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lunedì 29 febbraio 2016

Usa 2016: Super Martedì, una frase di Mussolini ripresa da Trump agita vigilia

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 29/02/2016

Una frase di Mussolini rilanciata con un tweet da Donald Trump agita – più da noi che negli Usa, per la verità – la vigilia del Super-Martedì, quando democratici e repubblicani andranno alle urne (gli uni e gli altri in una dozzina di Stati) per scegliere circa un quarto dei delegati alle conventions.
"Meglio vivere un giorno da leone che cento giorni da pecora" è la frase che Trump riprende dall'account @ilduce2016, ironicamente creato lo scorso anno, con una foto di Mussolini ritoccata con i capelli rossi di Donald Trump.

All’inizio, non è chiaro se si tratti di una gaffe o di una scelta consapevole  da parte del magnate dell’immobiliare che nei giorni scorsi aveva già rilanciato messaggi di suprematisti bianchi e incassato l'appoggio – rifiutato - di leader del Ku Klux Klan. Ma lo stesso Trump fa poi chiarezza: era conscio che la frase fosse di Mussolini e l’ha rilanciata perché è una bella frase, “che male c’è?”.

L’account da cui Trump l’ha tratta è di Gawker, un blog newyorkese di gossip, che ha a sua volta twittato: "Abbiamo realizzato un account Twitter con Mussolini per vedere se Trump era stupido abbastanza da ritwittarlo. Lo è stato!". L'account è stato creato da Ashley Feinberg e pubblica "frasi e discorsi del dittatore fascista italiano Benito Mussolini, tutte attribuite all'uomo d'affari e candidato alla presidenza Donald Trump”.

L’episodio fa evocare alla stampa Usa passate indiscrezioni attribuite all’ex moglie di Trump, Ivana, che nel 1990 – secondo Vanity Fair – raccontava che Donald teneva un libro con la raccolta dei discorsi di Hitler sul comodino. "Le sue origini tedesche sono prese seriamente da Trump. Quando John Walters, che lavora per la Trump Organization, entra nell'ufficio di Donald, lo saluta con 'Heil Hitler', probabilmente un gioco di famiglia", scriveva Vanity Fair citando l'entourage d’Ivana. E ancora: "Ivana Trump ha detto al suo avvocato Michael Kennedy che ogni tanto il marito leggeva un libro con i discorsi di Hitler, 'My New Order'".

E sono delle ultime 48 ore i propositi di Trump di rivedere le leggi sulla diffamazione in funzione anti-media.

Ce n’è abbastanza per rinfocolare le preoccupazioni già elevate dell’establishment repubblicano e dei conservatori moderati per una candidatura di Trump alla Casa Bianca, che ‘The Economist’ vuole ‘licenziare’, riprendendo il programma televisivo che lo rese uno showman. Tanto che, nell’imminenza del Super Martedì, che lo vede favorito, rispunta il nome di Mitt Romney, come possibile piano B, nel caso che Marco Rubio, il senatore della Florida, non ce la facesse domani e poi proprio in Florida, nel suo Stato, ad arginare lo showman. Romney fu il candidato repubblicano nel 2012 e non è sceso in lizza quest’anno.

Nei sondaggi in vista di domani, Trump è avanti in molti Stati, fra cui Georgia e Tennessee, mentre il senatore Ted Cruz è avanti in Texas, il suo Stato, il terzo dell’Unione, con largo margine. Trump domina pure a livello nazionale, con oltre il 44% delle preferenze: Cruz ne ha il 20%, Rubio il 14%, secondo un altro rilevamento. I delegati repubblicani in palio nel Super-Martedì sono circa 600, quasi la metà dei 1.237 necessari per ottenere la nomination. Trump, che ne ha già un centinaio, potrebbe ritrovarsi a buon punto.

Una cosa che accomuna gli aspiranti alla nomination repubblicana è il 'no' al piano del presidente Barack Obama sulla chiusura della prigione di Guantanamo: Rubio e Cruz, entrambi cubani d’origine, sbandierano: "Non chiuderemo Guantanamo e non restituiremo un'importante base navale a una dittatura comunista e anti-americana”; Rubio aggiunge: “Se sarò presidente non porterò i terroristi in una corte di Manhattan e non li spedirò in un carcere in Nevada. Li manderò proprio a Guantanamo".

In campo democratico, secondo il sondaggio WSJ/Marist, Hillary Clinton è nettamente avanti su Bernie Sanders in vari Stati ed è in doppia cifra in Texas, Georgia e Tennessee. Dopo la vittoria di sabato in South Carolina, l’ex first lady è subito ripartita in campagna insistendo sui punti chiave del suo programma sociale ed economico: aumento dei salari, tutela dell’economia dagli eccessi della finanza, riforma della giustizia, no all’aumento senza controlli dei prezzi dei farmaci.

Sanders, che ha detto di essere stato “decimato” in South Carolina, dove ha comunque vinto fra gli ‘under 30’, punta a vincere nel suo Vermont e nel Massachusetts, oltre che in Minnesota, Colorado, Oklahoma.

domenica 28 febbraio 2016

Usa 2016: chicche; gaffes, colpi bassi, asilo anti-Trump, registri in campo e altro

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 28/02/2016

Una campagna di gaffes – Sorge il sole sull’America di Rubio, ma lo skyline sullo sfondo è quello di Vancouver, città del Canada sul Pacifico, con la bandiera con la foglia d’acero a sventolare su un rimorchiatore in porto: scene dello spot ‘Morning in America’. Una gaffe, anzi un errore, come ha candidamente ammesso la campagna del senatore della Florida.

Non è l’unico errore del genere di queste primarie: a settembre, dei sostenitori dell’ex governatore della Florida Jeb Bush avevano diffuso un video dove immagini di archivio della Gran Bretagna e del sud-est asiatico venivano gabellate per America; e più di recente, a gennaio, i collaboratori di Donald Trump aveva usato immagini del confine tra Marocco e Spagna per illustrare l’insicurezza dei confini statunitensi.

Gaffes ed errori non sono solo geografici: a volte gira la lingua. In un comizio, Trump, che voleva citare Ben Carson, ha invece detto Barack Obama. Si parlava delle voci d’abbondono della corsa da parte di Carson messe artatamente in giro da Ted Cruz: lo showman s’è accorto dell’errore, ha fatto marcia indietro, s’è scusato con Carson e ha aggiunto “Obama dovrebbe abbandonare la corsa”, suscitando applausi e risate: insomma, Donald vince anche quando s’impappina. Non così, invece, Rubio, quando la butta sul personale e critica il magnate dell’immobiliare per l’ ‘abbronzatura’, cioè per un trucco sbagliato prima di un’apparizione televisiva.

Cruz e i colpi bassi proibiti - Il rilancio di un aneddoto, poi rivelatosi falso, su Rubio è costato caro al portavoce di Cruz, Rick Tyler, fatto fuori dal suo posto. Il ‘giocare sporco’ ha dei limiti, anche in una campagna fortemente negativa come quella per la nomination repubblicana, finora caratterizzata da un tutti contro tutti e, soprattutto un tutti contro Trump.

Il post dello scandalo, subito cancellato, riferiva una battuta di Rubio, mai pronunciata, sul fatto che “la Bibbia non contiene tutte le risposte”: a ben vedere, un’affermazione di cui non ci sarebbe motivo di dispiacersi (al più di temere che dispiaccia agli evangelici, che, comunque, non votano Rubio). La campagna di Cruz era recidiva: aveva già al suo ‘attivo’ falsi ai danni di Carson (voci d’un suo ritiro) e dello stesso Rubio (un fotomontaggio ne suggeriva la familiarità con il presidente Obama).

Hillary è la favorita dei bookmakers - Paddy Power, bookmaker irlandese, dà Hillary Clinton favorita su Donald Trump 1,83 a 4,00: un margine elevato, calcolato prima del voto di sabato in South Carolina e prima del Super Martedì. L’allibratore sembra più ottimista della ex first lady, che, in un momento di insicurezza, s’interroga se “l’America sia pronta a un presidente donna”.

