbiamo garantito che l’Unione parlasse con una voce sola e siamo tutti favorevoli all’attuazione di Minsk 2”, accordo che è “soddisfacente, al di là del metodo con cui è stato conseguito”.

Se l’Italia gode della fiducia della Germania, in Italia non mancano i critici della Germania. “Se c’è un affievolimento del sentimento comunitario –rileva Benassi-, riemergono sentimenti nazionali o nazionalistici; ed è inevitabile il ritorno degli stereotipi, non solo tra Italia e Germania, ma anche fra altri Paesi. Questo è un segno di crisi”.

lunedì 27 luglio 2015

Usa 2016: Hillary; Bengasi e mail, le insidie non finiscono mai

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/07/2015

Hillary Rodham Clinton comparirà il prossimo 22 ottobre davanti alla commissione d'inchiesta della Camera di Washington sull'attacco contro il consolato americano a Bengasi dell'11 settembre 2012, che costò la vita all'ambasciatore Usa in Libia, Chris Stevens, e ad altri tre cittadini statunitensi: lo ha annunciato giorni fa Nick Merrill, portavoce della campagna di Hillary per la nomination democratica. L'udienza sarà pubblica, non a porte chiuse. Una richiesta in tal senso era venuta dal presidente della commissione stessa, Trey Gowdy, deputato repubblicano per la North Carolina e membro dei Tea Party. L'ex segretario di Stato, che era in carica al tempo dell’assalto, ha discusso a lungo con la commissione della Camera per definire le modalità della propria audizione.

Proprio in questi giorni, la battistrada nella corsa alla nomination democratica è tornata sotto pressione per l'uso dell'account di posta elettronica privato mentre era alla guida del dipartimento di Stato. Sul New York Times, è spuntata pure l’ipotesi di un’inchiesta penale, ma il Dipartimento della Giustizia ha poi costretto il quotidiano a correggersi, smentendo ogni deriva penale.

Un'inchiesta non penale dovrà fare chiarezza sulle ombre che ancora avvolgono la vicenda e che riguardano, in particolare, la segnalazione da parte dell'intelligence di quattro e-mail contenenti materiale secretato e che richiedevano perciò una gestione particolare. Non è però chiaro se Hillary, che ha sempre sostenuto di non avere gestito informazioni riservate sull'account personale, fosse consapevole della natura riservata di quei contenuti, cioè se le informazioni nelle e-mail fossero state segnalate come segrete dal Dipartimento di Stato.

Nel caso l’inchiesta scagionasse l’ex segretario di Stato, lo ‘scandalo delle mail’ si sgonfierebbe, togliendo ai repubblicani un’arma con cui colpire Hillary quando sarà eventualmente diventata la candidata democratica alla Casa Bianca. (fonti varie – gp)

domenica 26 luglio 2015

Usa 2016: repubblicani, la carica dei quattro governatori

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/07/2015

I candidati repubblicani erano già una dozzina, ex governatori, senatori e un ex senatori, un magnate e una dirigente d’azienda e un neuro-chirurgo, tutti bianchi tranne un nero e tutti uomini tranne una donna. Mancavano all'appello i governatori, che sono un asso nella manica nelle presidenziali: nelle ultime dieci elezioni, dal 1976 ad oggi, sette volte l’eletto era un ex governatore, Jimmy Carter della Georgia, Ronald Reagan (due volte) della California, Bill Clinton (due volte) dell’Arkansas e George W. Bush (due volte) del Texas. Solo il padre di Bush, George, e l’attuale presidente Barack Obama sono arrivati alla Casa Bianca, negli ultimi quarant'anni, senza mai essere stati governatori. Poi, i governatori repubblicani sono scesi in lizza quasi quattro d’un colpo:  John Kasich dell’Ohio, 63 anni, il più inatteso; Scott Walker del Wisconsin, 47 anni; Bobby Jindal della Louisiana, 44 anni; e, primo della lista in ordine di tempo, Chris Christie del New Jersey, 52 anni. Walker e Christie non saranno delle meteore nella corsa, o almeno così si prevede; Kasich e Jindal non partono né favoriti né popolari, al di fuori del loro Stato. Vediamo in breve chi sono e come si sono presentati.

Christie, la speranza offuscata - "Io intendo ciò che dico e dico ciò che intendo. E' esattamente ciò di cui ha bisogno l'America": il governatore del New Jersey punta tutto sull'immagine di politico senza peli sulla lingua, perché "Verità e decisioni difficili oggi porteranno a crescita e opportunità domani", ha detto, annunciando la sua candidatura alla Linvingstone High School, il suo liceo. Poi, giù fendenti, contro i democratici ma anche i repubblicani. Considerato una speranza repubblicana, Christie vide le sue quotazioni calare vertiginosamente a inizio anno, dopo lo 'scandalo del ponte' che lo costrinse a pubbliche scuse e a licenziare la vice-capo del suo staff, Bridget Anne Kelly, che aveva tramato per danneggiare un avversario politico (il governatore era apparentemente estraneo alle mene). Ora, Christie parte in campagna con lo slogan ‘Tell it like it is’ –Di le cose come sono-, sostenendo che "entrambi i partiti hanno fallito nel nostro Paese" e prendendosela con i "leader litigiosi di Washington", ma soprattutto con "l'indecisione e la debolezza della Stanza Ovale", occupata da un presidente - Barack Obama - che vive "in un suo mondo, non nel nostro mondo". Per non parlare della battistrada democratica, Hillary Clinton, "ufficiale in seconda di Obama".

Jindal, l’indiano (non) d’America – I sondaggi non lo premiano: non gode d’un grande seguito nel suo Stato e non ha una grande riconoscibilità nell’Unione. Lui cerca di guadagnarsi attenzione con un linguaggio schietto e diretto e polemizzando con il favorito alla nomination, Jeb Bush. Chiosando un’affermazione di Jeb, secondo cui un candidato repubblicano doveva dimostrare coraggio, prendendosi il rischio di perdere le primarie per vincere le elezioni, Jindal afferma: “Jeb dice che dobbiamo essere in grado di perdere le primarie e di vincere le elezioni. Stiamo per aiutarlo a farlo". Diventato nel 2007 il primo governatore di origini indiane dell’Unione, Jindal ha fama di tecnocrate: "Ne abbiamo abbastanza di chiacchieroni a Washington, è tempo per un uomo d'azione"; e vuole accreditarsi come il candidato anti-establishment, che non ha nulla a che vedere con "i politici egoisti". Cresciuto da genitori induisti e convertitosi al cattolicesimo, Jindal ha l’appoggio dai conservatori cristiani, ma, nel tempo, ha perso credito in Lousiana. "Penso che nessuno, qui, creda che possa vincere" dice Roy Fletcher, un consulente politico repubblicano. Jindall è un sostenitore della "libertà religiosa" e del diritto di un cittadino di rifiutarsi, nell'ambito ad esempio della sua attività commerciale, di servire un omosessuale, rifiutandosi di preparare una torta nuziale.