Sanders, attestati di stima – La stella di Sanders è un po’ in calo e potrebbe presto tramontare, dopo la South Carolina e il Super Martedì. Ma il senatore del Vermont ha comunque incassato attestati di stima e sostegni non previsti. L’economista francese Thomas Piketty, una star europea, ha detto che il candidato ‘socialista’ “può cambiare il volto del Paese”, riproponendo una tassazione più progressiva e rivalutando la spesa sociale, mentre Hillary – dice Piketty – è solo un’erede del regime di tassazione favorevole ai ricchi lungo l’asse Reagan–Clinton –Obama.

Un altro tributo inatteso a Sanders è venuto dal rapper nero Killer Mike, che a Mount Pleasant, vicino ad Atlanta, in Georgia, ha detto che Sanders è l’unico candidato la cui politica sociale sarebbe condivisa da Martin Luther King. Il senatore parlava agli studenti di Università prevalentemente frequentate da afro-americani. “Metteremo fine all’orrore di vedere ripetutamente in tv un nero disarmato cui la polizia spara”, ha detto.

Trump, un asilo politico per fuggirne – Un’isola canadese offre asilo politico agli americani che dovessero essere “disgustati” da un’eventuale vittoria di Trump all’Election Day: è Capo Bretone, nella Nuova Scozia, che si fa così pubblicità sul suo sito di promozione turistica. La località, che è un luogo di turismo, enumera fra i suoi pregi il fatto che le donne sono libere di pianificare la loro maternità, che i musulmani possono muoversi senza restrizioni e che gli unici muri sono quelli delle case (per altro, estremamente a buon mercato). E se qualcuno teme che, siccome è Canada, ci faccia un freddo becco, ecco la rassicurazione: “Le estati sono gradevoli e l’inverno è come sulla Costa Est degli Stati Uniti”. Al tempo della guerra del Vietnam, il Canada su la scelta di molti giovani americani che volevano evitare l’arruolamento.

Kasich strizza l’occhio a destra - Sta forse per uscire di scena, anche se giura che lo farà solo se non vincerà in Ohio a metà marzo, ma la sua decisione, come governatore dello Stato, di vietare versamenti di fondi statali a qualsiasi organizzazione sanitaria che pratica o promuove l’aborto, occupandosi di pianificazione familiare, è fatta per rafforzarne l’immagine fra conservatori ed evangelici, che non lo considerano certo uno dei loro. Nella sua campagna, John Kasich ha spesso evocato l’importanza di fondi per mamme e neonati: affermazioni che ritiene, però, coerenti con il provvedimento ora adottato.

Registi di sinistra in campo -  C’è, come sempre, molta Hollywood, e comunque molto cinema, nella campagna elettorale. Il regista di sinistra Michael Moore è impegnato a favore di Sanders ed ha pagato con una brutta polmonite il sovraccarico d’impegni tra la campagna per il senatore, la promozione del suo lavoro ‘Where to invade next?’ e la mobilitazione per lo scandalo dell’acqua contaminata a Flint, Michigan, la sua città.

Johnny Depp interpreta, invece, il rampante Donald Trump degli Anni Ottanta in un vero e proprio film comico disponibile in streaming sul sito web ‘Funny or Die’, fatto in collaborazione con altri grandi nomi, compreso Ron Howard, la voce narrante, che interpreta se stesso. Il titolo è ‘The art of the Deal: The Movie’, che riprende quello di un libro di Trump pubblicato nel 1987. Uscito in coincidenza con le primarie nel New Hampshire, vinte da Trump, il film è un ‘faux movie’, perché pretende di essere stato girato negli Anni Ottanta. Chi l’ha visto assicura che l’interpretazione di Depp è straordinaria e la sua trasformazione in Trump eccezionale. (fonti vv - gp)

Usa 2016: democratici, Hillary stravince in SC, conquista il voto nero

Scritto per www.GpNewsUsa2016 e Formiche.net il 28/02/2016 e, in altra versione, per il blog de Il fatto Quotidiano

Hillary Clinton trova alfine la vittoria a valanga che le mancava: dopo i successi risicati in Iowa e Nevada e la batosta nel New Hampshire, vince le primarie in South Carolina con il 73,5% dei voti. Il suo rivale Bernie Sanders ottiene il 26% delle preferenze. Hillary ha 39 delegati, Sanders 14.

L’ex first lady affronta, quindi, lanciata, il Super Martedì del 1° marzo, quando i democratici votano in una dozzina di Stati e Territori, e cancella l’ombra del 2008, quando, in South Carolina, l’allora suo rivale Barack Obama l’aveva battuta, conquistando il 78% dei voti degli afro-americani (Hillary ne prende l’84%).

La vittoria di Hillary in questo Stato, il più popoloso a essersi finora pronunciato – quasi 5 milioni d’abitanti per 80 mila kmq -, fa dire a Donald Trump, battistrada repubblicana, che qui aveva vinto una settimana fa, che per la Casa Bianca sarà sfida tra lui e l’ex first lady. Intanto, in California, torna a manifestarsi con un raid il Ku Klux Klan, che ha dato allo showman un endorsement non desiderato (e subito respinto).

Per la Clinton, l’avere fatto man bassa di suffragi afro-americani è un risultato importante: finora, infatti, non era chiaro se l’ex first lady facesse breccia nel 'popolo di Obama', nonostante il marito Bill, quando era alla Casa Bianca, fosse stato definito “il primo presidente nero d’America”, per la popolarità di cui godeva fra gli afro-americani. Adesso, Hillary può guardare con ottimismo al voto negli altri Stati del Sud, dove i neri rappresentano la maggioranza dei democratici.

La sconfitta aumenta, invece, la pressione su Sanders, un po’ in perdita di velocità in questi giorni: il senatore del Vermont deve tornare a vincere per sperare di fermare, o almeno rallentare, la marcia di Hillary. Altrimenti, la nomination sarà fatta in tempi rapidi: già il 2 mattina, se il Super-Martedì sarà un ko; o a metà marzo, dopo Ohio e Florida. Il senatore del Vermont si congratula con la rivale, ma avverte: "La campagna è agli inizi. La nostra rivoluzione politica sta crescendo Stato per Stato".

Hillary invece, vestita di bianco sul palco della vittoria, ringrazia i suoi sostenitori entusiasti e afferma: "Da oggi la campagna diventa nazionale". A Columbia, l’es first lady è sola: Bill sta andando a fare campagna in Florida; Chelsea, incinta, festeggia il compleanno, prima di riprendere il posto in campagna a fianco della mamma.

Hillary è evidentemente soddisfatta del risultato, ed emana sicurezza. "Altro che costruire muri, dobbiamo abbattere le barriere, abbatterle tutte", dice, con un riferimento al muro che Trump vuole alzare al confine con il Messico. E ancora: "Non dobbiamo fare tornare l'America grande, l'America già lo è. Quello che dobbiamo fare è unirla", con un riferimento allo slogan del magnate "Make America Great Again". (ANSA - fonti vv - gp)

sabato 27 febbraio 2016

Usa 2016: Hillary in SC cerca larga vittoria, Trump 'incassa' Christie

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/02/2016

Hillary Clinton cerca oggi in South Carolina la sua prima larga vittoria di queste primarie, mentre, in campo repubblicano, a sorpresa, il governatore del New Jersey Chris Christie, un moderato, che anche Barack Obama considera un interlocutore accreditato, ha deciso di sostenere Donald Trump, ormai il favorito per la conquista della nomination.

"La cosa importate è avere un candidato che abbia le migliori chances di battere Hillary Clinton", ha spiegato Christie, che è la prima figura di spicco del partito repubblicano a schierarsi con Trump. Il governatore è stato in lizza per la nomination fino alle primarie nel New Hampshire e si è poi ritirato: al di là delle dichiarazioni di principio, c’è chi pensa che l’endorsement a Trump sia frutto d’un’ipotesi di ticket con il magnate dell’immobiliare, di cui Christie potrebbe essere il candidato vice.

Per Hillary Clinton, le primarie in South Carolina sono l’occasione per rilanciare la sua campagna, dopo gli alti e bassi di questo mese, con i successi risicati in Iowa e Nevada e la pesante sconfitta in New Hampshire ad opera di Bernie Sanders. Nel primo Stato del Sud chiamato a pronunciarsi, l’ex first lady deve pure cancellare il ricordo della disfatta subita, nel 2008, da Barack Obama.

In un comizio a Columbia, la capitale dello Stato, la Clinton ha chiesto un voto “per il cambiamento, per il progresso, per fare la differenza”. Una vittoria le confermerebbe la leadership nell’elettorato di colore, un segmento cruciale per il candidato democratico, e la metterebbe sulla rampa di lancio per il Super-Martedì del 1° marzo, quando ci sono in palio fra i democratici 865 delegati (per avere la nomination, ne servono 2.383). Fra i repubblicani, i delegati in palio il 1° marzo sono 595 (sui 1.237 necessari per ottenere la nomination).

Sanders, che sa di esercitare un richiamo minore della Clinton sull’elettorato nero, non ha quasi fatto campagna in questo Stato negli ultimi giorni, puntando su alcune tappe del Super-Martedì – ieri era in Minnesota -. Con i finanziamenti raccolti nelle ultime settimane, Sanders può impegnare Hillary fino alla primavera: finora, in termini di delegati ottenuti con il voto ne ha solo uno in meno dell’ex first lady, che però è largamente in vantaggio fra i Super-Delegati, cioè le figure di spicco del partito che sono di per sé delegati alla convention.

In South Carolina, anche Bill Clinton, che nel 2008 fece qui una sorta di gaffe, è stato ben accolto. E il deputato nero James Clyburn, che nel 2008 rimase neutrale, questa volta appoggia Hillary. (fonti vv - gp)

venerdì 26 febbraio 2016

Libia: generali; intervento?, no, invertire priorità e ripartizione territorio

Contributo ad articolo a quattro mani de Il Fatto Quotidiano del 26/02/2016 

... Mesi di fughe in avanti a parole e di passi indietro quando si profila il momento di passare ai fatti hanno ormai convinto molti interlocutori europei ed americani che l’Italia si augura, in cuor suo, che il governo libico di unità nazionale, quello che potrà poi sollecitare l’intervento internazionale, resti nel limbo: se davvero lunedì ci sarà il sì del Parlamento di Tobruk, l’insediamento a Tripoli è lungi dall’essere sicuro, visto che buona parte delle milizie islamiste sono ostili all’Esecutivo.

Un ex capo di Stato Maggiore italiano, il generale Mario Arpino, è esplicito: in Libia, bisogna “invertire le priorità”, cioè "prima debellare la presenza dell’autoproclamato Stato islamico” e poi pensare a un nuovo governo. E’ una linea che piace al Cairo, trova condivisioni altrove ed ha un interprete convinto nel generale Haftar, l’uomo più forte, e il più discusso, del governo di Tobruk, impegnato con i suoi uomini – e un supporto francese - a ‘ripulire’ Bengasi dalle milizie jihadiste.

Un altro ex capo di Stato Maggiore italiano, il generale Enzo Camporini, dice e scrive: “Gli Usa hanno chiarito in modo assai esplicito che non intendono impegnarsi in forze sul terreno in Libia, ma stanno applicando in modo sistematico la cosiddetta ‘dottrina Gates’”, dal nome di un ex capo del Pentagono. “Le azioni fuori area delle forze armate Usa si limitano a quelle di tipo punitivo, senza più la pretesa di ricostruire le istituzioni altrui secondo modelli democratici: ok a operazioni di forze speciali, a raid aerei condotti con armamento di precisione, ma no ad operazioni durevoli e di massa, lasciate agli alleati se e quando ne fossero capaci”.

S’inquadra in questo contesto il raid su un centro d’addestramento degli jihadisti vicino a Sabrata, lunedì, e la richiesta di utilizzare droni in partenza da Sigonella per missioni libiche (purché usati solo a scopo difensivo, un requisito “autenticamente italiano” e difficile da verificare).

Interventi sostanziali americani restano dunque esclusi – loro, magari, se li aspettano da noi-. Secondo Camporini, il fatto nuovo è l’apertura d’una riflessione sull’opportunità di sostenere fino allo stremo l’unità della Libia oppure di prendere atto che le diverse anime di quel territorio possono ambire a forme statuali più articolate, con un ritorno, ad esempio, alle divisioni tradizionali tra Cirenaica e Tripolitania (ed eventualmente Fezzan). Il che potrebbe avvenire contemperando l’attenzione dell’Egitto per la Cirenaica con la densità di interessi economici italiani in Tripolitania ...

Usa 2016: Trump, un candidato in totale simbiosi con i social media

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/02/2016 e ripreso da www.GpNewsUsa2016.eu

Non c’è giorno di questa infinita campagna elettorale, che dura da otto mesi e che altri otto durerà, che un tweet di Donald Trump non faccia notizia, susciti polemiche, desti scandalo, faccia discutere, sia ‘ritwittato’ a catena. E i media tradizionali, per quel che ancora contano, abituati a subire l’avanzata del nuovo, se ne fanno megafono: come vent’anni fa inseguivano l’ultima battuta televisiva, oggi vivono di riflessi dei ‘social’.

Non è chiaro se i tweet di Trump escano proprio come sono le sue frasi o se le sue frasi siano prima pensate come tweet. Ma la simbiosi è totale.

L’ultima battuta, divenuta virale, il battistrada nella corsa alla nomination repubblicana l’ha detta dopo il largo successo, martedì notte, nelle assemblee del Nevada: “I love the poorly educated”, amo gli ignoranti (che, del resto, lo ricambiano). E ha innescato il solito dibattito tra chi se ne sente offeso - anche se, stavolta, i termini usati, se non proprio il concetto espresso, erano politicamente corretti - e chi invece accusa chi s’offende per porre le parole fuori del contesto. Che era quello d’un discorso della vittoria: "Abbiamo conquistato i giovani, abbiamo conquistato gli anziani, abbiamo conquistato le persone con un'alta educazione, abbiamo conquistato gli ignoranti. Io amo gli ignoranti", ha scandito il magnate dell’immobiliare. Che avrebbe pure conquistato, a forza d’insulti e minacce, i ‘latinos’: in Nevada, quasi la metà di quelli che votano repubblicano sarebbero dalla sua.

Quel suo “Io amo gli ignoranti”, sbarcato su twitter, è stato rilanciato, citato, contestato freneticamente: 15 volte al minuto, secondo operatori che monitorano i social media. Sono pure comparsi utenti di twitter che si autoproclamano "poorly educated", ma che non amano lo showman perché lo ritengono una minaccia o un motivo di forte imbarazzo per gli Stati Uniti.

David Waywell, un giornalista britannico che segue la campagna di Trump su Youtube e twitter, accompagnandolo ovunque senza mai allontanarsi dalla propria scrivania o dalla propria poltrona – tutti gli eventi sono online live -, analizzava, ieri,  come Trump, che non è un ragazzino (69 anni, uno in più di Hillary Clinton), abbia saputo usare i social media molto meglio di tutti i suoi rivali e pure meglio di quanto non fece nel 2008 Barack Obama, che fu però maestro finora ineguagliato nella raccolta di fondi online – ma Trump di misurarsi su questo terreno non ha bisogno -.

Quello che contraddistingue i tweet di Trump è il carattere tagliente, insolente, sanguigno, eccessivo, talora offensivo o insultante. Tutto il contrario dei tweet di Hillary che sono precisi, quadrati, composti, ricchi di contenuto, talora pure ironici, ma sostanzialmente noiosi, se confrontati con quelli di Donald. Tutto nella campagna di Trump è concepito a misura di tweet, pure gli slogan, a cominciare da “Rifaremo grande l’America”, “Vivi libero o muori”, “Leadership competente”; e persino le battute sui palchi dei comizi o dei dibattiti in diretta televisiva, dove fa valere l’esperienza di showman: le battutacce che hanno ‘azzerato’ Jeb Bush, i messicani “delinquenti e stupratori”, le giornaliste impertinenti “che hanno il sangue agli occhi e non solo”.

La campagna di Trump ha avuto, fin dall’inizio, una copertura mediatica sproporzionata, almeno rispetto a quelle degli altri candidati: in campo repubblicano, anche quando i candidati erano ancora una quindicina, lo showman assorbiva da solo un quarto e più delle informazioni. I centri studi che hanno analizzato questo fenomeno, vedono un meccanismo di reciproco rilancio: l’elevata copertura mediatica genera indici di gradimento alti nei sondaggi, che a loro volta innescava ulteriore copertura mediatica. Vale negli Usa, ma vale un po’ ovunque nel Mondo: in Italia, i titoli su Trump, o le informazioni che lo riguardano, sono 10 volte più numerose di quelle sui suoi rivali; e, come livello di popolarità, inteso come conoscenza da parte del pubblico, solo Hillary Clinton gli tiene testa. Ma Hillary non gode, nei confronti del suo rivale Bernie Sanders, dello stesso vantaggio mediatico che Trump ha sui suoi antagonisti. E, poi, fa tweet meno divertenti.