Walker, un tweet per errore - Una problema tecnico su twitter ha anticipato l'annuncio formale della candidatura del governatore del Wisconsin: "Scott è sceso in capo. E tu? Entra oggi nella nostra squadra" diceva l'annuncio uscito, 48 ore prima del previsto, sul profilo di Walker, con sotto la sua foto e la scritta "Scott Walker corre per la presidenza. Unisciti a lui". Il ‘cinguettio’ è stato rapidamente rimosso, ma l’effetto sorpresa per il discorso a Waukesha, sobborgo di Milwaukee, era ormai svanito. Il che nulla toglie al potenziale da protagonista di Walker nella campagna. Salito alla ribalta delle cronache per le battaglie contro il sindacato, il governatore ha seguito un copione tradizionale: introdotto sul palco dalla moglie Tonette, sulle note di "Life is a highway" di Rascal Flatts, ha reclamato l'esigenza di un outsider a Washington. "Occorre una leadership che riesca ad ottenere risultati ed io - ha rivendicato - ho lottato contro i sindacati e vinto". salito alla ribalta delle cronache nazionali per le sue battaglie contro il sindacato, ha seguito il tradizionale copione. Introdotto sul palco dalla moglie Tonette - sulle note di ‘Life is a highway’ di Rascal Flatts -, ha affermato l'esigenza di un outsider a Washington. "Occorre una leadership che riesca ad ottenere risultati ed io ho lottato contro i sindacati e ho vinto … Serve una leadership con idee grandi e coraggiose, come quella che abbiamo nel Wisconsin". Predicando "la dignità che viene dal lavoro", Walker è contrario a ogni forma di stato sociale e all'aumento della paga minima. "Washington misura il proprio successo dal numero di persone che dipendono dal governo, mentre dobbiamo fare proprio l'opposto, cioè misurare il successo da quanti non dipendono dal governo". Walker sostiene la necessità di cancellare l'Obamacare, è a favore dell'oleodotto Keystone, è contro l’accordo sul nucleare con l’Iran. "Il mondo deve sapere che non c'é miglior amico o peggior nemico degli Stati Uniti d'America”.

Kasich che non t’aspetti – La candidatura del governatore dell’Ohio è stata una sorpresa: "Sono qui per chiedere le vostre preghiere, il vostro supporto e i vostri sforzi perché ho deciso di correre per la presidenza", ha detto il governatore di uno Stato spesso decisivo nella corsa alla Casa Bianca, formalizzando la sua candidatura. Kasich si presenta come un moderato, quasi un indipendente nell'affollato panorama repubblicano. Nella suo agenda, consolidamento fiscale ma anche programmi a sostegno dei più bisognosi. "Il sole sta sorgendo, ve lo assicuro: ho le capacità, ho l'esperienza e sono preparato al più importante lavoro del mondo", ha detto, ricordando di avere pure lavorato per Ronald Reagan quando era alla Casa Bianca. Ma ripercorrerne l’ascesa gli sarà difficile. (fonti varie - gp)

giovedì 23 luglio 2015

Usa 2016: democratici, Hillary corre (quasi) da sola, è a 360 gradi

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 23/07/2015 

Mentre i candidati repubblicani diventano una falange e si fanno la guerra fra di loro, Hillary Clinton resta praticamente senza avversari in campo democratico, dove nessuno s’è finora venuto ad aggiungere al senatore Bernie Sanders, 73 anni, e all’ex governatore Martin O’Malley, 52 anni, che paiono entrambi, per motivi diversi, non in grado di impensierirla nelle primarie. La Clinton continua a condurre una campagna con poca fanfara e molto lavoro sotto-traccia e, intanto, rimpingua le sue casse, in cui sarebbero già finiti 46 milioni di dollari (il 60% delle donazioni vengono da donne). La battistrada democratica interviene, tuttavia, su tutti i fronti dell’attualità nazionale e internazionale: partecipa, con Obama -e si trova d’accordo pure con Jeb Bush- a una polemica contro una ‘revisione’ della ricetta del guacamole proposta dal New York Times; polemizza con Donald Trump, un “amico” che sull’immigrazione l’ha “molto delusa”; soprattutto, prende le distanze da Obama in politica estera, perché con il presidente russo Vladimir Putin –dice- “dobbiamo essere più astuti” (sottinteso: cercare meno il confronto aperto), con la Cina dobbiamo essere “vigili” (sottinteso: fare meno i tappetini). Sull’accordo con l’Iran sul , Hillary cerca una sua via, senza schierarsi contro, ma senza avallarlo a pieno (con un occhio di attenzione a Israele, di cui condivide il timore che Teheran manterrà un atteggiamento aggressivo): l’intesa –dice- è “un passo importante”, ma lei da presidenre si terrà pronta a usare la forza per impedire all’Iran di avere la bomba. Ma, ovviamente, il bersaglio maggiore di Hillary resta il suo più probabile avversario repubblicano, Jeb Bush, con cui polemizza –in vita sua, dice, “Jeb non ha incontrato molti lavoratori”-, mentre annuncia che l’aumento dei salari sarà la missione della sua presidenza. (fonti varie – gp)

mercoledì 22 luglio 2015

Usa 2016: repubblicani, più gaffes fa più lontano Trump va

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/07/2015 

Più gaffes fa più lontano nei sondaggi va: almeno per il momento - ma siamo a oltre 15 mesi dall’Election Day -. Parliamo di Donald Trump: la competizione nel sovraffollato campo repubblicano – ben 16 candidati per una nomination - gira a vantaggio dello stravagante miliardario che ha una straordinaria capacità di fare notizia. Nel bene e nel male, ma tanto, vien da dire, che importa? Frasi shock sugli immigrati messicani “stupratori e trafficanti”, soldati e simboli nazisti nei suoi tweet, ogni gaffe lo rende più popolare, almeno nel senso di più noto all'opinione pubblica, che non sa neppure chi siano la maggior parte dei suoi rivali.  Secondo un sondaggio online Reuters-Ipsos, Trump ha il consenso del 15,8% degli elettori auto-definitisi repubblicani e tallona l'ex governatore della Florida Jeb Bush, figlio e fratello rispettivamente del 41o e 43o presidente degli Stati Uniti, attestato al 16,1%. Seguono il governatore del New Jersey Chris Christie, al 9,5%, e il senatore del Kentucky Rand Paul, all'8,1%.  Se la scelta viene limitata a tre candidati (su 16),  Bush, Trump e il senatore della Florida, Marco Rubio, il vantaggio per Bush è netto: 42%, a fronte del 28,4% di Trump e del 20% di Rubio. Invece, un sondaggio di UsaToday, parallelo all’ ‘incidente’ del tweet con soldati e simboli nazisti, subito addossato alla disattenzione di una giovane collaboratrice, colloca Trump al 17% dei consensi davanti a Bush al 14%. Nessun altro è in doppia cifra: il governatore del Wisconsin Scott Walker all’8%, il senatore del Texas Ted Cruz al 6% e Marco Rubio al 5% si avvantaggiano sul gruppone. Nessun osservatore crede davvero che Trump possa ottenere la nomination, ma di lui si parla ovunque, soprattutto per criticarlo: hackers avrebbero nel mirino le sue carte di credito, Miss Usa ne contesta affermazioni razziste, il presidente Obama e Hillary Clinton lo attaccano per le posizioni sugli immigrati e pure Jeb Bush e altri candidati repubblicani prendono le distanze da lui sull'immigrazione. Ma ‘Donald il rosso’, solo per via del colore dei capelli, fa il monello e, indispettito dalla critiche di uno dei rivali meno considerati, il senatore Lindsey Graham, ne rende noto il numero di cellulare: “chiamatelo”, suggerisce ai suoi fans. (fonti varie – gp

martedì 21 luglio 2015

Usa 2016: i repubblicani non finiscono mai, siamo a 16 -e, forse, ci fermiamo-

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 21/07/2015 

I governatori repubblicani fanno la fila per candidarsi alla nomination per Usa 2016: dopo quello del Wisconsin Scott Walker, sceso in campo la settimana scorsa, ecco quello dell'Ohio John Kasich. In tutto, fanno 16 candidati repubblicani, di cui quattro governatori in carica: a questo punto, lo schieramento, in vista del primo dibattito fra contendenti repubblicani, in calendario il 6 agosto, potrebbe essere completo. Anzi, dopo il 6 agosto c'è chi pronostica già dei ritiri, anche se l'estate pare molto presto per tirarsi indietro.

 "Sono qui per chiedere le vostre preghiere, il vostro supporto e i vostri sforzi perché ho deciso di correre per la presidenza", ha affermato Kasich, 63 anni, un assoluto outsider, nel discorso con cui ha formalizzato la sua candidatura. Kasich si presenta come un moderato, quasi come una voce indipendente nell'affollato panorama repubblicano e ha nel suo curriculum il consolidamento fiscale ma anche programmi a sostegno dei più bisognosi, bra. "Il sole sta sorgendo, ve lo assicuro: ho le capacità, ho l'esperienza e ho fatto i test che ti preparano per il più importante lavoro del mondo", ha dichiarato, ricordando di aver lavorato anche per l'ex presidente Ronald Reagan.

Ufficializzando la propria candidatura, Walker, 47 anni, uno che invece ha possibilità di successo, aveva detto, il 13 luglio, prima in un video e poi in un evento a Waukesha, appena fuori Milwaukee: "Ci sono. Mi candido alla presidenza perché gli americani meritano un leader che combatta e vinca per loro". Walker - molto apprezzato dall'ala conservatrice repubblicana – s’è fatto conoscere soprattutto per un durissimo braccio di ferro con i sindacati dei dipendenti pubblici, da cui è uscito vincitore. Eletto governatore nel 2010, ha ottenuto un secondo mandato lo scorso novembre. (Agi - gp)

lunedì 20 luglio 2015

Italia: Russia: amb. Razov, Italia non ponte, ma esempio a Occidente

Scritto per La Presse il 14/07/2015

Le relazioni tra la Russia e i suoi partner occidentali vivono una fase difficile, a causa, in particolare, della crisi ucraina. E anche il dinamismo dei rapporti tra Russia e Italia ne risulta frenato. Su questi temi, La Presse ha intervistato l'ambasciatore russo in Italia Sergey Razov.

1. Ambasciatore, come giudica l’attuale stato delle relazioni tra Russia e Italia?, ritiene che esse siano state danneggiate dalla crisi ucraina?

I rapporti tra Russia e Italia si basano su ricche e antiche tradizioni di amicizia, simpatia e rispetto reciproco, che da secoli esistono tra i nostri popoli. Rispondendo alla domanda, voglio citare il presidente della Federazione russa Vladimir Putin: queste relazioni, in realtà, hanno sempre avuto un carattere privilegiato sia in politica che in economia.

Se prendiamo in considerazione l’ultimo periodo, dopo la firma dell’Accordo di amicizia e cooperazione tra Russia e Italia, avvenuta il 14 ottobre 1994, i nostri legami sono stati elevati a un livello qualitativamente nuovo.

L’Italia è uno dei più importanti partner della Russia in politica europea e nella soluzione di problemi internazionali di attualità. In effetti, la cooperazione sulla scena internazionale si è tradizionalmente sviluppata in chiave costruttiva, tenendo conto degli interessi della controparte. Basti ricordare che è stato proprio il vostro Paese ad avanzare la proposta di creare il Consiglio Russia – Nato. Roma ha sempre apportato un contributo significativo allo sviluppo del dialogo tra Russia e Ue.

Parlando dell’economia, cito solo una cifra. Negli ultimi vent'anni l’interscambio commerciale russo-italiano è cresciuto di 11 volte, da 4,4 miliardi di dollari Usa nel 1994 a 48,4 miliardi di dollari Usa nel 2014.

Molte cose utili e positive sono state accumulate in altri settori, compresi gli scambi culturali e scientifici, quelli nel campo dell’istruzione, nei rapporti tra le regioni, le società civili e i cittadini dei nostri due Paesi.

Però negli ultimi tempi, a causa della pressione dell’Occidente sulla Russia per la crisi ucraina, il dinamismo della cooperazione russo-italiana è diminuito. Non si è riusciti a realizzare un’intera serie di importanti eventi bilaterali. L’interscambio commerciale si sta riducendo. E’ più che evidente che tale ordine delle cose non corrisponde agli interessi né della Russia né dell’Italia.

Al contempo non passa inosservata la posizione dei nostri partner italiani, che cercano di evitare un danno irreparabile alla cooperazione bilaterale reciprocamente proficua, che si è creata negli anni; esprimono interessamento alla conservazione del potenziale positivo, accumulatosi nei nostri rapporti; sottolineano la necessità di collaborare con noi ai fini della soluzione delle crisi e dei conflitti che ci sono nel mondo; dichiarano che non è possibile costruire l’Europa sulla base della sua contrapposizione alla Russia.

In questo contesto siamo soddisfatti che i leader dei nostri Paesi svolgano un dialogo proficuo e costruttivo. A partire dall'ottobre scorso il presidente della Federazione russa Vladimir Putin e il presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia Matteo Renzi si sono incontrati ben quattro volte. Nel corso della visita di lavoro del capo di Stato russo in Italia il 10 giugno scorso per la partecipazione al programma della Giornata nazionale della Russia all’Expo Milano 2015, nell'ambito della quale ha avuto un colloquio anche con il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, è stato confermato il reciproco desiderio di cooperare in diversi settori nonostante le condizioni attuali non molto favorevoli, che sono legate, tra l’altro, anche ai tentativi di alcuni paesi occidentali di non diminuire la pressione sanzionatoria sulla Russia.

Noi abbiamo tutte le ragioni per supporre che possiamo continuare a lavorare insieme in modo efficace in tutti i campi in cui ce ne sono le condizioni e l’interesse reciproco.

2. Quali sono le prospettive di sviluppo delle relazioni economiche e commerciali tra Russia e Italia?, pensa che esse siano sensibilmente compromesse dalle sanzioni in atto?

Obiettivamente, le prospettive sono favorevoli. La Russia e l’Italia sono tra le economie più grandi del pianeta, il nostro Paese è al primo posto per le dimensioni del suo territorio e le risorse, la partecipazione dei nostri Paesi a progetti d’integrazione di grande portata, come l’Unione economica euroasiatica e l’Unione europea, presenta ulteriori opportunità.

L’Italia è il quarto partner commerciale della Russia. Nel 2014 l’interscambio, come ho già detto, è ammontato ai 48,4 miliardi di dollari Usa, in calo però del 10% rispetto al record del 2013. Le esportazioni russe in Italia si sono ridotte del 9,1%, a 35,7 miliardi di dollari Usa, le importazioni dall’Italia hanno raggiunto i 12,7 miliardi di dollari Usa, il 12,6% in meno rispetto al 2013. In parte questo fenomeno è legato al calo dei prezzi degli idrocarburi - la maggiore componente delle esportazioni russe - e, certamente, anche alle sanzioni anti-russe dell’Ue e alle nostre contromisure.