Usa 2016: repubblicani; dibattito, fuoco di filo d'attacchi a Trump

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/02/2016

 Volano gli stracci, nel dibattito di Houston fra i candidati alla nomination repubblicana, l’ultimo prima del Super-Martedì, qundo si voterà pure in Texas: un fuoco di fila di domande e attacchi contro il battistrada, e a questo punto superfavorito, Donald Trump, che non s’è accontentato di difendersi.

I due senatori Marco Rubio e Ted Cruz hanno unito le forze contro il magnate dell’immobiliare, collocato al centro del palco fra loro due. Alle estreme John Kasich e Ben Carson, poco presenti e poco sollecitati dai moderatori. Al punto che pure Trump s’è lamentato: "Perché fate tutte le domande a me? Capisco che dovete tenere alto l'audience, ma è pazzesco".

Fra il pubblico in sala all’Università di Houston c'erano l'ex presidente George Bush e la moglie Barbara, che sono stati accolti con una standing ovation. Lui, visibilmente commosso, ha chiesto con un gesto al pubblico di sedersi. Per la prima volta, sul palco di questo dibattito non c’era il figlio Jeb, ritiratosi dalla corsa dopo l’ennesimo deludente risultato in South Carolina.

Rubio e Cruz, di origine cubana, hanno molto insistito sull’immigrazione. "Tu sei l'unico fra di noi ad essere stato multato per aver assunto immigrati illegali", ha detto Rubio. Lo showman, che ha ripetutamente ripetuto l’impegno a costruire un muro, più alto dell’attuale, al confine con il Messico, perché i confini degli Usa “sono un groviera”, ha replicato con una battuta: "Io ho assunto decine di migliaia di persone, mentre voi non avete mai assunto nessuno".

Ma Rubio, più aggressivo del solito, non ha mollato: ha scherzato sul fatto che probabilmente Trump assumerebbe clandestini per costruire il muro e ne ha anche messo in discussione le qualità da manager: "Se non avesse ereditato 200 milioni di dollari, sapete dove sarebbe ora Donald? A vendere orologi a Manhattan".

Cruz ha affermato: "E' dal 2013 che mi batto per una riforma della legge sull'immigrazione e per offrire agli immigrati senza documenti un sentiero legale verso la cittadinanza. In tutto questo tempo Trump dov’era? Al Celebrity Apprentice", il reality show portato al successo proprio dallo showman. Tra il pubblico in sala è scoppiata una risata.

Trump ha replicato che Cruz è impopolare anche tra i suoi colleghi senatori. "Non piaci a nessuno, dovresti vergognarti". Cruz ha colto la palla al balzo per sostenere di non piacere all'establishment di Washington perché lui lavora per la gente. E Trump gli ha dato del Robin Hood.

Mentre i candidati repubblicani litigavano sull’immigrazione, la battistrada democratica Hillary Clinton twittava: “Abolire le barriere, non erigere muri”.

Il magnate è poi finito di nuovo sotto tiro perché incapace di presentare un piano sulla sanità che possa sostituire l'Obamacare. "Qual è il tuo piano? Dici sempre le stesse quattro cose - ha detto Rubio - e cioè che tutti sono stupidi, che renderai l'America di nuovo grande, che vincerai, vincerai, vincerai e che eliminerai le righe intorno agli Stati".

Quanto alla richiesta di rendere pubblica la sua dichiarazione dei redditi che "sarebbe una bomba", almeno secondo l'ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti Mitt Romney, Trump ha spiegato di non poterlo fare perché è sotto accertamento. "E' ingiusto, ma ogni anno mi mettono sotto accertamento. La pubblicherò quando l'accertamento sarà finito".

Altre polemiche sono state sollevate sul fatto che Trump sia stato un ammiratore di Hillary. Rubio l’ha accusato di essere contro Israele (“Sei un bugiardo”, è stata la replica). E Cruz ha detto che lo showman rende la corsa alla nomination “un circo”, mentre lui e Rubio sono più seri. Al termine, Trump ha commentato: "Sono disperati – riferendosi a Rubio e a Cruz -. Che altro possano fare? Stanno perdendo talmente tanto … Ho avuto a che fare con gente anche più dura: mi aspettavo i loro attacchi, ero preparato. Sono sopra a Rubio di 24 punti in Florida e praticamente alla pari con Cruz in Texas. Amo il Texas e voglio vincere in Texas. Non penso che ci sarà una convention aperta", anche se “non è mai finita finché non è davvero finita”. (AGI – fonti vv – gp)

giovedì 25 febbraio 2016

Libia: la Francia ci brucia con le forze speciali, leadership sfumata?

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/02/2016

Forze speciali francesi stanno effettuando raid mirati sul terreno in Libia: la notizia, diffusa da Le Monde e confermata dalle autorità francesi, conferma indiscrezioni già filtrate, circa l’attività in Libia di unità francesi e britanniche e pure americane e – è stato detto - italiane. Secondo Le Monde, le forze speciali conducono azioni discrete, talora segrete, per colpire e indebolire la presenza del sedicente Stato islamico, cercando di frenare il radicamento e l'espansione nel Paese delle milizie jihadiste.

Che proprio ieri avrebbero parzialmente occupato il centro di Sabrata, quasi al confine della Tunisia: non è la prima volta che gli uomini del Califfo assumono, temporaneamente, il controllo della località d’origine romana teatro lunedì d’un raid aereo Usa – partito, pare, dalla Gran Bretagna - contro un centro d’addestramento jihadista, dove sarebbe stato eliminato la mente degli attentati in Tunisia al Bardo e a Sousse.

L’azione integralista di ieri voleva chiaramente dimostrare che il raid non aveva intaccato la capacità operativa dei miliziani. Ma nel giro di poche ore guerriglieri di Alba della Libia. arrivati da Tripoli, avrebbero messo in fuga gli jihadisti e ripreso il controllo della località. E’ naturalmente impossibile verificare dinamica degli accadimenti e affidabilità dei racconti.

L’intensificarsi, negli ultimi giorni, di notizie spesso contraddittorie sulla Libia e dalla Libia accentua la criticità della riunione di oggi a Roma del Consiglio Superiore di Difesa, dove sarà evocata l’eventualità di un impegno militare italiano, purché sollecitato da un governo di unità nazionale. Da mesi, l’Italia dichiara la propria disponibilità a un ruolo guida nell’ambito di una missione di stabilizzazione e umanitaria internazionale, salvo poi ridimensionare lo sforzo militare possibile – i 5000 uomini di cui fonti di stampa, imbeccate anche da ministri, hanno a più riprese parlato non sarebbero semplicemente disponibili – e pure mettere paletti all’aiuto da fornire agli alleati – come mostra la vicenda dei droni Usa al decollo da Sigonella -.

L’Italia, poi, è molto preoccupata dal ritorno di fiamma dell’ipotesi di ripartizione della Libia in due o tre zone autonome, se non indipendenti: ci sarebbe il pericolo di accrescere, invece d’attenuare, la conflittualità fra le fazioni. E a Roma si avverte pure il rischio che l’attivismo francese possa essere teso a sottrarre all’Italia il ruolo di primo piano auspicato in una eventuale missione internazionale. Ieri, il ministro degli Esteri Gentiloni ha detto: : "Abbiamo bisogno di un Paese stabile, di un interlocutore di governo che consenta all'Italia e all'Europa di gestire i flussi migratori e di combattere terroristi e trafficanti di persone".

A Parigi, lo scoop di Le Monde ha irritato il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian, che ha ordinato l'apertura di un'inchiesta contro ignori per violazione di segreto di Stato. Al Jazeera segnala la presenza di 150 unità delle forze speciali francesi nella base di Benina, a Bengasi, quartier generale dell'offensiva anti-jihadista delle truppe del generale Haftar. Alcuni militari francesi sarebbero riconoscibili, in uniforme, ma altri opererebbero sotto copertura.

Con Bengasi terreno di battaglia e Sabrata esposta alle incursioni jihadiste, il Parlamento di Tobruk sarebbero più vicino a dare la fiducia al governo di unità nazionale del premier designato al Sarraj: un voto potrebbe esserci lunedì prossimo 29 febbraio.

Usa 2016: repubblicani, Trump potrebbe essere ormai inarrestabile

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 25/02/2016, ripreso e ampliato con background su AffarInternazionali.it lo stesso giorno

Dopo il successo di martedì nelle assemblee del Nevada, la corsa verso la nomination repubblicana di Donald Trump rischia di diventare inarrestabile. In chiave Election Day, la prospettiva preoccupa l’establishment repubblicano e tutti i conservatori moderati. In un editoriale, il Washington Post invita perentoriamente i leader repubblicani a fare tutto quel che possono per fermare Trump: o serrano le fila e convergono sul senatore della Florida Marco Rubio, o nessuno potrà più bloccare lo showman, anche perché i meccanismi delle primarie, di qui in avanti, lo favoriscono.

Anche se la nomination può sempre diventare una guerra sporca di trabocchetti e scheletri che escono dall’armadio: Mitt Romney, candidato repubblicano nel 2012, ha buttato lì su Fox News che la dichiarazione dei redditi di Trump potrebbe contenere una ‘bomba’, o il magnate non è ricco come dice o non paga tutte le tasse che deve. Negli Usa, gli elettori non lo ritengono titolo di merito.

La prospettiva di una nomination di Trump è perdente su due fronti: o lo showman perde le elezioni, perché il suo populismo spaventa i conservatori moderati e a maggior ragione indipendenti e centristi; oppure le vince, spostando la campagna su posizioni meno urticanti, e diventa presidente, esponendo gli Stati Uniti (e il Mondo intero) a una leadership fatta di ‘alti e bassi’ ed estrosità. Trump ha già dato segno di volere dare una mano di vernice ‘moderata’ alle sue posizioni, dicendo, ad esempio, che il suo vice dovrà essere un politico, proprio a compensare il suo populismo.

Certo, malgrado il successo in Nevada, il terzo consecutivo dopo New Hampshire e South Carolina, il vantaggio di Trump sui rivali in termini di delegati resta modesto: non ha neppure il 10% di quelli che servono per garantirsi la nomination alla convention.

Ma i delegati in palio nel Super-Martedì, il 1° marzo, quando i repubblicani votano in 14 Stati, e poi a metà marzo, quando ci sono le primarie in Stati grandi e significativi come Florida e Ohio, possono avvicinarlo di molto al traguardo. Tanto più che in molti casi l’assegnazione dei candidati avverrà con il sistema maggioritario e non proporzionale: chi vince prende tutto. A Trump, dunque, basta essere primo per fare bottino pieno . E i suoi rivali, il senatore del Texas Ted Cruz, che lo ha già battuto nello Iowa e potrebbe vincere in Texas, e il senatore Rubio, che non ha ancora vinto, ma potrebbe farlo in Florida, non paiono avere al momento la forza di scavalcarlo né possono sommare i loro voti, perché i sostenitori dell’ultra-conservatore evangelico Cruz sono più vicini a Trump che a Rubio.

In Nevada, le assemblee sono state caratterizzate da un'affluenza record e da molte irregolarità: doppi voti e scrutatori di parte che indossavano t-shirt del magnate. Le prime analisi elettorali dicono che lo showman ha vinto anche tra i latini  - nonostante gli insulti - e gli evangelici. "Saranno due mesi incredibili - ha esultato Trump -, ma ad essere onesti potremmo anche non avere bisogno di due mesi. Sarete orgogliosi del vostro presidente e sarete di nuovo orgogliosi del vostro Paese".

Dopo il voto, Rubio è andato a dormire: è arrivato secondo, ma non sarebbe stato primo neppure sommando ai suoi voti il 10% striminzito di Ben Carson e John Kasich insieme. Cruz s’è invece congratulato con Trump, ma ha aggiunto: "La storia ci insegna che nessuno ha mai ottenuto la nomination senza essersi aggiudicato almeno una delle prime tre primarie e gli unici ad averlo fatto siamo Trump ed io". Cruz ha pure detto: "Non vedo l'ora di tornare a casa in Texas", dove si vota martedì.

Trump, invece, ha avuto toni trionfali: "Abbiamo vinto il 46% dei voti degli ispanici" in Nevada, “abbiamo vinto anche tra gli evangelici, tra i giovani, tra le persone istruite e quelle non istruite. Abbiamo vinto tutto. E' stata una notte eccezionale: stiamo andando nella giusta direzione … Amo gli ispanici e amo il Messico, ma costruiremo il muro". (gp)

mercoledì 24 febbraio 2016

Italia/Usa: Libia e droni, Wikileaks, Abou Omar, l'America è sempre l'America

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/02/2016 

L’America è sempre l’America: accennatelo sul ritornello di ‘Domenica è sempre Domenica’ sigla di successo del Musichiere, Mario Riva, Paolo Bacilieri e Lucia Bongiovanni, un’Italia in bianco e nero che non c’è più. O che c’è ancora: negli anni fedele all’alleanza con gli Stati Uniti e sempre tentennante tra il fare - quel che vuole Washington - e l’ammetterlo. E così mentre il premier Renzi e i suoi ministri s’arrampicano sugli specchi, senza bisogno, per i droni al decollo da Sigonella verso la Libia, a fare la guerra al Califfo, scoppiano altre due grane sull’asse del Grande Alleato.
Proprio perché ’l’America è sempre l’America, che il presidente sia Eisenhower o Clinton o Bush II o Obama: attenta a tutelare i propri cittadini e a chiedere agli alleati il rispetto delle proprie regole, anche quando sono discutibili. Per il sequestro Abou Omar, noi abbiamo graziato gli agenti Cia responsabili di quella ‘extraordinary rendition’, ma la Corte di Strasburgo ci condanna ora a pagare i danni per avere violato il diritto dell’imam a non essere torturato. E, in un rigurgito di Wikileaks, si apprende che la Nsa, la National security agency spiava l’allora premier Berlusconi poco prima della sostituzione al governo nel novembre 2012, con la Merkel e Hollande che lo avvertivano “o fai qualcosa o l’Italia salta come un tappo di champagne”. Saltò lui, che adesso grida al complotto.
Il fatto è che, se l’America vuole qualcosa dall’Italia, la ottiene; e se l’America vuole fare qualcosa, in genere la fa. Valgono pure i precedenti dei giudizi sulla tragedia del Cermis o sull’uccisione di Calipari a Baghdad. Chi ci sia alla Casa Bianca cambia poco: anche Obama, presidente del dialogo che esita a ricorrere alla forza, tutela gli interessi americani ed i suoi uomini, pure quando, come gli agenti della Cia nel caso Abou Omar, hanno agito violando principi da lui affermati, ma osservando le leggi federali. Adesso che sta per concludere il proprio mandato, Obama annuncia che chiuderà il carcere di Guantanamo – una promessa del 2008 -, ma per convincere il Congresso usa l’argomento del bilancio – “Costa troppo” -, non quello della giustizia, anche se ammette che quella prigione “appanna l’immagine dell’America”.
Sui droni in Libia, dopo le rivelazioni del Wall Street Journal, noi italiani, che sbanderiamo all’Onu e altrove la volontà di “assumere la leadership di una missione internazionale”, prima diciamo che possono decollare da Sigonella solo per missioni difensive, poi Renzi afferma che il via libera viene dato caso per caso, la Pinotti sostiene che non sono mai partiti e Gentiloni assicura che il loro uso non è preludio a un intervento militare. Una cacofonia di voci che non fa chiarezza, mentre il governo viene sollecitato dalle opposizioni a riferire in Parlamento.
Renzi, che vede “segnali di speranza” per la Siria, dove venerdì dovrebbe scattare la tregua, dice che la Libia sta vivendo “ore decisive”. Ma, a Tobruk, il Parlamento rinvia ancora una volta il voto sul governo d’unità nazionale del premier designato al-Sarray: manca il numero legale, se ne riparlerà la prossima settimana. L’esecutivo posticcio perde i pezzi prima d’insediarsi: un ministro, el Amary, si dimette per il via libera dato alle operazioni a Bengasi, ufficialmente condotte contro miliziani jihadisti. “Non sto in un governo – dice – che legalizza i bombardamenti di civili, è fiero di uccisioni e si rallegra della demolizione d’abitazioni”. Il premier ‘in pectore’ al Sarray va al Cairo, mentre, alla Sirte, gli integralisti manifestano la loro presenza lapidando tre libici accusati d’apostasia: non c’è un drone a fermarli, da dovunque venga.