Purtroppo, quest’anno le tendenze negative si stanno rafforzando: nei primi cinque mesi l’import italiano in Russia si è ridotto di circa il 30%, e già questa è una cifra seria. Si è quasi dimezzato l’import dei servizi, prima di tutto quelli turistici. E’ bruscamente calato il numero dei clienti russi nelle boutiques italiane, e l’ammontare medio del loro scontrino s’è dimezzato.

3. Perché le contromisure russe alle sanzioni europee penalizzano particolarmente l'export italiano?

Sono state discusse diverse varianti delle nostre contromisure. Posso dire con sicurezza che l’Italia non era il loro obiettivo principale. Ci sono altri Paesi più dipendenti dalle esportazioni verso la Russia e che nel contempo hanno una posizione tradizionalmente ostile nei confronti del nostro paese. I prodotti agricoli componevano fino al 40% delle loro esportazioni in Russia. Come ha dimostrato l’anno scorso, l’embargo sulle importazioni dei prodotti agricoli dall’Ue ha avuto un impatto positivo sulla produzione agricola non solo in Russia, ma anche in altri Paesi membri dell’Unione economica euroasiatica. Per quanto paradossale possa sembrare, ne hanno guadagnato anche alcuni produttori occidentali, ma solo quelli che avevano avviato la loro produzione in Russia, al riparo da sanzioni, contromisure, barriere fitosanitarie, volatilità del tasso di cambio ecc. Invito gli agricoltori italiani a seguire il loro esempio. In questo caso vorrei ricordare che la Russia possiede circa il 10% dei terreni arativi e quasi il 25% delle riserve mondiali d’acqua dolce. Al tempo stesso solo il 2% della popolazione del pianeta vive in Russia.

4. Pensa che l’Italia possa e debba svolgere un ruolo di ponte tra l'Ue e la Russia?, ritiene che non l’abbia fatto in modo adeguato dopo l'acuirsi della crisi ucraina?

Il concetto degli stati-ponti è bello a parole, ma temo che sia poco applicabile nella realtà. Crede veramente che la Russia e l’Ue abbiano bisogno di un mediatore? Siamo vicini, “condannati” alla coesistenza e al partenariato. La condizione fondamentale per questo è solo l’uguaglianza e il rispetto reciproco. Per quanto riguarda i settori di reciproco vantaggio, ce ne sono più che a sufficienza. E questa constatazione non diminuisce per niente il ruolo dell’Italia per il nostro Paese. I rapporti russo-italiani sono già un valore, si sviluppano nonostante i limiti posti da Washington e Bruxelles. Direi che l’Italia potrebbe essere non un “ponte”, ma un esempio positivo da seguire per molti Paesi occidentali.

5. Come la Russia intende uscire dall'attuale situazione di pressione e confronto con Usa, Nato e Ue sulla crisi ucraina?, che contributo può dare alla stabilità nel Grande Medio Oriente e alla lotta al terrorismo?

Noi, certamente, non possiamo essere soddisfatti dell’attuale situazione nei rapporti tra Russia e Occidente. Vediamo i tentativi di alcuni in Occidente di tornare ai tempi della Guerra fredda e delle linee divisorie in Europa: guardate le attività della Nato che concentra le proprie forze in uomini e mezzi e armamenti ai confini con la Russia. Bisognerebbe raffreddare il “fervore militare” e occuparsi dei problemi della completa realizzazione degli Accordi di Minsk. Non si deve inventare niente: tutto è stato già inventato a Minsk.

Quanto al Medio Oriente, la leadership russa ha più volte sottolineato la minaccia da parte del cosiddetto “Stato islamico”. Riteniamo che la maggior parte del lavoro contro il terrorismo vada effettuata nell'ambito dell’Onu. E’ ben noto, che qualche tempo fa il nostro Paese ha promosso l’iniziativa dell’esame onnicomprensivo sotto l’egida dell’Onu dei problemi del terrorismo in tutte le sue dimensioni in Medio Oriente e Nord Africa. Spero che questa idea si svilupperà nel corso della presidenza russa del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel settembre prossimo.

Tramite i canali bilaterali la Russia aiuta i governi dei Paesi colpiti da Daesh, ossia dell’Iraq e della Siria. Siamo disponibili a collaborare su questo problema con tutti gli Stati in base al diritto internazionale.

domenica 19 luglio 2015

Iran: nucleare, Khamenei contro "arroganza" Usa; Obama ha "opzioni militari"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/07/2015

Fortuna che l’accordo sul nucleare di martedì a Vienna aveva dissolto, o almeno dissipato, 36 anni di profonda inimicizia fra Teheran e Washington!, ché, se non fosse stato così, chissà che cosa avrebbe detto ieri degli Stati Uniti la guida suprema, l’ayatollah Ali Khameney, che, in un discorso per la fine del Ramadan, chiarisce come l'opposizione iraniana all' "arroganza" americana non cambi per l’intesa raggiunta con i ‘5+1’.

Il discorso, pur virulento, non muta la sostanza delle cose – l’intesa c’è e Khameney non intende e metterla in discussione -, ma , probabilmente, risponde a due esigenze, diverse ma convergenti: una è religiosa, perché il Ramadan suscita sempre pulsioni integraliste e fondamentaliste –ed è segnato, nella sua chiusura, come lo era stato all'inizio, da una scia di sanguinosi attentati nel Mondo arabo-; e una è politica, perché la guida suprema deve fare qualche concessione ai conservatori che vedono nel baratto ‘nucleare – sanzioni’ una vittoria dei riformisti.

Quella di Khamenei è un po’ la stessa logica per cui, venerdì, la Casa Bianca aveva voluto dire che “le opzioni militari contro l’Iran restano aperte dopo l'accordo” di Vienna, che anzi “le ha potenzialmente ampliate”, secondo il portavoce Josh Earnest, anche se gli Stati Uniti – bontà loro – “privilegiano la diplomazia”. Le frasi di Earnest erano complementari a un appello al Congresso, perché approvi l'intesa di Vienna, in assenza del quale l’Iran diventerebbe un "porto franco", potrebbe dotarsi dell’atomica e continuare a sostenere organizzazioni terroristiche senza pagare scotto alcuno, perché le sanzioni già ci sono: un colpo al cerchio e una alla botte, per convincere repubblicani guerrafondai e democratici riluttanti. Anche se, nel messaggio del sabato, Obama difende l’intesa: “Non devo chiedere scusa a nessuno per averla conclusa”.

Del resto, in diplomazia, si sa, non sempre si dice qual che si pensa. Il ministro degli esteri saudita, Adel Al-Jubeir, ad esempio, in visita alla Casa Bianca, ha ufficialmente espresso “soddisfazione” per l'accordo sul nucleare . Ora, se c’è qualcuno cui il riavvicinamento tra Teheran e Washington non piace, a parte Israele, è proprio Riad.

Per attutire le riserve saudite e delle monarchie del Golfo, Obama ha riunito un Vertice con i leader del Consiglio di Cooperazione del Golfo, a Camp David, e s’è impegnato "a rilanciare ulteriormente la già stretta e duratura partnership” con l’Arabia saudita, “rafforzandone le capacità di sicurezza". Il segretario alla Difesa Usa Ashton Carter visiterà l’area la prossima settimana.

Insomma, i toni e gli accenti cambiano, a seconda dei momenti e degli interlocutori. Khamenei, ieri, ha insistito che l’Iran rimane contro la politica statunitense in Medio Oriente: l'accordo sul nucleare non cambierà, dunque, l’atteggiamento iraniano nei confronti di Siria e Iraq e dei "popoli oppressi" di Yemen e Bahrein –Paesi entrambi terreno di aperto confronto tra sciiti e sunniti, appoggiati rispettivamente da Teheran e Riad-, o dei “combattenti sinceri della Resistenza in Libano e Palestina” – e qui i timori di Israele, qualificato di “terrorista”, trovano un avallo -.

Khamenei ha inoltre esortato il Parlamento iraniano a esaminare con attenzione il testo dell'intesa, per verificare che effettivamente tuteli gli interessi nazionali, senza disattendere i principi della rivoluzione islamica né depotenziare le capacité militari e difensive della repubblica teocratica. Washington -ha aggiunto l’ayatollah- vorrebbe la "resa" dell'Iran: Teheran non vuole la guerra, ma, qualora ci fosse, gli Stati Uniti ne uscirebbero "umiliati".

La guida suprema parlava alla preghiera dell’Aid-el-Fitr, in una moschea di Teheran, mentre la folla dei fedeli accoglieva le sue parole con i tradizionali slogan anti-occidentali, "Morte all'America" e "Morte ad Israele ". Khamenei non ha però trascurato di fare l’elogio dei negoziatori di Vienna, dicendo: “Abbiamo trattato con gli Stati Uniti, ma sulla base dei nostri interessi. Le politiche Usa nella regione sono diametralmente opposte alle nostre".

E agli americani che “sostengono di aver impedito all'Iran di acquisire la bomba atomica", l’ayatollah replica: "Sanno che non e' vero. Noi abbiamo una 'fatwa', secondo cui le armi nucleari sono proibite dalla legge islamica. E questo non ha nulla a che vedere con i negoziati di Vienna". Allora, però, nove anni di trattative non si spiegano, se una ‘fatwa’ garantiva l’Occidente.

sabato 18 luglio 2015

Terrorismo: Usa; Chattanooga, l'incubo del 'lupo solitario', quando il killer è fra noi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/07/2015

Finora, Chattanooga per gli italiani era solo l’improbabile parte dell’ancora più improbabile titolo d’una canzone, Chattanooga Choo Choo - noi diciamo Ciù Ciù -, registrata dalla Grande Orchestra di Glen Miller e divenuta la colonna sonora di Sun Valley Serenade, una di quelle commedie rosa con Sonja Henie di moda negli Usa nell’estate del 1941, pochi mesi prima di Pearl Habor. Poi, sarebbe stata guerra anche per l’America: Glen Miller, arruolatosi, morì, abbattuto sulla Manica, forse da fuoco amico, nel dicembre del ’44, mentre andava a dirigere il concerto per la liberazione di Parigi dai nazisti.

Dalla scorsa notte, Chattanooga, Tennessee, è entrata nella geografia del ‘terrorismo domestico’ degli Stati Uniti: l’ennesima ‘bandierina da strage’ sulla mappa dell’Unione, dove sono un’infinità, luoghi di lavoro, scuole, chiese, teatri, Neppure la scena è inedita: una base militare, come già avvenuto più volte in passato, anche dentro il blindatissimo Fort Hood a San Antonio in Texas; anche in un accampamento nel Kuwait fra le truppe che nel 2003 si preparavano a invadere l’Iraq.

Un ‘lupo solitario’, Mohammod Youssuf Abdulazeez, originario del Kuwait, ha ucciso 4 marines ed è stato a sua volta abbattuto, anche se le circostanze della sua morte non sono chiare. Il giovane, 24 anni, “ha agito da solo”, ha detto lo stesso presidente Barack Obama, che ha voluto essere informato sull’andamento delle indagini. Abdulazeez non era sotto la lente dell’Fbi, che in passato aveva invece indagato sul padre, nato in CisGiordania e sospettato d’appartenere a sigle terroristiche. Non è al momento emerso un collegamento tra la strage e la fine del Ramadan, che è stato di sangue dal Kuwait alla Tunisia passando dall’Egitto.

Secondo la polizia federale, non c’erano contatti tra il giovane musulmano omicida e gruppi terroristici internazionali, anche se si sa di un viaggio del giovane in Giordania l'anno scorso, quando avrebbe forse fatto tappa nello Yemen, dove molti neofiti del terrorismo vengono addestrati. Il procuratore federale Bill Killian si limita a parlare di “terrorismo domestica” e l'Fbi cerca d’individuare il movente. Su twitter, il sedicente Stato islamico inneggia alla sparatoria, ne posta immagini e minaccia altre azioni, ma non rivendica l’operato di Abdulazeez, che non avrebbe dunque agito seguendo direttive del Califfo.

Nelle stesse ore, una giuria del Colorado emetteva il verdetto contro James Holmes, che nel 2012, vestito da Joker, fece una strage in un cinema di Aurora, sobborgo di Denver, capitale dello Stato. Holmes è stato riconosciuto colpevole di omicidio di primo grado e rischia la pena di morte, che, nel Colorado, è stata inflitta una sola volta negli ultimi 38 anni-. Armato di tutto punto, Holmes, che allora aveva 24 anni, irruppe alla prima notturna di un film di Batman, uccise 12 persone e ne ferì altre 70.

Tutto questo nel giorno in cui, per la prima volta, un presidente Usa visitava un carcere federale. Obama ha scelto la prigione di El Reno, in Oklahoma, per denunciare la situazione “insostenibile” delle carceri statunitensi e per dire che bisogna dare una "seconda possibilità" ai detenuti. Obama è pure entrato in una delle celle e ha incontrato sei detenuti per reati di droga. "Sono giovani che hanno fatto errori non diversi da quelli che ho fatto anch'io", ha commentato il presidente, che fece uso di droghe da giovane: "La differenza è che loro non hanno avuto una struttura di sostegno, risorse per riscattare gli errori". Obama vuole riformare la giustizia e distinguere i criminali violenti dai giovani che provengono da famiglie disagiate e che vengono arrestati per reati di droga.

Non era questo il background del killer di Chattanooga, nato in Kuwait 24 anni fa e arrivato in Usa ancora bebè con la famiglia, subito dopo l'inizio della Guerra del Golfo. Cresciuto nell'ambiente della classe media musulmana e conservatrice, era cittadino americano ed era laureato in ingegneria elettronica. In una foto del liceo, appare senza barba con una didascalia da adolescente dell’America ‘post 11 Settembre’: "Il mio nome desta l'allarme sicurezza nazionale. E il tuo?". Di recente, nel suo blog, Abdulazeez aveva scritto che la cita è "corta e amara" e che i musulmani "non devono perdere l'occasione di sottomettersi ad Allah": un po’ poco per leggervi una premonizione dell’attacco letale di giovedì.

Grecia/Ue: Gozi, l'Italia contò nella notte che poteva finire l'Unione

Scritto per La Presse il 17/07/2015

“Non è vero che l’Italia non conta, non è vero che non siamo stati ascoltati”, nel negoziato maratona che ha condotto all’accordo sulla Grecia fra i leader dell’Eurogruppo, in quella drammatica notte ‘che poteva finire l’Unione’ tra domenica e lunedì. Lo testimonia Sandro Gozi, sotto-segretario agli Affari europei, uno che c’era, tutte quelle 18 ore accanto al premier Matteo Renzi nella grande sala del Consiglio europeo.