Repubblicani: Trump vince pure in Nevada, Rubio davanti a Cruz

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 24/02/2016 

Sulla ruota di Las Vegas, esce il terno di Donald Trump, che, dopo le primarie di New Hampshire e South Carolina, si aggiudica pure le assemblee del Nevada, col 45% dei suffragi circa. Dietro di lui, il senatore della Florida Marco Rubio è ancora secondo, battendo quello del Texas Ted Cruz, 24 a 20%. Ben Carson è al 6%, John Kasich al 4%.

Ai suoi fans, lo showman promette che la nomination sarà cosa fatta “in meno di due mesi”, anche se il traguardo dei 1237 delegati necessari per ottenerla resta molto lontano: con quelli ottenuti in Nevada, Trump non arriva a cento.

Ma il 1° marzo, nel ‘Super-Martedì’, con 14 Stati alle urne, e poi a metà marzo, con i voti in alcuni grandi Stati, fra cui i cruciali Florida e Ohio, i delegati in palio saranno quasi la metà del totale e spesso non varrà il criterio proporzionale ma quello maggioritario: chi è primo se li aggiudica tutti. Se uno degli avversari di Trump non emerge con forza, il magnate dell’immobiliare ha davanti a sé un’autostrada per la nomination.

L'appuntamento in Nevada era un test interessante perché lo Stato del gioco e dei matrimoni facili, tendenzialmente repubblicano, conta circa il 40% di ‘latinos’ su una popolazione di oltre 3 milioni di abitanti: la retorica ‘anti-immigrati’ di Trump poteva danneggiarlo, ma a conti fatti non è stato così. E nel discorso di celebrazione della vittoria il magnate dell’immobiliare ha ribadito l’intensione di alzare un muro al confine con il Messico (e di mantenere aperto il carcere di Guantanamo, contro le intenzioni di nuovo manifestate dal presidente Obama).

I leader ispanici repubblicani del Nevada appoggiavano Jeb Bush e, dopo il suo ritiro, hanno probabilmente optato per Rubio. (fonti vv - gp)

martedì 23 febbraio 2016

Libia/Siria: droni Usa partono da Sigonella, la tregua da sabato

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/02/2016

Fu terreno di scontro, a salvaguardia della sovranità italiana anche davanti all’alleato americano; ed oggi è terreno di baratto: trenta e più anni dopo, la base di Sigonella è di nuovo al centro delle scelte anti-terrorismo di Washington e di Roma. Secondo il Wall Street Journal, che cita fonti Usa, da lì, da gennaio, partono droni americani per operazioni “difensive” nella guerra contro il sedicente Stato islamico, specie in Libia.

L’autorizzazione all’impiego della base sarebbe stata data “con discrezione” dal governo italiano. E’ dal 2011, cioè dal tempo delle primavere arabe e dell’intervento in Libia a sostegno dell’insurrezione contro Gheddafi, che droni Usa e militari di supporto – oltre un migliaio, pare – sono di stanza a Sigonella. Sulla pista della base, nell’ottobre del 1985, si rischiò lo scontro a fuoco tra gli avieri della Vam e i carabinieri, da una parte, e commando della Delta Force, dall’altra, perché Craxi e Reagan non trovavano l’accordo su chi dovesse giudicare i dirottatori palestinesi della Achille Lauro, che avevano ucciso un cittadino statunitense.

Secondo il WSJ, Obama sta ancora tentando di convincere Renzi ad autorizzare l'uso dei droni anche in operazioni offensive, come quella condotta venerdì scorso contro un campo d’addestramento degli jihadisti a Sabrata, nel nord-ovest della Libia, quasi al confine con la Tunisia. Quell’attacco, partito dalla Gran Bretagna, ha ucciso decine di miliziani e avrebbe pure eliminato l’organizzatore degli attentati al museo del Bardo di Tunisi e sulla spiaggia di Sousse, ma ha anche causato la morte di due ostaggi serbi.

I droni sono spesso oggetto di trattativa tra Roma e Washington, che solo a novembre autorizzò l’Italia ad armare i propri, usati per lo più in operazioni di ricognizione. Il no di Renzi a fare partire da Sigonella missioni offensive nasce – sostiene il WSJ – dal timore di alimentare l’opposizione alla guerra, specie se i droni facessero vittime civili.

L’autorizzazione data dalle autorità italiane non è necessariamente prodromo – si precisa a Roma - a un’operazione militare in Libia, da attuare, comunque, solo dopo che il governo d’unità nazionale si sarà insediato – il Parlamento di Tobruk s’appresta a votare -. Secondo fonti di stampa Usa, l’Italia avrebbe già espresso la disponibilità a inviare in Libia fino a 5mila uomini e Gran Bretagna e Francia sarebbero pronte ad agire. Ma resta da definire il mandato dell’operazione, se mai si farà, in un territorio in parte controllato dagli jihadisti, non solo alla Sirte e a Derna.

Su un altro fronte della guerra agli integralisti islamici, i sanguinosi attentati di domenica in Siria, forse i più letali del conflitto, hanno indotto Usa e Russia a stringere i tempi per un accordo: Obama e Putin si sono parlati, dopo che Kerry e Lavrov avevano concordato che la tregua, che doveva già partire venerdì scorso, scatterà venerdì 26. C’è pure l’intesa delle opposizioni al regime di Assad, riunite a Riad. Il ‘cessate-il-fuoco’, che non riguarderà le operazioni contro il Califfato e le milizie di al Nousra,  dovrebbe consentire la distribuzione alle popolazioni di aiuti umanitari, lo scambio dei prigionieri e la ripresa delle trattative a Ginevra sulla transizione politica siriana.

La Turchia ha, nel frattempo, ribadito che non intende inviare in Siria truppe di terra, neppure insieme all’Arabia saudita. In visita ad Ankara, il ministro degli Esteri Gentiloni ha affermato che, se i raid aerei non dovessero bastare, l’invio di truppe contro gli jihadisti potrebbe avvenire solo nell’ambito di una ampia coalizione. 

Usa 2016: repubblicani, Trump cerca di zavorrare Rubio in ascesa

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 23/02/2016

Prima Ted Cruz, ora Marco Rubio: Donald Trump cerca di mettere fuori gioco i rivali al momento più pericolosi, contestandone il diritto a diventare presidente che la Costituzione riconosce soltanto a chi nasce cittadino americano. Cruz è nato in Canada da padre cubano e madre americana, che poteva, quindi, trasmettergli immediatamente la cittadinanza; Rubio è nato a Miami, da genitori cubani divenuti cittadini americani solo quattro anni dopo (ma chi nasce sul suolo statunitense è automaticamente cittadino, valendo lo ius soli). Gli esperti di diritto sono inclini a ritenere che sia Cruz che Rubio abbiano i requisiti per divenire presidenti, ma Trump solleva lo stesso la questione (e contro Cruz c’è pure una causa in corso nell’Illinois).

La polemica si riaccende nel giorno delle assemblee repubblicane nel Nevada – quelle democratiche ci sono state sabato scorso -, mentre Hillary Clinton e Bernie Sanders fanno già campagna altrove: nella South Carolina – dove i democratici votano sabato 27 – e negli Stati contesi nel Super-Martedì il 1° marzo: l’ex first lady, che ieri ha ricevuto l’endorsement dimostrativo di Matteo Renzi, cerca, specie al Sud, un successo netto, che ne legittimi, definitivamente, le ambizioni di nomination.

Trump, che nei sondaggi per il Super-Martedì è avanti in 10 Stati dei 14 dove votano i repubblicani, persino nel Texas di Cruz, parla già di Hillary come della sua avversaria l’8 Novembre (“se non sarà incriminata” per l’ ‘emailgate’, aggiunge). E i bookmakers la danno favorita in un confronto con lo showman.