Gozi ricostruisce quei lunghi momenti tesissimi: “Tredici su 19 erano pronti a fare uscire la Grecia dell’euro, due stavano a guardare, tre erano contro, Cipro, la Francia e l’Italia”. E, alla fine, i 13 hanno seguito i tre: “Non ci interessa starlo a raccontare, ma loro, i greci, lo sanno e gli altri pure”, dice il sotto-segretario, che si lamenta della ‘narrazione’ di quella trattativa uscita sui media italiani.

L’occasione è un incontro con ‘europeisti doc’ organizzato da Università per l’Europa, una creatura del professor Francesco Gui, presso l’Aiccre, sezione italiana del Consiglio di Comuni e Regioni d’Europa, nella sede su Fontana di Trevi, lo stesso palazzo dove abitava il presidente Pertini. Confronto ristretto, con Carla Rey, segretaria generale dell’Aiccre, in regia.

Per Gozi, “Ci sono i presupposti perché la crisi greca diventi uno spartiacque europeo”: ce ne sono stati altri nella storia dell’Unione; e spesso ne sono venute spinte ad approfondire l’integrazione. Perché “l’Europa deve diventare un movimento più ampio, se no soccombe”.

L’Italia, ricorda il sotto-segretario, ha proposte su come approfondire la governance dell’Eurozona, ben più ambiziose di quelle contenute nel documento presentato a giugno dai cinque presidenti delle Istituzioni comuni. L’idea è di utilizzare lo strumento della cooperazione rafforzata e di rivedere parti dei Trattati, facendo, di qui al 2017, uno slalom tra le scadenze istituzionali ed elettorali, come il referendum in Gran Bretagna, le presidenziali francesi, il 60° anniversario dei Trattati di Roma.

L’urgenza è evitare che “il tema della democrazia europea sia preso in ostaggio dagli euro-scettici” e riuscire ad “uscire dalla stretta micidiale tra burocrazia e populismo”: “L’anti-politica s’è trasferita quasi per sillogismo all’Europa, in una sfida di cui Ue è in parte complice e in parte vittima”.

Complice perché sulla Grecia l’Unione ha fatto “grossi errori”, perché il decennio a guida Barroso “non è stato fra i più felici dell’integrazione”. Vittima, perché “in assenza dell’Europa di cui c’è bisogno prosperano i nazionalismi e i populismi, che sono emanazione sia dell’Europa che non c’è che dell’Europa che c’è”.

“Non è nell’interesse dell’Italia che l’Unione perda dei pezzi”, assicura Gozi: “Abbiamo in comune la moneta, il mercato, la libera circolazione, ma non abbiamo un metodo democratico per gestire insieme questi beni. E le legittimità nazionali finiscono l’una contro l’altra: 11 milioni di greci non possono decidere per 350 milioni di europei; e i voti dei Parlamenti tedesco e finlandese non sono meno democrazia del referendum in Grecia. Ci vuole un metodo di governo dei beni in comune: è un punto fondamentale”, che non può essere interamente affrontato e risolto né in via comunitaria né in via inter-governativa.

Problemi di efficienza, di trasparenza, di governance democratica. Ad aggravare la situazione, testi spesso incomprensibili, “massima espressione dell’approccio tecnocratico alla prima fase della crisi” scoppiata nel 2008. Ma Gozi vede una speranza negli “elementi migliorativi presenti nel documento finale” della maratona negoziale del 12 e 13 luglio: anche quel brutto accordo può contenere germi d’un’Europa migliore.

venerdì 17 luglio 2015

Grecia/Ue: dall'orlo del baratro alla soglia della normalità, troppo presto

Scritto per La Presse il 16/07/2015

Dall'orlo del baratro alla soglia della normalità, il passo per l’Ue è breve: dopo il sì alle riforme del Parlamento di Atene, l’eurocrazia ritrova la certezza delle sue regole e, soprattutto, la sicurezza delle sue procedure, mentre la politica pare quasi mettersi cheta, come se l’Unione europea non avesse più un problema greco. Quasi di colpo, la tempesta continentale si riduce a una mareggiata nell'Egeo, che può ancora fare danni, ma al più dentro il governo Tsipras.

Arriva l’ok al prestito ponte, si mettono in moto i meccanismi burocratico-istituzionali, la ritualità delle scadenze del debito (che saranno rispettate). Certo, tutti sanno che a ottobre, o a gennaio, c’è la possibilità di ritrovarsi con impegni non rispettati da parte della Grecia, riforme non fatte, ritardi e reticenze.

Ma oggi è il giorno della fiducia ostentata. Il dibattito diventa un esercizio da economisti, con l’Fmi che gioca a fare il guastafeste sfornando documenti e dichiarazioni in apparente contraddizione con l’accordo di lunedì fra i leader dell’eurozona.

A complicare le cose, c’è uno sfasamento fra l’informazione americana e quella europea. Il Fondo, secondo il New York Times, “sta dicendo all'Europa che l'euro, così com’è, non funziona”. Le tre alternative delineate dall’Fmi per garantire la sostenibilità del debito greco conducono tutte all'Unione economica europea, in cui i Paesi più ricchi paghino per sostenere l'economia greca. ''Non é una coincidenza –osserva il giornale- che questa soluzione è quella che molti economisti suggeriscono da tempo all'Europa come unica strada per salvare l'euro”.

Una strada che i politici sono però riluttanti a imboccare. E’ un cane che si mangia la coda: un’Unione poco efficiente e macchinosa perde credito presso i cittadini; e i leader non sono convinti che investire in essa sia una buona opzione per la loro popolarità; e così l’Unione perde ulteriormente efficienza e credito.

Ma neppure gli economisti offrono ai politici indicazioni univoche. Prendiamo ad esempio il taglio del debito greco: c’è chi lo giudica indispensabile e chi, specie in Germania, non ne vuole sentire parlare. Anche se l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi ricorda che, nel 1953, gli Stati Uniti e le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale tagliarono il debito proprio della Germania per consentirne la ricostruzione e la ripresa.

Ci sono i presupposti perché la crisi greca diventi uno spartiacque europeo, rileva il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi, che difende il ruolo dell’Italia nel Vertice dell’Eurogruppo, quello che, tra domenica e lunedì, ha prodotto l’attuale accordo: ce ne sono stati altri nella storia dell’Unione; e spesso ne sono venute spinte ad approfondire l’integrazione.

L’Italia, ricorda Gozi, ha proposte su come approfondire la governance dell’Eurozona, ben più ambiziose di quelle contenute nel documento presentato a giugno dai cinque presidenti delle Istituzioni comuni. L’idea è di utilizzare lo strumento della cooperazione rafforzata e di rivedere parti dei Trattati, facendo, di qui al 2017, uno slalom tra le scadenze istituzionali ed elettorali, come il referendum in Gran Bretagna, le presidenziali francesi, il 60° anniversario dei Trattati di Roma.

L’urgenza, per Gozi, è non lasciare che “il tema della democrazia europea sia preso in ostaggio" dagli euro-scettici e dagli euro-critici.

giovedì 16 luglio 2015

Iran: nucleare, per la pace, ma pure per gli affari, con l'Italia in prima fila

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/07/2015 

Per la pace. Contro il terrorismo. Ma anche per gli affari. L’accordo sul nucleare tra l’Iran e i ‘5+1’ ha valenze politiche e diplomatiche “storiche”, ma pure economiche e commerciali. Che si declinano a livello europeo e planetario, ma che hanno una rilevanza particolare per l’Italia, da sempre uno dei Paesi più attivi nell’interscambio con l’Iran, nonostante contenziosi commerciali che risalgono ai tempi dello Scià e della rivoluzione khomeinista.

Il giorno dopo la “storica” intesa, l’eccitazione diplomatica resta molto alta. Anzi Obama, dopo una partenza in sordina, per non irritare troppo Israele e i sauditi, in un’intervista al NYT si ‘gasa’: si paragona in politica estera, pur con molti distinguo, a Nixon –distensione con la Cina- e a Reagan –vittoria nella Guerra Fredda- e manda dagli alleati Jimmy Carter –lui, il presidente della presa di ostaggi all’ambasciata degli Usa a Teheran nel 1979-..

L'accordo sul nucleare –spiega Obama- non si misura sulla "capacità di cambiare il regime in Iran" né di "eliminare tutte le loro scellerate attività nel mondo", ma "sulla sua efficacia nell’impedire" a Teheran "d’avere la bomba atomica". E il presidente Obama elogia il ruolo della Russia e di Putin, che lo ha “sorpreso”: "Non avremmo mai raggiunto l’intesa, se non ci fosse stata la volontà della Russia di stare con noi e di insistere per un accordo forte".

Magari, con la pace tra Usa e Iran, riscoppia pure quella tra Usa e Russia, che ha nell’Iran un interlocutore economico e commerciale importante –la tecnologia nucleare civile iraniana è tutta russa-, ma che può anche avervi un concorrente sul mercato energetico.

Anche il giudizio, molto positivo, dell’Ue sull’intesa ha risvolti economico-energetici: l’accordo –osserva il responsabile del settore Maros Sefcovic- avrà “un impatto positivo” sul mercato europeo dell'energia e contribuirà alla strategia di diversificazione delle fonti d’approvvigionamento. Il responsabile dell’ambiente Miguel Arias Canete aggiunge: "L'Iran è al quarto posto al mondo per riserve di petrolio e al terzo per quelle di gas. L’intesa darà enormi opportunità all'industria e alla sicurezza degli approvvigionamenti".

Più difficile da determinare l’impatto sui prezzi, che sono eccezionalmente bassi per scelta dell’Arabia saudita e dei suoi partner. Ma Riad non è affatto entusiasta della riammissione di Teheran nel salotto buono della politica internazionale e resta da vedere come reagirà, politicamente ed economicamente.

Intanto, il gotha della finanza e dell’industria italiana è ai blocchi di partenza per l’Iran. Ecco una carrellata di pareri convergenti: L'intesa dà a Banca Intesa "la prospettiva d’affiancare le imprese italiane" presenti a Teheran o che sono pronte ad investirvi, dice Gian Maria Gros Pietro, presidente del consiglio di gestione di Intesa. Federico Ghizzoni, ad di Intesa, parla di “grandi opportunità” e osserva che l’Iran "è un Paese grande e stabile e ha bisogno di tutto, soprattutto di infrastrutture. Si prevede una crescita importante nei prossimi anni".

Parole analoghe da parte del presidente dell'Abi Antonio Patuelli: "L'apertura del mercato petrolifero iraniano comporta per l'Italia grandi vantaggi". E il presidente di Generali Gabriele Galateri è sulla stessa lunghezza d’onda: si aprono "potenzialità importanti" e "tutto quello che aiuta la stabilizzazione del Medio Oriente è positivo".

La palma dell’interesse va, però, all’Eni, che, per sfruttare l’occasione, si ritrova un jolly in mano: l’ex vice-ministro degli Esteri Lapo Pistelli, che dal 1° luglio è il ‘ministro degli Esteri’ del colosso energetico italiano, è un eccellente conoscitore dell’Iran, ha più volte incontrato il ministro degli Esteri Zarif e sembra avere le entrature giuste.

mercoledì 15 luglio 2015

Iran: nucleare, l'accordo c'è ed è subito storia, ora caccia al bluff

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/07/2015 

E venne finalmente l’accordo, salutato da scampanii diplomatici in tutto il Mondo (o quasi, perché Israele veste a lutto). Anche se, a Teheran come a Washington, alcuni rintocchi suonano ‘falsi’, o almeno strani: invece di salutare l’intesa in positivo, esaltando i germi di speranza e prosperità che essa contiene, i presidenti Rohani e Obama insistono piuttosto sui margini di manovra che essa lascia per fare ‘marcia indietro’, se necessario: l’Iran per riprendere una propria via autonoma, l’America per tornare alle sanzioni. Evidentemente, la preoccupazione di contestazioni interne prevale sugli elementi di soddisfazione internazionale.
Che, tanto, è scontata. A esprimerla a Vienna ci pensano i corifei dell’accordo, giunto dopo 13 anni di contenzioso, almeno nove di trattative, innumerevoli scadenze mancate, maratone notturne abortite e –questa è storia recentissima- estenuanti tempi supplementari e ripetute speranze deluse – l’ultima lunedì, quando tutto pareva fatto e s’è dovuto attendere un giorno ancora-.
Dopo che l’Iran e i ‘5+1’, le cinque potenze nucleari storiche più la Germania, hanno perfezionato l’intesa sul programma nucleare della Repubblica islamica, che avrà solo finalità civili e che sarà tenuto sotto stretto controllo dagli ispettori internazionali, Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, parla di "un momento storico" e di un "nuovo capitolo delle relazioni internazionali”: "Non è solo un accordo, è un buon accordo" che "sarà un contributo alla pace e sicurezza regionale e internazionale". Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif le fa eco: l'intesa "non è perfetta, ma è quella che potevamo raggiungere", e apre "un capitolo di speranza nuovo".
La rinuncia all’atomica –un obiettivo mai dichiarato- e l’accettazione delle ispezioni sono bilanciate per l’Iran dalla levata delle sanzioni Onu, Usa e Ue e di altre restrizioni che ormai da tempo condizionavano lo sviluppo dell’economia iraniana. E Teheran mette sul piatto della bilancia, come ‘buon peso’ per l’Occidente, pure il coinvolgimento nella lotta alla milizie jihadiste –e soprattutto sunnite- del sedicente Califfato.
Il che, per Obama, rappresenta un’arma a doppio taglio: efficace, operativamente; imbarazzante, diplomaticamente, perché i sauditi e le monarchie del Golfo, tradizionali alleati degli Stati Uniti, non sono affatto contenti dello statuto riconosciuto all’Iran, loro nemico. Infatti, il presidente Usa s’affretta a distribuire rassicurazioni all'opinione pubblica americana, ma anche agli israeliani ed agli altri alleati nella regione mediorientale: l’accordo –spiega- "non si basa sulla fiducia ma sulla verifica", perch? L’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica, l'Aiea, “avrà accesso quando e dove é necessario” e, se gli impegni non verranno rispettati, "tutte le sanzioni saranno ripristinate".
In un discorso in tv in diretta, l’iraniano Rohani ha praticamente fatto altrettanto: ha promesso che "se le potenze rispetteranno l'accordo, anche l'Iran vi si atterrà" –il che vuol dire che se qualcuno sgarrasse sulle sanzioni, Teheran si sentirebbe svincolata dagli impegni-. Il presidente riformista, che ha goduto in questa trattativa dell’appoggio della guida suprema Ali Khamenei, è stato, nell’insieme, positivo: l’intesa è il frutto di "un negoziato che fa vincere tutti" e durante il quale l'Iran "non ha chiesto elemosine", ma ha solo condotto una trattativa "equa e giusta".
Unanime il coro di plauso dei protagonisti del negoziato e anche di chi stava in panchina. Il russo Putin dice che il Mondo “tira un sospiro di sollievo” (e la Russia, la più vicina all’Iran fra i ‘5+1’,  guadagna punti sulla scena internazionale). Il francese Hollande chiede all’Iran un ulteriore “gesto di buona volontà”, contribuendo alla fine della guerra in Siria –ma bisognerà prima concordare l’assetto del Paese nel ‘dopo Assad’-. Londra e Berlino, come Pechino, testimoniano soddisfazione. L’Onu legge nell’intesa la prova del “valore del dialogo” e si mette a disposizione per contribuire all’attuazione dei patti. La Santa Sede apprezza “il risultato importante”. E il ministro degli Esteri italiano Gentiloni, da Beirut, esprime la speranza di ricadute positive su tutta la regione.
In Iran e negli Usa, ora la partita diventa politica. A Teheran, sarà conservatori contro riformisti (ma la benedizione di Khameney dovrebbe attenuare i contrasti). A Washington, il match è più intricato, perché le perplessità sono bypartisan: molti forti fra i repubblicani, che controllano il Congresso, ma con venature di diffidenza anche fra i democratici –Hillary Clinton, candidata alla nomination 2016, ne è una portavoce. Obama ha però mandato un messaggio chiaro: porrà "il veto a qualsiasi legge che impedisca l'attuazione" dell'accordo.