Il battistrada repubblicano ha appena reclutato nella sua squadra Rudolph Giuliani, il sindaco ‘Law and Order’ di New York, un’icona dell’11 Settembre 2001 e una sorta di antidoto alla candidatura come indipendente di Michael Bloomberg – se mai l’ipotesi si concretizzasse -.

Trump è il favorito nel Nevada, dove Rubio punta a essere di nuovo secondo, cioè a fare di nuovo meglio di Cruz. Rubio sta emergendo come l’avversario più temibile del magnate dell’immobiliare (e l’attacco sulla cittadinanza indica che il pericolo viene percepito): il senatore della Florida, che ha appena avuto l’appoggio di Bob Dole, candidato repubblicano sconfitto nel 1996 da Bill Clinton, potrebbe coagulare i voti dei moderati e dell’establishment e raccogliere i suffragi di Jeb Bush, che s’è ritirato, e pure di John Kasich e di Ben Carson, quando si ritireranno –anche se il governatore dell’Ohio spera ancora d’insidiargli il ruolo -.

Dalla parte di Rubio, c’è pure la grande finanza, di cui, però, Trump non ha bisogno perché si paga la campagna da sé. Il senatore dovrebbe ereditare i sostenitori di Bush – il candidato più foraggiato (ma poco votato) – ed è già quello che raccoglie più fondi dai donatori individuali di Wall Street, anche più della Clinton. (fonti vv – gp)

lunedì 22 febbraio 2016

Italia/Ue: Moavero, ci vuole la visione, ma pure la competenza

Pubblicata sul numero 3 de l'Osservatore Economico, febbraio 2016

“L’attenzione all'evoluzione istituzionale dell’Unione europea, nel medio-lungo periodo non può diventare un alibi che porti a trascurare le tante questioni aperte tra Ue e Italia, per affrontare le quali sono indispensabili specifiche competenze politico tecniche”: lo afferma, in questa intervista a L’Osservatore economico, Enzo Moavero Milanesi, giurista di formazione, oggi uno dei massimi esperti italiani di Unione europea.

Moavero è stato ministro per gli Affari europei nei Governi Monti e Letta tra il 2011 e il 2014, dopo essere stato alla Commissione europea come capo di gabinetto, poi come segretario generale vicarioe direttore generale del Bureau of European Policy Advisors; e infine, giudice al Tribunale dell’Ue a Lussemburgo.

Commentando le recenti tensioni tra l’Italia e i partner e le Istituzioni europee, Moavero dice: “Penso che noi dovremmo dare la precedenza alla soluzione di ciascuna questione aperta. E questo, anche per accrescere la nostra credibilità: al fine di attirare il consenso degli altri Stati intorno alle nostre idee per il futuro dell’Europa; fattore decisivo, se vogliamo davvero incidere sui cambiamenti degli assetti Ue”.


Quali obiettivi l'Italia può e/o deve perseguire in questo momento nell'Unione europea?, dal punto di vista sia dell'avanzamento, o meno, dell'integrazione sia della soluzione dei singoli problemi d’entità diversa che ci coinvolgono (migranti, flessibilità, banche, Ilva, etc.)?

Siamo in una fase delicata. E’ inusuale che siano aperte, contemporaneamente, così tante questioni che ci riguardano: sia orizzontali europee, sia specifiche agli adempimenti italiani. A mio parere, dovremmo gestirle nell’ottica di un approccio politico tecnico d’insieme, dando la precedenza alla soluzione dei più rilevanti fra i singoli problemi che ci toccano direttamente. Per esempio: le discussioni relative alla Legge di Stabilità e al grado di flessibilità che può essere utilizzato, sono orizzontali; anche l’applicazione delle nuove norme della cosiddetta unione bancaria è orizzontale; così come lo è il dramma dei migranti. Peraltro, tutte hanno un notevole impatto sulla realtà italiana e nei rapporti fra noi e l’Unione. Dunque, per risolverle, occorre agire in sintonia con altri paesi, ricercando una linea comune e una maggioranza a livello Ue, coniugando sapientemente il nostro interesse nazionale con quello più generale europeo. Diverso è, invece, il caso delle molte procedure per violazione del diritto Ue pendenti contro l’Italia (pensiamo alla questione dell’Ilva; e ce ne sono svariate altre, perché siamo il paese con il maggior numero di procedure d’infrazione, nonostante i progressi fatti negli ultimi anni). Qui il problema - di certo non nuovo – è di adeguare più speditamente e coerentemente il nostro sistema al quadro normativo dell’Unione; un quadro che, come Stato membro, collaboriamo a formare. Non è facile, ma dobbiamo perseverare e accelerare lo sforzo: per essere nella piena legittimità europea e corroborare la nostra credibilità.

Il contesto attuale è davvero complesso; segue sconvolgimenti epocali che hanno inciso profondamente sull’Unione europea: la globalizzazione, la crisi economica, le grandi migrazioni, le guerre in aree a noi vicinissime.  Tutto questo si è susseguito in tempi rapidi e ha messo a nudo un numero considerevole di debolezze dell’Ue, quasi tutte dovute alla natura incompiuta del processo di integrazione. L’Europa dei 28 non è una federazione, ma non è più neppure una classica organizzazione internazionale fra Stati pienamente sovrani. E tutto ciò impone di riflettere - e velocemente - sul come debba configurarsi l’Unione per essere compresa dai suoi cittadini e forte nel mondo.

In sintesi, ci sono due piani che si vanno evidenziando e sviluppando in parallelo: uno attiene all’Europa che c’è già, al suo quotidiano; l’altro riguarda il divenire dell’Unione, la sua prospettiva, l’assetto che desideriamo assuma. Io credo che non si debba parlare e ragionare prevalentemente del secondo, trascurando o relegando al versante meramente tecnico le vicende che caratterizzano la vita dell’Unione di oggi, come del resto hanno caratterizzato gli oltre 60 anni di costruzione ‘comunitaria’.

Bisogna curare la logica e l’armonia con le quali sviluppare entrambi i due discorsi. Come è ovvio, richiedono un differente approccio. Più politico e di visione, per la prospettiva istituzionale, che verosimilmente richiede una modifica degli attuali Trattati base. Più puntualmente politico tecnico, per risolvere le vertenze giuridiche e quelle economiche e di bilancio. Quest’ultima azione deve essere realista, abile nelle argomentazioni, inventiva nelle ipotesi, ma sempre conforme alle regole vigenti; mettersi fuori o operare al limite di quest’ultime non paga: ci sono conseguenze sulla nostra reputazione e spesso si incorre in sanzioni. E’ un dovere essere meticolosi, solidi e concreti; ad esempio: affermare il valore dell’accoglienza dei migranti è nobile, ma nel contempo, va prestata attenzione agli aspetti materiali, di sicurezza, di costi del welfare; lo stesso vale per la tenuta della Legge di Stabilità o per gli interventi di aiuto dello Stato alle imprese.


In che rapporto l'Italia deve porsi, nei confronti delle Istituzioni europee - Commissione, Consiglio, Parlamento - e nei confronti degli Stati membri? L’approccio conflittuale delle ultime settimane è utile?

Spesso ci sono incomprensioni quando due interlocutori dialogano collocandosi su piani diversi. Quindi, se uno affronta le questioni in termini schiettamente politici, e l’altro anche in termini più tecnici, il rischio di non capirsi cresce. Non di rado, nel dialogo tra l’Italia e le istituzioni Ue o altri Stati partner, questo rischio emerge: loro si muovono sempre su un piano tecnico e politico (e hanno, sul terreno persone molto competenti e dotate di capacità politiche); invece, spesso, i nostri rappresentanti operano in maniera meno abilmente articolata e pertinente alla materia specifica.

La difficoltà è che quanto più sono difficili e controverse le questioni specifiche (controlli alle frontiere, Legge di Stabilità, salvataggi di banche o aiuti pubblici alle aziende), tanto più devi avere perizia tecnica, diligente preparazione, capacità negoziale: in poche parole, devi essere concretamente ‘sul pezzo’. Dunque, la prima sfida è quella di un’adeguata preparazione nel dettaglio dei dossier, per poterli gestire bene, senza rischiare malintesi. La seconda sfida, è la puntualità; bisogna vigilare sull’insieme delle frequenti novità normative Ue e adeguarvisi nei tempi più rapidi, evitando lungaggini legislative e procedurali. Sempre per fare esempi. Se discuti di immigrazione e vuoi salvaguardare la libertà di circolazione del ‘sistema Schengen’, non puoi non garantire i partner (con validi controlli d’identità) su chi arriva in frontiera; sapendo che non è solo la frontiera del tuo paese, ma anche quella dell’Unione. Se si parla del rischio dei debiti pubblici molto alti (come è quello italiano), devi essere cosciente che per darti la loro fiducia, i partner richiedono che il deficit annuale sia tenuto sotto controllo; le richieste di deroghe al riguardo, vanno pertanto argomentate con estrema efficacia e ampi dettagli su elementi di comune interesse.

Va anche detto che, sovente, si sentono affermazioni inesatte, inutilmente enfatizzate. Ad esempio: “La Francia è, da tempo, oltre il 3% di deficit, ma a noi non lo consentono”. E’ un discorso privo di senso: il trattamento è il medesimo: la Francia è sotto la procedura per ‘disavanzo eccessivo’, subisce controlli costanti da parte delle autorità europee e fruisce di margini di flessibilità minimi. Se, oggi, i nostri margini sono maggiori, lo dobbiamo al fatto che nel 2013, siamo riusciti a chiudere l’analoga procedura che pendeva nei nostri confronti. In effetti, quando si violano le regole sul deficit, la sanzione è l’apertura di tale procedura con la severa sorveglianza e la minore flessibilità che ne conseguono; esattamente quello che sta già accadendo a Francia e Spagna. Consideriamo, inoltre, che rischiare sul deficit per l’Italia è più pericoloso: noi abbiamo un debito pubblico oltre il 130% del prodotto interno lordo (Pil), mentre Francia e Spagna sono sempre sotto il 100% del loro Pil.

Tutto questo per ricordare, sommariamente, dati, fatti e regole. Distinto è il quesito sull’attitudine nei contatti, nei dibattiti e nei negoziati. Posto che, se si ritiene di avere buone ragioni, vanno esposte con determinazione, la scelta fra i mitici ‘pugni sul tavolo’ e un approccio più ‘rotondo’, ha un’importanza relativa. Ciascuno sceglie quello a lui più congeniale, per carattere personale o scelta deliberata. La forza sta nella validità o meno degli argomenti: se scarsi o inefficaci, prestano il fianco a critiche e in tal caso – come accade nella vita di tutti i giorni - alzare i toni, suscita irritazione e può’ causare antipatici litigi.

Suggerisco sempre di partire dalla base, con un’interlocuzione costante fra funzionari tecnicamente preparati e via via, salire di livello; coscienti che in Europa, ci si aspetta che anche il politico abbia un’alta competenza tecnica, giuridica ed economica. Solo così, puoi difendere il Paese anche sui punti più difficili; in caso contrario, il tuo interlocutore ha un netto vantaggio. L’approccio duale, tecnico-politico, ben preparato, articolato e strutturato non solo è il migliore, è l’unico che funziona e scongiura i malintesi.


Lei ha mai avuto la sensazione, o la convinzione, che l'Italia fosse, o sia, trattata peggio di come merita dalle Istituzioni  comunitarie?

Francamente, in vent’anni di Commissione europea e sei anni di Corte di Giustizia, non ho mai visto trattare un Stato peggio degli altri. I complessi di persecuzione non aiutano. Come dicevo poc’anzi, solo se ti presenti impreparato e senza argomenti, ti trovi in  difficoltà e ti metti da solo in condizione di debolezza: può succedere ed è uno sprone a fare meglio; di sicuro,  ho anche visto tante situazioni in cui è accaduto il contrario. Le istituzioni Ue non sono ‘cattive’, fanno il loro dovere e ne rispondono. Se un governo pensa di essere maltrattato, può – e dovrebbe – sempre fare ricorso al giudizio della Corte di giustizia.

Non va neppure dimenticato, per esempio,  che ci sono norme, come quelle sugli aiuti di Stato, rispetto alle quali l’Italia ha difficoltà di cultura economica e d’impresa, nonché di struttura Paese. Per decenni abbiamo erogato più aiuti di tutti, spendendo risorse pubbliche, aumentando il debito pubblico: di conseguenza, avevamo un contenzioso enorme. Il paradosso è che oggi ne diamo molti di meno, ma i casi di contenzioso restano numerosi, perché spesso i nostri regimi di aiuto confliggono con il diritto Ue. Che fare? Di sicuro, più attenzione nel predisporli; le norme di riferimento le conosciamo anche noi.


La decisione d’inviare a Bruxelles un rappresentante permanente 'politico' e non 'diplomatico' può preludere a un miglioramento delle nostre capacità negoziali? E/o può contribuire a farci 'rispettare di più'?

La risposta giusta ce la daranno il tempo e la prova dei fatti. Per il resto: la nostra legge consente la nomina di ambasciatori fuori dalla carriera diplomatica; inoltre,  è evidente che una scelta del genere spetta al premier e al ministro degli esteri, i quali avranno fatto le loro valutazioni in piena responsabilità e conoscenza di causa.

Certo, dal punto di vista della nostra diplomazia, una scelta del genere non appare un elogio. Al momento attuale non si può che prendere atto del fatto che il premier ha voluto una cesura rispetto al passato. Certo sarebbe interessante comprendere meglio, da un lato, per quale ragione una persona collaudata come Stefano Sannino – il rappresentante permanente appena sostituito, ndr -  sia stato considerato inidoneo; e dall’altro, come mai non ci fosse nessuno in Farnesina in grado di sostituirlo, con piena soddisfazione del governo.

Per chi è stato prescelto, comporta una sfida significativa: subito in prima linea, in un ambiente complesso di persone che si conoscono da anni, con meccanismi procedurali articolati e dossier complicati sul tavolo. Ci sono grandi aspettative, ogni atto sarà scrutinato nella forma e nella sostanza. Bisogna garantirgli tutto il supporto possibile e solo in corso d’opera si potranno giudicare i risultati.

Usa 2016: la conta dei delegati, Hillary a un quarto del cammino, Trump al 5%

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/02/2016

Le campagne per le nominations democratica e repubblicana incrociano i cammini in queste ore: già domani, martedì 23, ci sono in Nevada le assemblee repubblicane – sabato scorso, il 20, ci sono state quelle democratiche -, mentre sabato 27 i democratici votano in South Carolina – dove il 20 hanno votato i repubblicani -.

Ma gli occhi sono già puntati sul Super-Martedì, quando si vota, sempre con formule e modalità diverse, in 14 Stati –in alcuni, votano solo gli elettori di un partito- e in alcuni territori. Fra gli Stati alle urne, il Texas –il terzo dell’Unione per popolazione- e la Virginia.

Intanto, si comincia a fare la conta dei delegati: la situazione è molto più avanzata fra i democratici, dove molti super-delegati si sono già schierati e quasi tutti stanno con Hillary – i super-delegati sono figure di spicco del partito che possono scegliere chi appoggiare in qualsiasi momento -, mentre fra i repubblicani siamo ancora ai numeri iniziali.

Queste, comunque, le posizioni – fonte, il sito uspresidentialelectionnews.com -:

Democratici: delegati alla convention 4.763, delegati già assegnati 572 – oltre il 12% -, delegati da assegnare 4.191, maggioranza necessaria 2.382. Hillary Clinton s’è finora assicurata 51 delegati popolari e 451 super-delegati ed è quindi a 502, quasi a un quarto del cammino; Bernie Sanders s’è conquistato lo stesso numero di delegati popolari (51), ma ha solo 19 super-delegati ed è solo a 70. Hillary ha vinto in Iowa e Nevada; Sanders in New Hampshire.

Repubblicani: delegati alla convention 2.464, delegati già assegnati 94 – meno del 4% -, delegati da assegnare 2.370, maggioranza necessaria 1.237. Donald Trump ne ha 61 – non è neanche al 5% -, Ted Cruz 11, Marco Rubio 10, John Kasich 5, Jeb Bush 4 – andranno al candidato che lui deciderà di appoggiare -, Ben Carson 3. Trump ha vinto in Neh Hampshire e South Carolina, Cruz in Iowa. (gp)