L'accordo in tre punti 

Uranio e centrifughe – Teheran dovrà scendere da 10mila chili di uranio arricchito a 300 chili, (taglio del 98%) e rispettare una moratoria di 15 anni. Le centrifughe saranno ridotte di due terzi, cioè da 19mila a 5mila. L’Iran avrà bisogno di un anno per tornare in grado di produrre l’atomica. 

Ispezioni – Gli ispettori dell’Aiea avranno in teoria accesso 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a tutti i siti nucleari iraniani, anche quelli militari. Teheran potrà però rivolgersi a un tribunale arbitrale, di cui faranno parte tutti i Paesi firmatari dell’accordo, contestando le ispezioni. 

Sanzioni e embargo – Una risoluzione dell’Onu per la levata sarà approvata entro luglio, ma diventerà effettiva non prima di tre mesi (durante i quali Teheran dovrà mostrare di stare ai patti). L’embargo sulle armi sarà gradualmente allentato nei prossimi 5 anni

martedì 14 luglio 2015

Iran: nucleare, assonanze tra il valzer di Vienna e il sirtaki di Bruxelles

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/07/2015

Sembra un’altra storia appena scritta, e appena letta: la storia di un negoziato che pare sempre sul punto di concludersi e che, poi, s’inceppa sempre quando l’intesa è a un passo. E c’è, in effetti, qualcosa che accomuna la trattativa sul nucleare tra l’Iran e i ‘5+1’, che sono le cinque potenze nucleari storiche più la Germania, e quello tra la Grecia e i Paesi dell’euro: la difficoltà di chiudere, ad esempio, anche se tutti intorno al tavolo preferiscono l’accordo alla rottura; è l’impalpabilità della presenza italiana, che, a Vienna, è affidata all’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Ue Federica Mogherini, mentre a Bruxelles non s’è proprio avvertita –il premier Renzi c’era, ma nessuno l’ha visto negli incontri ristretti cruciali-.

Certo, le analogie si fermano magari lì. A Bruxelles si discuteva d’economia e di sociale. Invece, a Vienna, di sicurezza e di nucleare. A Bruxelles, c’erano scadenze precise: rate da pagare, debiti da onorare. A Vienna, come a Ginevra in primavera, le scadenze sono tutte fittizie, convenzionali: s’era detto che l’intesa doveva essere fatta entro il 30 giugno, poi entro il 7 luglio, adesso entro la mezzanotte di ieri: il 17o giorno di trattative ‘non stop’ doveva portare la fumata bianca agognata dai negoziatori, ma aborrita dagli israeliani e osteggiata negli Usa dai repubblicani e dai ‘falchi’ pro-israeliani e in Iran dai conservatori della Teocrazia.

Voci e smentite si sono rincorse per tutta la giornata, seguendo un rituale già collaudato. La vigilia, le cose paiono fatte. La mattina del ‘giorno X’, le delegazioni si schierano tutte nella formazione tipo, con i ministri pronti alla storica foto ricordo: chi non c’è, fa sapere che sta per arrivare. Si annunciano discorsi di consacrazione da Teheran e Washington, riunioni plenarie per suggellare l’accordo.

E il ministro dell'Interno iraniano, Hossein Ali Amiri, fa addirittura sapere che non sono previste celebrazioni ufficiali, ma che a polizia è stata invitata a non ostacolare eventuali “festeggiamenti spontanei” per le strade: la borghesia benestante iraniana non vede l’ora che le sanzioni cessino, così che molti prodotti di derivazione occidentale possano tornare nei negozi.

Poi, le certezze s’incrinano, i dubbi s’insinuano: ci sono progressi, ma restano dei dettagli da definire. Nelle capitali, i leader tacciono. Finché qualcuno cala il sipario sulle attese: domani è un altro giorno, si replica. Ieri sera, la Casa Bianca ha riconosciuto che ci sono "progressi reali" nelle trattative nucleari, ma ha aggiunto che restano “nodi significativi”, esortando l’Iran a prendere "decisioni difficili".

Nessuna rottura: i colloqui continuano, si spera fino a “un’intesa definitiva”. Non è chiaro quali siano le questioni irrisolte: le modalità delle ispezioni, il ritmo di levata delle sanzioni, o altro ancora. Chi vuole chiudere sa che bisogna farlo prima che la trattativa finisca tritata nel frullatore delle elezioni presidenziali statunitensi: Hillary Rodham Clinton, candidata alla nomination democratica, sta già prendendo posizioni più dure di quelle dell’Amministrazione Obama, per non giocarsi il voto ebreo.

Eppure, c’è chi dice che il testo dell’accordo sia già stato messo nero su bianco: secondo la Bbc, il documento consta d’un centinaio di pagine e indica minuziosamente le condizioni per la revoca delle sanzioni di Onu, Usa e Ue nei confronti dell'Iran e precisa le garanzie che la Repubblica islamica deve fornire per assicurare che il programma nucleare non sia finalizzato alla produzione di armi atomiche. Il testo –dice ancora la Bbc- è stato redatto con grande pignoleria diplomatica, per evitare futuri fraintendimenti sugli impegni assunti.

Secondo fonti iraniane, invece, l'intesa prevede contestualmente alla firma la revoca dell'embargo sulle armi a Teheran, con un'apposita risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: resterebbero solo alcune restrizioni temporanee in campo militare. Inoltre, l'accordo dovrebbe portare al superamento del ricorso al capitolo 7 della Carta dell'Onu, quello che riguarda le minacce alla pace, per il programma nucleare iraniano. 

Fra i mallevadori dell’intesa, ci sono la Russia e la Cina. Mosca e Pechino vi vedono un’occasione per affermare la loro influenza sulla scena diplomatica. Ma l’accordo ha aspetti da intrigo internazionale: l’Iran mette sul piatto della bilancia il suo coinvolgimento nella guerra al terrorismo, che però inquieta gli alleati arabi storici degli Usa, a cominciare dall’Arabia saudita.